Stampa

Come si diviene un militante?

on .

Alcune note di Andrea Russo e Marcello Tarì a partire da Elogio della militanza

Infine pare sia venuta l’ora di cominciarea fare i conti con noi stessi: con quello che siamo stati, con quello che siamo e, forse, anche con quello che potremmo essere o non essere. È in questo spirito che abbiamo letto l’ultimo libro di Gigi Roggero, Elogio della militanza, ed è quello con il quale scriviamo queste poche note le quali, evidentemente, non costituiscono una “recensione”, ma una delle molte maniere di rispondere a un appello, e ogni testo, se è un buon testo, lo è.

Condividiamo l’approccio corrosivo che Gigi ha utilizzato – come un «piede di porco», per usare una delle sue (non)metafore – per scardinare tutta una serie di posture teorico-pratiche che nei lustri passati hanno orientato alcuni passaggi dei movimenti sociali italiani in particolare e, ovviamente, della vita dei militanti politici che vi sono passati attraverso. D’altra parte si potrebbe intendere questo gesto come il prendere atto della sconfitta di quelle posture, in particolare nelle strade, sconfitte dai “movimenti” cioè, che è il livello principale che interessa i militanti. Per quanto concerne altri livelli, in generale il giudizio dovrebbe essere conseguente, ma sappiamo bene che vi sono altri meccanismi che entrano in gioco e che non sono, almeno in questa sede, tra i nostro interessi maggiori. In ogni caso, giungere a mettere nero su bianco un fallimento, una sconfitta, pensiamo significhi di regola oltrepassare una soglia critica; così possiamo vedere finalmente quel determinato frammento di passato come qualcosa che si va ad aggiungere alle celebri macerie che si poggiano ai piedi dell’Angelo della Storia. Il trucco è non farsi incantare dalla visione delle rovine.

Facciamo parte di quella genia che l’operaismo ha continuato, bon gré mal gré, a generare fin dalla fine degli anni Sessanta, ovvero a partire dalla sua stessa fine, e dunque non abbiamo grandi difficoltà a orientarci nella mappa di pensiero che viene dispiegata nel libro. Quello che però ci interessa qui non è in primo luogo la discussione, pur importante, sulla continuità o discontinuità teorica che da Marx arriva ai nostri giorni passando per la cruna dell’ago operaista, bensì proprio ciò che viene messo a tema nel titolo del libro, cioè la figura del militante. Tutto nella tradizione rivoluzionaria è andato in pezzi negli scorsi decenni, questa è un’evidenza difficilmente aggirabile, ma quello che non appare esplicitamente nel testo ci sembra essere proprio la crisi di quel personaggio, o meglio, di quella forma di vita che è la militanza. Perché per noi questa è innanzitutto una particolare forma di vita e non l’inclinazione virtuosa di un soggetto o, al contrario, quella di colui che ha il vizio della politica.

Quello che cercheremo di fare nelle prossime righe è dunque nulla di più che accendere una piccola luce che illumini quello che a noi pare il cono d’ombra (voluto?) del libro.

Parafrasando Carl Schmitt, diremmo per cominciare: “Tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina della Rivoluzione sono concetti teologici secolarizzati”. E se si dice tutti, si intende un intero mondo composto da eventi, teorie, pratiche di organizzazione e personaggi.

Il militante è un personaggio della politica moderna, certamente, ma è anche un personaggio teologico secolarizzato. Si può discutere e battersi sul fatto se assumere la teologia oppure distruggerla o, viceversa, assumere la politica oppure distruggerla, ma senza partire da questo dato di fatto ci sembra che nessuna seria discussione sia possibile. Non riconoscere la dimensione teologico-politica nella genealogia storica del comunismo, per come la vediamo, ha sempre portato a delle incomprensioni fondamentali e ad una incapacità di farne eventualmente una seria critica. In fin dei conti, per quanto riguarda la storia del socialismo reale, in URSS fu eretta, probabilmente ancheper via di questa incapacità, una sorta di teocrazia secolarizzata ma, come diceva già Walter Benjamin, la teocrazia non ha alcun valore politico per il messianismo rivoluzionario, anzi ne è la sua neutralizzazione. Jacob Taubes, sull’apocalittica secolarizzata, giunge qui a proposito: «ciò che esteriormente si svolge come processo di secolarizzazione (…) della vita pubblica, ciò che si compie come graduale processo di neutralizzazione (…) si comprende come indice per la forma di vita tecnico-industriale», ma vi è anche un altro lato, «un volto interno, che testimonia della libertà dei figli di Dio» (In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt). Ecco, il divenire rivoluzionario è in quel volto interno, spesso dimenticato, sempre vituperato, ma sempre presente nella vita dei militanti.

