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Corpo e anima

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Introduzione a L’anima al lavoro di Franco Berardi Bifo

L’anima di cui voglio parlare non ha molto a che fare con lo spirito. È piuttosto respiro, soffio vitale, metafora dell’energia che fa della materia biologica corpo animato.

Speculando sulla paura della morte, i preti di ogni religione hanno promesso l’eternità dell’anima e se ne sono fatti garanti e procacciatori. Tanto chi può smentirli?

L’anima di cui io parlo non ha nulla a che fare coi preti e con le loro stupide menzogne. Non si può separare l’anima dal corpo più di quanto si possa separare l’immagine dall’occhio e la parola dalla facoltà di linguaggio. Certo, l’immagine può essere riprodotta dalla mano dell’uomo, o dagli apparecchi tecnici di registrazione. E così la parola può rimanere eterna nella poesia. Ma si tratta dell’eternità di cui parla Foscolo, l’eternità che non trascende la comunicazione empatica e la memoria delle opere.

Anima è il corpo come intenzione, apertura verso l’altro, incontro, sofferenza e godimento. Anima è divenire-altro: riflessione, coscienza, sensibilità.

In sanscrito la parola prana significa letteralmente soffio vitale, respiro o energia cosmica. Atman è l’individualità che respira in sintonia con il respiro cosmico, soffio empatico che rende possibile la comunicazione tra corpi sensibili.

Deriva individuale e gioco cosmico possono armonizzarsi perché l’atman riceve dal prana il suo soffio e respirando all’unisono con il prana conosce il vicino e il lontano atman e si apre a essi e con essi respira. La parola anima sta a significare la condizione dell’empatia, cioè della percezione dell’altro come prolungamento sensibile e vitale del sé. L’anima è condizione di possibilità della felicità del corpo e della sua infelicità. Quel che può un corpo è la sua anima.

Michel Foucault racconta la storia della modernità come disciplinamento del corpo, come costruzione degli istituti e dei dispositivi capaci di piegare il corpo entro le macchine di produzione sociale. Descrive i processi di soggettivazione che accompagnano la formazione della società industriale. Lo sfruttamento industriale concerne i corpi, i muscoli, le braccia. Quei corpi non varrebbero nulla se non fossero animati, mobili, intelligenti, reattivi, animati insomma.

Ma se dalla sfera della produzione industriale ci spostiamo alla sfera della produzione digitale, scopriamo che lo sfruttamento si esercita essenzialmente sul flusso semiotico che il tempo di lavoro umano è in grado di emanare. La produzione digitale è essenzialmente «emanazione», flusso di merce-anima. Parliamo a questo proposito di semiocapitalismo, modo di produzione che coinvolge la mente, la relazione, il linguaggio. A questo proposito possiamo parlare anche di produzione immateriale.

Il linguaggio e il denaro non sono affatto metafore, eppure sono immateriali. Sono dei nulla che possono tutto, che muovono, spostano, moltiplicano, distruggono. Sono l’anima del semiocapitale.

Se vogliamo continuare il lavoro genealogico di Michel Foucault, oggi dobbiamo spostare il centro dell’attenzione teorica verso i dispositivi di programmazione del linguaggio, verso gli automatismi della reattività mentale, cioè verso le nuove forme di alienazione e di precarietà proprie del lavoro mentale nella rete.

In questo libro ho cercato di riattraversare diversi stili filosofici che si sono succeduti nella seconda metà del XX secolo: ho ripreso il linguaggio marxista che predominava negli anni Sessanta e ho cercato di restituirgli vitalità, nel confronto con i linguaggi del poststrutturalismo, della schizoanalisi e della cibercultura.

Per parlare delle forme di alienazione del lavoro postindustriale ho cominciato riprendendo il filo del discorso filosofico tardo-moderno, partendo da Hegel, dalla presenza di Hegel nel teatro filosofico degli anni Sessanta. Poi ho cercato di seguire la progressiva dissoluzione di quel teatro, di quel linguaggio e di quella prospettiva storica e politica.

