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Il keynesismo impossibile

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Contributo di Adelino Zanini al dibattito “Welcome Back Mr Socialism?”

Non vedo chi possa essere così sprov­veduto da pensare alla riedizione, rivista e corretta, di un keynesismo continentale (aper­tis verbis: europeo), pur all’altezza dei tempi. Il keynesismo è semplicemente com­piuto e improponibile; mancano del tutto e da decenni, ormai, i presupposti pattizi su cui si reggeva, i quali erano, per lo più, “occidentali” e basta. Non c’è keynesismo senza classe operaia; quindi, non può darsi in as­senza di soggetti collettivi politicamente organizzati; di un “patto” tra classe operaia e capitale industriale – che non escludeva affatto la con­flittualità e che as­sumeva, anzi, come suo problema, la necessaria sconfitta defi­nitiva dell’altro; di costituzioni monetarie nazionali; di un ordine monetario internazionale in grado di esercitare controlli efficaci sui movimenti mo­netari e finan­ziari; di un regime tran­snazionale sorretto da autorità nazionali ca­paci, in ultima istanza, di porre dei freni al riverberarsi di un eventuale disordine economico mon­diale.Di queste condizioni non ve n’è una che resista. In particolare, oggi, soggetti collettivi poli­ticamente organiz­zati non se ne vedono e quando emergono ricadono, presto, nella logica della rappresentazione/rappresentanza. Il moltipli­carsi di identità ha poi reso impratica­bile una pattuizione di tipo macroeconomico. L’idea centrale di patto, la sua isti­tuzione, è frantumata. Qualunque sia il giudizio che se ne voglia dare, la moltitu­dine è un soggetto politico che sul terreno macro­economico ha una capacità di contrattazione per lo più nulla, a meno che non si diano (ma a livello nazionale, per ora) intersezioni particolarmente efficaci (osservo, da lontano, quanto sta accadendo in Francia in queste ore).

C’è però un paradosso – si è detto e si dice. In breve: il keynesismo non serve più a rappresentare un’istanza pattizia-conflittuale nelle società postmoderne, ma quando si arrivi al dunque, il refrain sembra essere il solito: bisogni sociali, garanzie di reddito, etc. In realtà, non è forse questo il problema, rappresentato invece dal quesito: a chi debbono essere rivolte tali claims? Qual è l’entità politica “mi­nima” a cui indirizzarle? Di certo, non lo stato nazionale, che dopo Maastricht può tagliare ma non elar­gire. E poi: ci sono “forme” politiche che possano coagulare tali rivendica­zioni? È proprio la recente esperienza greca ad indicare come lo sbocco “nazio­nale” sia impercorribile, a cagione e nonostante (proprio così) le più brutali e odiose imposizioni volute dalla troika, alle quali pur si sono opposte lotte duris­sime. L’entità politica “minima” non può che es­sere l’Europa, dunque? Di­rei di sì, ma lo sbocco non è garantito, perché il circolo non è affatto virtuoso. Non in que­sto momento e non con queste “forme”. Il radicalismo della ragione è per que­sto ancor più necessario; una reto­rica muscolare, invece, è del tutto superflua, al pari di una vetero-liturgia della volontà. Festina lente.