Di ingredienti “teologici”, a proposito dell’operaismo, ve ne sono molti. C’è l’evento fondatore, Piazza Statuto, vi è la dottrina, con il suo Libro – Operai e capitale di Mario Tronti – e i suoi Vangeli – i Quaderni Rossi – e vi sono poi i conflitti per la sua interpretazione, conflitti che raggiungono i nostri giorni, come questo stesso libro sta a testimoniare. È Gigi stesso, per altro, a parlare di «patristica» operaista, e non ci è parsa essere giusto una nota folklorica.

Mario Tronti in una delle sue recenti pubblicazioni, Il Nano e il manichino, a un certo punto, discutendo di Walter Benjamin, dice: «Oggi, in uno stato normale, non c’è solo crisi della politica. C’è anche una crisi della teologia. Ricongiungerle è il compito messianico attuale. Se il tempo storico non riprende il tempo messianico, non c’è speranza che si esca dalla crisi della politica».

La crisi della militanza deve essere letta dentro la crisi della politica, questa è una banalità, ma la politica che ci interessa è in crisi – dice Tronti - perché è andato in crisi il paradigma teologico-politico che la sosteneva, questione invece non banale e che andrebbe affrontata molto seriamente. Quella crisi ha travolto il concetto stesso di militanza comunista e non poteva essere altrimenti perché non stiamo parlando di discussioni che servono giusto a riempire un convegno ma, appunto, di una forma di vita.

C’è da dire che, per la maggior parte, i militanti del ’900 sono stati di due tipi, come lo stesso Tronti citato da Gigi nel libro, mette in luce: il militante escatologico-apocalittico e quello katechontico, che spesso si sono scambiati i ruoli oppure li hanno mescolati in un cocktail micidiale. Ciascuno di essi si riferisce a una certa sensibilità temporale e dunque ad un certo modo di agire: l’uno proiettato tutto verso il futuro, l’altro impegnato a trattenere la Storia. Il militante accelerazionista e quello del rallentamento. Il katechon della rivoluzione socialista del ’900 è simboleggiato dal Muro di Berlino, questa astrazione concreta diceva Blanchot. Tuttavia il problema vero è stato che l’accelerazionismo stesso è diventato il leitmotiv dell’URSS, ossessionato dal voler superare tecnicamente il capitalismo occidentale. L’esperimento sovietico è crollato per non aver saputo interpretare quell’altra temporalità, quella del rallentamento della Storia, e così ha neutralizzato il comunismo attraverso il suo concentrarsi esclusivamente sulla pretesa di accelerare lo sviluppo tecno-industriale. Stalin è stato un accelerazionista, lo diceva Heiner Müller, un grande comunista del tempo che viene, e lo diceva giusto dopo il crollo del katechon.

Tuttavia a noi pare che ci si dimentichi spesso che vi è un terzo tempo, oltre quello apocalittico e quello katechontico, che è il tempo messianico, che è il solo in grado allo stesso momento di rallentare il tempo, interrompere il presente, salvare il passato e così permettere a ciò che viene di rivelarsi in una nuova costellazione. Per compiere il gesto a cui accenna Tronti c’è bisogno di una militanza messianica, il cui carattere è molto diverso da quello delle altre due figure richiamate precedentemente. È ciò che nel libro di Gigi viene chiamato «angoletto», quello che taglia i due paradigmi dell’apocalittico ottimismo progressista e del katechontico realismo pessimista. Cosa significhi militanza messianica per noi, oggi, pensiamo faccia parte della ricerca in corso.

