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Relazione di Toni Negri (31 gennaio 2007)

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Vorrei provare a porre una domanda a Mario Tronti, una sola ma puntuale.

Un presupposto, sono diventato marxista con la lettura di Operai e capitale. Prima ero solo un comunista, di origini diverse e strane: un po’ cristiane, un po’ ebraiche, un po’ familiari, un po’ altrove. Ho cominciato a leggere Marx nei primi anni Sessanta, a leggerlo veramente, con la guida di questo libro. Di più: non riesco a leggere Marx fuori da Operai e capitale; probabilmente sono un po’ settario, anche teoricamente, ma è un fatto che non riesco a leggerlo se non con questi occhiali. Chiedendomi, cioè, continuamente a che cosa serva Marx, e se e dove ci conduca un ragionamento marxiano, vale a dire un punto di vista di classe.

Per chi ha la mia età, o quella di Tronti, insomma chi appartenga alla prima generazione operaista, non è stato semplice conquistare questo livello di discussione. Di qui l’importanza di Operai e capitale: questo libro è un’opera che ci ha insegnato a pensare il processo rivoluzionario in modo completamente nuovo, e al contempo a interpretare il marxismo producendo soggettività. Tutti allora si riempivano la bocca con il gramscismo, cosiddetto “marxismo italiano”: quello che in realtà ci veniva offerta era una forte tradizione militante accompagnata da una debolissima traduzione nazionalpopolare. Non voglio qui attaccare la vera figura di Gramsci come pensatore e militante politico, ma è fuori dubbio che attraverso quella lettura nazionalpopolare, il marxismo di Marx era stato in buona misura acciaccato, quando non fosse senz’altro tradito.

Il fatto di poter cominciare a pensare in termini marxisti significò allora che il “laboratorio Italia” non era soltanto esperienza sindacale Fiat o politica del centro-sinistra, le due dimensioni del far politica allora. Con Operai e capitale si cominciava a possedere un metodo marxiano, non direi universale (malgrado le presunzioni di allora) ma di sicuro storicamente efficace, globale – una metodologia, dunque, e la possibilità di portare continuamente l’esperienza delle lotte a una lettura di Marx. Lettura infedele dentro la vulgata marxista dell’ultimo secolo? Certamente sì. Eppure, un’infedeltà della quale si poteva essere orgogliosi, perché era l’infedeltà a una tradizione, nel migliore dei casi, masochista, altrimenti carica di opportunismo e/o di cinismo. Una lettura che significava “assenza di memoria”, non delle lotte, della loro forza e del loro dolore, quanto piuttosto di una manipolazione opportunista che ci era divenuta indigesta.

Un altro presupposto: leggendo così Marx, noi vedevamo sempre di più le cose nel micro, nella fabbrica, ma eravamo capaci di proiettarle su un orizzonte più generale politico ed internazionale. È da questo punto di vista che posso aggiungere che l’epistemologia di Tronti è stata anche un’opera di etica. Di fronte ai terzomondismi che ci sfidavano sul terreno etico-politico, noi potevamo opporre ed imporre l’etica delle lotte, centrali, efficaci, costitutive. Questo ci imponeva di mutare noi stessi per essere adeguati al processo rivoluzionario. Penso che questo sia un grande insegnamento di militanza. Ma attenzione: ciò non è espressione di formule rituali di etica pedagogica, non è niente di simile allo stoicismo dei secoli XVI e XVII (che pur da questo punto di vista funzionava molto bene) – questo insegnamento derivava dal fatto d’essere messi a contatto con la pratica sovversiva. Vi sono stati, su questo terreno, dei formidabili personaggi ai quali siamo stati vicini, per esempio Romano Alquati o Guido Bianchini: si tratta di figure estremamente importanti nella nostra esperienza proprio perché impersonavano, nel vero senso della parola, un modo, insieme teorico e sovversivo, di affrontare i problemi della lotta di classe. Queste persone sono state per noi tanto importanti quanto Tronti.

