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Ma i precari cognitivi sognano pecore elettriche?

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Recensione di Gigi RoggeroL’anima al lavoro (DeriveApprodi, 2016) di Franco Berardi Bifo

L’anima al lavoro è stato scritto nel 2008, nei mesi in cui l’economia globale collassava. A distanza di otto anni, il testo mantiene intatta la sua pregnante attualità, a dimostrazione sia delle lucide intuizioni del suo autore, Franco Berardi Bifo, sia di come la crisi è diventata una forma di governo della società.

È l’alienazione uno dei temi al centro del libro. Vengono ripercorse alcune genealogie, tra cui quella riconducibile all’hegelo-marxismo e alla fondazione umanistica del processo di liberazione, da Marcuse e da Sartre; e soprattutto il rovesciamento compiuto dall’operaismo, o composizionismo come preferisce chiamarlo Bifo, perché esso ha riformulato il problema dell’organizzazione politica in termini di composizione sociale. Il rovesciamento teorizzato dagli operaisti viveva nei comportamenti dell’operaio massa: l’alienazione cessava di essere lo smarrimento della coscienza di fronte alla cosa e alla macchina, per diventare estraneità alla dipendenza dal lavoro e dal capitale, una separatezza capace di trasformarsi in autonomia. L’estraneità è perciò potenza da organizzare e non occultamento di un’essenza da restaurare. L’universalismo muore definitivamente nel rifiuto del lavoro.

Cosa è successo dopo? I padroni hanno temporaneamente vinto, i rapporti di forza si sono ribaltati, la controrivoluzione capitalistica ha trasformato la libertà collettiva in libertà del mercato, l’autonomia in autoimprenditoria, il conflitto in consenso. Il neoliberalismo non si è inventato nulla, ha capovolto tutto. Allora, cos’è l’alienazione quando viene messa al lavoro l’anima, “metafora di quell’energia che trasforma la materia biologica in corpo animato”, cifra di relazione e conflitto? Risponde Bifo: “non il silenzio ma il rumore ininterrotto, non il deserto rosso ma il sovraffollamento dello spazio cognitivo da parte di stimoli nervosi mobilitanti”. La separazione tra attività cognitive e socialità materiale produce un processo di derealizzazione, alla base delle psicopatologie del lavoro vivo. Non sono patologie della repressione, come un foucaultismo più o meno coerente sostiene, ma patologie dell’obbligo espressivo generalizzato. Devi comunicare, se pensi di non farlo sono comunque le tecnomacchine digitali a comunicare attraverso di te. L’anima si inquina, il corpo si disanima.

L’autore sottolinea la centralità del tempo: la battaglia per la riduzione della giornata lavorativa non è stata infatti solo una rivendicazione sindacale, ma un movimento concreto di sottrazione al dominio del capitale e di affermazione di autonomia. L’esplosione della giornata lavorativa, determinata innanzitutto dalle lotte, capovolgendosi si è mangiata la vita. Tanto da rendere necessaria una ridefinizione del concetto di sovrapproduzione, che oggi significa eccesso del ciberspazio sul cibertempo, della massa di informazioni sulla capacità di selezionarle, gerarchizzarle e organizzarle in pensiero critico.

Le stesse decisioni del capitale appaiono come il prodotto di automatismi tecnologici e finanziari. Perfino il padrone sembra farsi estraneo al sistema che possiede, si mimetizza nel flusso, si incorpora nella tecnica, ci entra nell’anima. Eppure non scompare affatto, anzi. È perciò un’illusione pensare di separare tecnica e politica, ritenere la prima neutrale e la seconda una sua semplice articolazione. Nei movimenti l’hanno chiamata tecnopolitica, ma è la controrivoluzione capitalistica ad aver tecnicizzato la politica, ridotta a funzione istituzionale, neutralizzata come spazio di trasformazione radicale. È questa la vittoria della democrazia, in quanto tecnica di governo.

A questo punto, che fare? Per Bifo sono tre gli elementi nella formazione di un soggetto rivoluzionario: un interesse comune, la condivisione di una forza materiale, una narrazione collettiva. La classe emersa dalle trasformazioni produttive degli ultimi decenni, quella che incarna il sapere sociale e che lui definisce “cognitariato”, per ora pare non possederne nessuno. Allora ecco che il cosiddetto “post-operaismo” diventa, dice l’autore, un composizionismo senza ricomposizione. È una buona lente focale attraverso cui guardare ai suoi giri a vuoto negli ultimi anni, quando pure alcune delle tendenze individuate si sono fatte carne, però in una direzione politicamente molto diversa da quella che era stata immaginata. È forse proprio l’aver abdicato al problema della composizione e della ricomposizione il punto di cedimento del “post-operaismo”, ovvero il nodo da cui ricominciare.

Vanno allora approfonditi i termini in cui Bifo parla di ricombinazione, in quanto assemblaggio degli elementi di conoscenza esistenti secondo un criterio e finalità differenti da quelle dominanti. Tuttavia, ricomposizione non significa solo modificare le finalità, ma trasformare radicalmente il processo e gli stessi elementi di cui si compone, cioè la soggettività. Significa dunque rottura, o meglio una trasformazione che avviene nella rottura – anche di noi stessi, in quanto soggetti plasmati dal capitale.

Argomenta Bifo: politica e terapia coincideranno. Il capitalismo non sparirà, ma cesserà di essere paradigma onnipervasivo. La parola d’ordine è autonomizzazione infinita, come infinita deve essere la terapia. Ma autonomia senza rottura si riduce a micro-politica, intesa come nicchia di espressività sussunta dagli automatismi della macchina capitalistica. Un rumore nell’infinità di rumori, e non la fuoriuscita dal caos organizzato dello sfruttamento e della dipendenza. Una terapia senza distruzione del virus rischia quindi di diventare una sovversione omeopatica, cioè debole e a priori masticata dagli ingranaggi della valorizzazione. La terapia del corpo infetto del proletariato cognitivo deve perciò divenire male incurabile per il corpo-macchina che oggi lo sfrutta. Per farlo bisogna ricominciare da capo, da quello che Bifo ci mostra: riconquistare estraneità, praticarla come rifiuto, organizzarla in autonomia.

 

* Pubblicata anche su Alfabeta2.