In questa ricostruzione del rapporto tra lavoro produttivo e pensiero filosofico, la nozione di «alienazione» è centrale. Nella tradizione hegelo-marxista del Novecento il concetto di «alienazione» si riferiva proprio al rapporto fra corporeità ed essenza umana. Con la parola «alienazione» (Entfremdung) Hegel intende il divenire altro del sé, il non esser presso di sé dello spirito, la separazione storica e mondana tra l’Essere e l’Ente.

Nella rilettura marxiana il concetto di alienazione passa a significare la scissione tra la vita e il lavoro, la scissione tra l’attività fisica dell’operaio e la sua umanità, la sua essenza di uomo. Il Marx giovane, il Marx dei Manoscritti del ’44, punto di riferimento principale della filosofia radicale degli anni Sessanta, attribuisce un significato centrale alla nozione di alienazione.

Ma la parola «alienazione» ha anche un contenuto specificamente psicopatologico: definisce il disagio, la sofferenza della mente sottoposta alla tensione di uno sforzo senza piacere e senza riconoscimento.

Nella Fenomenologia dello spirito Hegel parla del lavoro come mediazione e come «dileguare trattenuto»: «Il lavoro è appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto […]. Il rapporto negativo verso l’oggetto diventa forma dell’oggetto stesso, diventa qualcosa che permane, e ciò perché proprio a chi lavora l’oggetto ha indipendenza. Tale medio negativo o l’operare formativo costituiscono in pari tempo la singolarità o il puro esser-per-sé della coscienza che ora nel lavoro esce fuori di sé nell’elemento del permanere» (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, p. 162).

Con la parola alienazione Hegel intende riferirsi all’elaborazione del mondo immediato che l’uomo compie nella storia attraverso la cultura. «Il termine cultura (Bildung) ha in Hegel un senso molto generale. Si tratta tanto della cultura intellettuale quanto della cultura politica ed economica. Ma esso si potrà chiarire e prendere tutta la sua generalità solo dopo aver precisato il senso del termine alienazione (Entausserung) che vi è connesso, perché la cultura è alienazione del Sé immediato […]. Tale mondo non è più un tutto armonico che riposi in se stesso come il primo mondo dello spirito, ma un mondo diviso e disgregato, quello dello spirito estraniatosi (entfremdet)» (J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito, p. 462).

L’elaborazione culturale o la trasformazione lavorativa costituiscono la mediazione che rende possibile il divenire storico, e questo divenire si manifesta anzitutto come un’uscita della coscienza da se stessa e come un negarsi, perdersi e finalmente ritrovarsi della coscienza attraverso il processo della realizzazione (o inveramento) nello Spirito Assoluto. Questo uscire da se stessa della coscienza è ciò che Hegel definisce alienazione, o divenire altro, o perder sé nell’alterità. «Nella cultura hegeliana si dà un momento in cui il Sé diviene ineguale a sé, si nega per conquistare la sua universalità. Ecco l’alienazione, o estraniazione» (ivi, p. 473). Alienazione (Entfremdung) ed estraneità (Entausserung) sono due termini che definiscono il medesimo processo da due diversi punti di vista. Il primo definisce lo smarrimento della coscienza di sé nel rapporto con la cosa, nella dipendenza dal capitale, il secondo indica piuttosto il confrontarsi della coscienza sulla scena dell’esteriorità, e la creazione di una coscienza autonoma a partire dal rifiuto della dipendenza lavorativa.

Criticando l’hegelismo predominante nel marxismo ufficiale del Novecento, l’operaismo italiano ribaltò la visione prevalente dell’alienazione. Nell’ambito dell’operaismo italiano degli anni Sessanta e Settanta, la classe operaia non è più concepita come oggetto passivo di alienazione, ma come soggetto attivo di un rifiuto che costruisce comunità a partire dalla sua estraneità agli interessi della società del capitale. L’alienazione non è considerata allora come uno smarrimento dell’autenticità umana, ma come estraneità all’interesse capitalistico, e dunque come condizione indispensabile per costruire, in uno spazio estraneo e ostile al lavoro, una relazione finalmente umana.