Ma vengo dopo queste premesse alla questione. Quando si legge Operai e capitale ci si trova di fronte ad affermazioni che sono soprattutto centrate sul rapporto tra classe e organizzazione, assunto come problema. Era problema centrale allora e credo che lo stia diventando di nuovo oggi. La rinnovata fortuna del libro di Tronti sta nel fatto che ormai lo senti continuamente citare nelle discussioni tra i compagni, o almeno in quegli ambienti intellettuali e politici, autonomi e sovversivi che frequento io, che sono estremamente vivaci. Di fronte a quel complesso armamentario teorico, che è stato fondamentale nella sinistra comunista degni anni Sessanta e Settanta e che va dalla teorizzazione del ciclo delle lotte alla teoria della composizione tecnica e politica della classe operaia, adesso il problema ricomincia a presentarsi in questa forma: cosa vuol dire trasformare la forza lavoro in classe operaia? Qual è, da un lato, il rapporto tra capitale costante e capitale variabile e, dall’altro, il rapporto tra forza lavoro e classe operaia? E poi: cosa è oggi la struttura complessiva del capitale? Dove sta la nuova forza lavoro? Dove si colloca? Riprendendo le formule di Tronti, lui ci diceva “dentro e fuori”. La forza lavoro si presenta come classe operaia all’interno del capitale: è lì dentro come capitale variabile, ma anche come variabile indipendente, invariabile riguardo a se stessa, alla propria identità o differenza, e variabile rispetto al comando del capitale. Ed è lì che si presenta l’unica potenza capace di rompere il dominio capitalistico. Oggi però – ecco la novità – il potere capitalistico ha fatto saltare quella dimensione materiale e politica, in quanto ha spostato il capitale variabile da se stesso. In altre parole, il capitale non si tiene più attaccato il capitale variabile, lo spalma ovunque, nel mercato e nella società, in Italia e nel mondo. Non si sa più dove sia il capitale variabile. Dico: quel capitale variabile che può diventare soggetto rivoluzionario. Certe volte facciamo dei grossi errori perché rischiamo di scambiare, ad esempio, il salariato con la forza lavoro, e questo è esattamente ciò che Marx ci vieta. Anche il poliziotto è un salariato, ma sicuramente non è forza lavoro; il giudice sicuramente non è classe operaia, e non può nemmeno diventarlo! No, a noi interessa solo quella potenza produttiva che è anche sovversiva.

Che cosa è allora questo spostamento, questa dislocazione? È qui che finisce la politica, ci dice Tronti. È questa, invece, la questione che voglio rovesciare, ponendola a me stesso e ai compagni: che cosa vuol dire oggi organizzazione rispetto al problema che ho accennato, cioè, nella transizione che stiamo vivendo tra un capitale che continua a comandare e qualcosa di nuovo, che è questa forza lavoro spalmata dappertutto e che si valorizza per se stessa? Una forza lavoro che, addirittura, si è portata dietro anche parte del capitale fisso, come propria intelligenza e capacità di innovazione. Forse, il rapporto tra forza lavoro e capitale lo troviamo così anche nei soggetti lavorativi, negli strati di forza lavoro spalmati sulla produzione comune, in giro per il mondo. Lo troviamo suddiviso e ricomposto nelle migrazioni, lo troviamo suddiviso e ricomposto nelle gerarchie globali o continentali che vengono imposte per lo sfruttamento. Fino a ieri dal bushisimo, ovvero nella prospettiva di un comando monarchico sul mercato globale, estremamente avanzato, ma già sconfitto; e domani forse con le nuove, non meno nemiche, figure del multilateralismo, nei passaggi che si consolidano ormai sull’orizzonte prossimo. Ecco, dunque, qual è la prima – fondamentale – questione da porre: probabilmente il partito è finito (anzi, lo è senz’altro nella forma nella quale l’abbiamo conosciuto), ma la fine del partito non può essere confusa con il tramonto della politica. Allora, che cosa è oggi riorganizzare la politica?

Direi che noi abbiamo un grosso vantaggio sul passato – nostro e della tradizione comunista: non sono più possibili omologie tra il potere dei padroni e il potere operaio, o delle moltitudini, o semplicemente delle singolarità. Non sono più possibili omologie perché è su questo che siamo falliti: sull’illusione di una omologia del potere, su una sua identità, che ci aveva fatto dimenticare che il primo urgente compito della classe operaia era quello di distruggere se stessa. Ergo, non si prende il potere se non lo si distrugge.

 

* Relazione di Toni Negri al convegno “Rileggere ‘Operai e capitale’”, Roma 31 gennaio 2007.