In ogni caso, dicevamo, il militante è una figura teologico-politica e in questo libro vengono nominate alcune sue qualità, solo due, che però non sono né quella del coraggio né quella dell’intelligenza, le quali potrebbero benissimo figurare in un immaginario elenco di virtù militanti, bensì quella del «sacrificio» e quella della «disciplina»: da quale vocabolario, da quale registro, da quali esperienze, sorgono queste virtù? Ci parrebbe difficile se qualcuno volesse negare che esse provengono da un linguaggio preciso, che non è genericamente quello religioso, ma è quello proprio del cristianesimo. Certo tutto è secolarizzato, tutto trapassa in una dimensione che risponde solamente a un mondo profano e tuttavia in questo linguaggio continua a risuonare una metafisica di precisa derivazione giudaico-cristiana. A nostro avviso quindi sono due le operazioni da fare: in primis riconoscere che la militanza ha una sua specifica “spiritualità” e solo una volta che si è assunta tale evidenza si può passare eventualmente a riconoscere genealogicamente delle alternative a quella metafisica. Taubes, sulla scorta di Benjamin e Schmitt, ne ha già indicato una possibilità: l’interno contro l’esterno. Müller anche, il rallentamento contro l’accelerazione. La spiritualità rivoluzionaria, questo è il tema in ogni caso. Senza di questo il resto delle condizioni che vengono indicate da Gigi – non c’è classe senza lotta di classe, non c’è lotta di classe senza organizzazione e non c’è organizzazione senza ricomposizione – restano delle parole che assomigliano più a dei monumenti che non a delle armi e i monumenti sono sempre autoconsolatori. Cosa può essere una spiritualità rivoluzionaria? Lo stesso Tronti negli ultimi anni ha dato qualche indicazione al proposito, distinguendola dalla religione. Per come leggiamo noi la vicenda singolare di Tronti, francamente non troviamo alcuna difficoltà nel riconoscere che dentro Operai e Capitale vi erano già tutte le premesse del Tronti successivo. Insomma chi si meraviglia o si scandalizza, o fa finta di farlo, del Tronti che oggi ci parla della mistica e della spiritualità, ci pare non abbia mai compreso o voluto comprendere lo spirito di Operai e capitale. E la domanda a Gigi, che riteniamo uno di quelli che l’ha studiato a fondo, quindi diventa la seguente: perché essere trontiani solo fino agli anni sessanta e fare come se quello successivo quasi non esistesse?

È Michel Foucault ad aver indicato durante gli ultimissimi corsi al Collège de France le linee essenziali di un programma di ricerca sulla spiritualità rivoluzionaria e che non poté concludere a causa della sua morte. Foucault, nel corso intitolato L’ermeneutica del soggetto, innanzitutto distingue tra spiritualità e filosofia e indica nella prima una pratica, un’ascesi, un insieme di usi di sé attraverso cui il soggetto si destituisce e si ricrea alla luce di una verità, una trasformazione nella quale appare come dirimente il momento, l’evento anzi, della “conversione”: «non si può comprendere ciò che è stata la pratica rivoluzionaria, non si può comprendere quello che è stato l’individuo rivoluzionario e quella che è stata per lui l’esperienza della rivoluzione se non si tiene conto della nozione, dello schema fondamentale della conversione alla rivoluzione». Però Foucault dà una ulteriore indicazione, che ci tocca più da vicino storicamente, e che è contenuta in una domanda che ci rivolge, «come si è passati dall’appartenenza alla rivoluzione attraverso lo schema della conversione all’appartenenza alla rivoluzione attraverso il partito»? Nell’ultimo corso da lui pronunciato, Il coraggio della verità, Foucault ritorna su questa forma di spiritualità rivoluzionaria e lo fa a partire dalla sua analisi del cinismo, di questa originaria forma di militanza della verità, questa forma di vita che si espone scandalosamente al mondo come la «vera vita». In questo caso però egli parla di una «militanza filosofica» anche se aperta a tutti, non individualista, una militanza perché il mondo cambi e non per educare l’individuo a perseguire il proprio successo. Ebbene, secondo Foucault, «il cinismo – l’idea di un modo di vita che sarebbe irruzione e manifestazione violenta, scandalosa, della verità – fa parte e ha fatto parte della pratica rivoluzionaria e delle forme assunte dai movimenti rivoluzionari […]. La rivoluzione nel mondo europeo moderno […] non è stato semplicemente un progetto politico, ma anche una forma di vita». Foucault poi continua aprendo delle interessanti piste sui modi in cui la militanza cinico-rivoluzionaria si è andata dipanando tra XIX e XX secolo, fino ad arrivare al suo punto morto, dovuto al fatto che le sue forme istituzionali, il partito cioè, hanno imposto una forma di vita basata sul conformismo, sull’esteriorità, cercando di eliminare il nucleo scandaloso della vita rivoluzionaria. In seguito è evidente che negli anni ’60 e ’70 la questione si sia riproposta e vi sia stato combattimento anche dentro le esperienze della “contestazione”. Ma di tutto ciò, diceva appunto Foucault, deve occuparsi tutta una ricerca genealogica a venire. Una ricerca che non è mai stata fatta, a nostra conoscenza almeno.

E nei nostri ultimi anni? Cosa è avvenuto? A noi pare che molti dei conflitti apparentemente filosofici che attraversano i nostri tempi si aggirino esattamente attorno a quel problema “messianico” che è la forma di vita rivoluzionaria.