Il poststrutturalismo francese compie negli anni Settanta un’operazione molto simile sul piano filosofico. Il pensiero di Gilles Deleuze e Félix Guattari apre la strada a un rovesciamento della visione tradizionale dell’alienazione clinica: la schizofrenia, che la psichiatria considera soltanto come scissione e perdita di autocoscienza, viene ripensata dagli autori dell’Anti-Edipo in termini del tutto nuovi: la schizofrenia non è l’effetto passivo di una scissione della coscienza, ma una forma di coscienza molteplice, proliferante e nomadica.

Questa problematica e questa terminologia hanno una importanza fondamentale nel pensiero politico-filosofico del tardo Novecento, perché intorno a questi concetti si delineano le opzioni teoriche e le direzioni politiche differenti dell’umanesimo marxista e del pensiero critico francofortese (di derivazione direttamente hegeliana), dell’esistenzialismo fenomenologico francese (le posizioni di autori come Sartre, la cui influenza politica fu decisiva nei decenni postbellici) e del neomarxismo operaista italiano.

Per quanto la parola «anima» non compaia mai nel linguaggio di quel periodo storico, io la userò, un po’ metaforicamente e un po’ anche ironicamente, per ripensare il nucleo di questioni che si condensano intorno alla problematica dell’alienazione.

Nella visione hegeliana l’alienazione sta tutta nel rapporto tra attività ed essenza umana, mentre l’operaismo è interessato a comprendere il rapporto tra tempo umano e valorizzazione capitalista, la reificazione del corpo e dell’anima, il divenire cosa dell’azione umana.

L’epoca tardomoderna e particolarmente i decenni della rivolta operaia contro l’ordine repressivo dell’industria videro un animarsi dei corpi che il capitalismo aveva disanimato. I corpi si riconobbero e si congiunsero nella rivolta e nell’autorganizzazione sociale desiderante, riconoscendosi in una forma autonoma, secondo dinamiche e finalità indipendenti dal dominio.

Il mondo si animò e i corpi si denudarono e si incontrarono nello spazio dell’erotismo libero, nello spazio del rifiuto del lavoro che è sottrazione di vita al dominio repressivo dell’economia. La società affermò la sua autonomia dalla regola economica, e la solidarietà e la simpatia prevalsero rispetto all’avarizia e alla fissazione di potere e di accumulazione.

Ma quella ondata di animazione si rovesciò a un certo punto nel suo contrario, quando le tecnologie digitali e l’organizzazione reticolare della comunicazione si rivelarono dispositivi di cattura dell’anima. Il baricentro del processo di produzione si spostò allora verso lo sfruttamento dell’energia mentale, e l’anima fu sottomessa dalla dinamica della produzione di valore.

L’anima messa al lavoro: ecco la nuova forma di alienazione. L’energia desiderante viene allora presa nella trappola dell’autoimpresa, l’investimento libidinale viene regolato secondo i principi dell’economia, l’attenzione viene catturata nella rete cellulare precarizzata grazie a cui ogni frammento di attività mentale deve essere trasformato in capitale.

Nella prima parte di questo libro voglio raccontare il rapporto tra filosofia e lavoro negli anni Sessanta dal punto di vista della dinamica di alienazione ed estraneità.

Nella seconda parte intendo raccontare le evoluzioni successive del pensiero sociale, nei decenni della cibercultura e della digitalizzazione, nella prospettiva della schiavitù dell’anima e del corpo presi nella rete del lavoro precario cellularizzato.

Nella parte finale intendo ricostruire la genesi delle categorie filosofiche che oggi possono permettere la comprensione della precarietà, forma generale dell’attività lavorativa e dell’esistenza umana cellularizzata.

Per far questo cercheremo di riprendere alcune implicazioni del discorso poststrutturalista, partendo dalla polemica che contrappose negli anni Settanta il pensiero desiderante di Deleuze e Guattari e il pensiero dell’implosione di Jean Baudrillard.