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Il feticcio della libertà d'espressione

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Articolo di Tommaso Palmi e Marco Piccolo per una critica del concetto di libertà di espressione

La libertà di espressione, oltre l’idea stessa di democrazia, è il più grande feticcio delle democrazie occidentali. Volendo cominciare dalle conclusioni, osserviamo come il concetto di libertà di espressione, tanto caro ai sinceri democratici, se interpretato e applicato al di fuori dellideologia relativista della società dominante, si converta in libertà di repressione selettiva.

Ora, qualunque Matteo Salvini o Donald Trump può dire qualsiasi cosa perché è un suo diritto poterlo fare, mentre i contestatori dei centri sociali sarebbero degli squadristi, ancora più fascisti dei fascisti stessi. Prima di soffermarsi sulla natura più profonda di questo traviato diritto, occorre una breve premessa:in Italia la libertà di espressione trova le sue radiciin una comunità politica che è nata a partire dalla resistenza partigiana e, pertanto, dallesclusione delle categorie politiche di estrema destra. Diretta conseguenza ne è l’individuazione sul piano giuridico dell’“apologia di fascismo” come reato perseguibile penalmente.

Il feticcio della libertà di espressione nasce e si sviluppa parallelamente allidea tipicamente borghese della tolleranza, per cui laltro può essere portatore di qualsiasi contenuto o azione politica,a condizione che non venga invasa la sfera privata. Questa realtà sociale atomizzata finisce per stigmatizzare qualsiasi possibilità di critica e rifiuto, anche di opinioni inaccettabili. Di conseguenza, il rapporto con laltro non si deve più formulare a partire dal confronto fra opinioni politiche, ma a partire da un criterio di mera utilità e produttività. Tale impostazione è perfettamente coerente con il processo di formazione delluomo come imprenditore di se stesso, che entra in relazione con gli altri col solo scopo di ricavarne profitto, quasi come se il capitalismo avesse trasformato ogni homo oeconomicus in una monade completamente separata dalla complessità della realtà sociale. Il politico diventa monopolio della rappresentanza di governo, che si incarica di gestire la cosa pubblica - o meglio, le relazioni di mercato - al di fuori della partecipazione diretta della popolazione. Il sociale si presenta quindi come spazio ovattato dove il conflitto politico,ovvero la presa di posizione politica (“odio gli indifferenti”), deve scomparire schiacciata dall’oppressione reale delleconomia. E’ a questidea della tolleranza che si lega il tanto conclamato diritto alla libertà di espressione; in nome di questo diritto chiunque può dire qualsiasi cosa, per quanto aberrante, nella paradossale indifferenza generale, come se si utilizzasse una formula magica che permette limpunità dallaltrimenti ovvia condanna. Il politico viene definitivamente espulso dal sociale teorizzando limpossibilità di giudizio in quella sede, per rimandarlo nelle “apposite” sedi decisionali controllate dall’elitè politica, relegando i cittadini nel ruolo di meri consumatori.

La libertà di espressione è così diventata uno strumento di spoliticizzazione della società, dove il conflitto sociale e la presa di posizione vengono anestetizzati dallenunciazione di un relativismo insormontabile, che in unottica postmodernista rinuncia a qualsiasi criterio di giudizio, rivendicando la necessità di sorpassare le “ideologie ormai crollate del novecento (salvo quella capitalista, opportunamente occultata). Ogni discorso politico è quindi spostato e delegato dal sociale allagone parlamentare tra le due opposte tendenze, accettate perché congenite, del capitalismo: lo spirito globalista, social-riformista, e lo spirito razzista e sessista impersonato dalle nuove destre dei vari Salvini, libere di esporre le loro opinioni, anche se contrastanti con i più elementari diritti umani.

Chi rimane escluso dallagone parlamentare e quindi subisce, nella realtà dei fatti, una censura della propria espressione è chi mira al rovesciamento del sistema e alla rottura di questo perverso meccanismo di spoliticizzazione del 99% degli oppressi. Sono questi ultimia rivendicare un ritorno alla categoria del politico, nel senso conflittuale del termine, al di fuori di quelle che sono le istituzioni preposte al mantenimento dellimpalcatura statale capitalista. Sono questi ultimi che, contro la spoliticizzazione delleconomia e della politica, vogliono riaffermare il primato della contestazione, da intendersi come volontà di svegliare e trascinare le particolarità sociali nella realtà del conflitto di classe.

Ecco che allora quando il diritto alla libertà di espressione viene inteso in questo senso (corretto) come diritto alla contestazione, il “tonfa” si abbatte con forza sul manifestante, il giornale scrive articoli incendiari contro gli studenti che criticano un professore guerrafondaio, la Questura distribuisce misure cautelari (rimangiandosi frettolosamente la “presunzione d’innocenza”, base del diritto borghese). Ecco che la libertà di espressione, tanto cara ai sinceri democratici, si trasforma magicamente in repressione selettiva e demonizzazione di chiunque, contestando lordine esistente, faccia emergere come questo non sia affatto il migliore dei mondi possibili e neanche lunico possibile, di chiunque cioè applichi tale diritto nella sua forma più pura: la contestazione.

Diventa allora opportuno riappropriarci di questo diritto che vuole esserci derubato da quanti ci demonizzano. Strapparlo alla tolleranza della spoliticizzazione delleconomia politica e ridargli vita come riappropriazione della conflittualità reale, in una società che vorrebbe presentarsi neutra ma in cui pensare ed esprimersi fuori dallomologazione, a dispetto di quanto si dice, diventa sempre più pericoloso.