Beninteso quindi, anche se dovrebbe essere chiaro, per noi non c’è alcun motivo di scandalo in quella derivazione giudaico-cristiana di cui dicevamo prima, non è l’anticamera di una “critica”, di una “decostruzione”, non si vuole strizzare l’occhio ad un agnosticismo da quattro soldi. Tutto al contrario, vuol essere un invito a illuminare quella parte, per noi essenziale, che in questo testo rimane in ombra, non esplicitata. La figura del militante in questo libro che ne vuole tessere l’elogio per noi rimane alla fine come disincarnata prima di tutto perché non c’è una definizione di chi è il militante. Il che porta a non soffermarsi su che cos’è la militanza in quanto forma di vita e quindi sul come vive il militante. Infine non compare in maniera chiara la domanda fondamentale: come si diviene un militante?

Chi volesse rispondere a questa interrogazione con la canzone del “sono le lotte che costruiscono il militante” e finirla così, è ovviamente legittimato a farlo, ma ci pare non dia nessun apporto né alla comprensione né, tanto meno, all’uscita da quella crisi di cui parlava Tronti.

C’è qualcosa, ad esempio, che compare fin dall’inizio del libro, qualcosa che capiamo ma non ci soddisfa, ed è l’insistenza sull’odio come unica Stimmung che caratterizzerebbe il mondo del militante. Lo capiamo perché capiamo non solo i riferimenti a una certa tradizione di pensiero e di vita ma perché vediamo l’obiettivo polemico di una tale asserzione, ovvero il pensiero debole che ha corroso negli ultimi anni la determinazione dei militanti. Tuttavia non crediamo affatto sia sufficiente l’odio per fare di una creatura un militante, serve anche e soprattutto la disposizione all’amicizia, alla condivisione, all’agape per restare nel registro teologico-politico. Alain Badiou diceva in una vecchia intervista che il soggetto si trasforma e diviene militante non perché vede quello che esiste, perché tutti lo vedono, bensì perché sperimenta che vi potrebbe essere qualcos’altro. Nel linguaggio religioso, che Badiou utilizza facendone il contropelo, la creatura viene toccata così dalla «grazia». Quello che essa sperimenta è innanzitutto un incontro, una comunità possibile, una forma di vita giusta, ovvero comincia a sperimentare un tempo che si svolge in modo assolutamente eterogeneo al presente. E questo ci introduce a un nuovo elemento, che ci parla del come si diviene un militante, e questo elemento è quello, molto bistrattato, dell’evento.

L’evento, se è veramente tale, porta con sé lo zampillare di una verità, non di una “verità eterna” come vuole Badiou, ma di una verità minore, singolare, che tuttavia permette il declinarsi di un ethos comune, in questo caso l’ethos militante. Un incontro che è un evento significa che delle singolarità si legano tra di loro a partire da una verità comune, in questo senso capiamo l’appello di Gigi all’essere-contro come una forma di verità comune che permette di accedere a una forma di vita comune. La militanza non è altro che restare fedeli a quell’evento che singolarmente ci ha introdotto nel divenire-rivoluzionario.

Nel libro di Gigi c’è l’antagonismo, c’è la classe, c’è l’organizzazione, c’è il partito ma non c’è granché traccia della singolarità della militanza in quanto forma di vita. Solo in relazione a Lenin e al rivoluzionario di professione si dice che, non esistendo in natura il militante e la «controsoggettività operaia», per produrli bisogna «studiare, studiare, studiare» e formarsi nelle lotte. Oppure che il militante è «colui o colei che mette interamente in gioco la propria vita». É un buon inizio, ma resta senza seguito.

Siamo d’accordo sull’importanza dello “studio” che più volte viene rimarcato nel testo, ma non sullo studio per agire, non perché abbia una sua finalità fuori di sé, ma perché lo studio è un mezzo, una pratica, un esercizio ascetico per dirla con Foucault, per rimanere fedeli all’evento. Dunque la questione studio/teoria, pratica/azione. Si dice infatti nel libro «fare le due cose insieme», noi diciamo renderle indistinguibili. Non c’è la teoria militante da un lato e dall’altro l’azione militante, e in mezzo l’organizzazione. No, c’è una vita, anzi una forma di vita che può perseverare in se stessa solamente se si difende da qualsiasi atto volto a scinderla, a separarla. E la forma di vita è rivoluzionaria solamente se contiene in se stessa la propria forma di organizzazione, senza che nessuno debba organizzarla dall’esterno. Nel libro di Gigi a noi sembra vi sia ancora un, seppur travagliato, dualismo tra concetti e azioni, tra “piede di porco” e pensiero, mediati, appunto, dall’organizzazione militante. Per noi, invece, non esiste soluzione di continuità, e se esiste allora è parte di ciò che bisogna abbattere.

Come si vede sono solo degli appunti su delle questioni che il libro di Gigi ha sollevato nelle nostre discussioni e che, a nostro avviso, hanno una certa crucialità per il presente e sulle quali sarebbe “buono e giusto” discutere collettivamente prima o poi.