Stampa

Relazione di Alberto Asor Rosa (31 gennaio 2007)

on .

L’ultima volta che ho riletto Operai e capitale, la quarta o quinta nella mia vita, credo sia stata quattro anni fa, in relazione a certi passaggi della mia ricerca. Questo libro è apparso per la prima volta nel 1966 ed è stato ripubblicato con un “Poscritto” nel 1971. L’opportunissima riedizione della casa editrice DeriveApprodi riprende integralmente la seconda edizione. I quattro punti, o sezioni, in cui si articola il libro costituiscono altrettanti momenti della esperienza politica e analitica che vi sta dietro. Le prime ipotesi sono i saggi teorici e propositivi pubblicati da Mario Tronti sui “Quaderni rossi”, risalgono dunque al 1962. Sono scritti immediatamente a ridosso, se non addirittura negli stessi mesi della ripresa delle grandi lotte operaie in Italia, soprattutto alla Fiat, che costituiscono una sorta di volano di partenza del ragionamento. Seguono poi gli articoli politici pubblicati su “Classe operaia” nella sezione intitolata “Un esperimento politico di tipo nuovo”,pubblicati nel 1964.

Le prime tesi, quelle che Tronti chiama significativamente prime, vengono scritte quando l’esperienza politica di “Classe operaia” si è chiusa: sono riflessioni teorico-politiche ex post, che riflettono su quello che era stato sperimentato negli anni precedenti, ma al contempo pongono problemi nuovi. A posteriori, dunque, e non nell’immediato svolgimento delle lotte.

L’ultima sezione del libro, il “Poscritto di problemi” che appare soltanto nella seconda edizione, rappresenta un insieme di sondaggi volti a verificare se le tesi politiche e teoriche delle sezioni precedenti si possano applicare a situazioni altre rispetto a quelle dei primi capitoli, in particolare l’esperienza della socialdemocrazia storica e le esperienze politiche e di organizzazione della classe operaia negli Stati Uniti d’America. Possiamo dire che al primo articolo politico di “Classe operaia” intitolato “Lenin in Inghilterra” corrisponde, con specularità pensata, l’articolo intitolato “Marx a Detroit”. È un bilanciamento di due diverse situazioni politico-sociali, che è allo stesso tempo anche un bilanciamento tra un’esperienza politica e un’esperienza esclusivamente teorica.

Rileggendo Operai e capitale diverse volte nel corso della mia vita mi sono effettivamente chiesto quello che forse molti giovani si chiedono oggi, e cioè che tipo di libro sia. La risposta non è facile, e ciò deriva dal fatto che si tratta di un testo estremamente singolare. Ci sono libri che discendono da precise tradizione di pensiero, in essi si possono riconoscere le ombre e le impronte dei predecessori: le discipline accademiche sono fatte precisamente in questa maniera. Anche i più intelligenti tra i professori e i ricercatori professionisti tendono a ripercorrere le tendenze, le modalità e le forme del discorso precedente. Ma Operai e capitale fuoriesce da una categorizzazione di questa natura. Se qualcuno si ponesse il problema di incasellarlo, si troverebbe infatti in una situazione di difficoltà estrema. Insomma, dove collocarlo?

Penso che si possa dire che questo non è un libro sociologico. Se l’esperienza della società è fortissima in Operai e capitale, tuttavia non c’è nessun uso delle categorie sociologiche tradizionali. E forse oggi, considerando il complesso degli avvenimenti che sono seguiti alla sua comparsa quarant’anni fa, sarei tentato di dire che non è nemmeno un libro politico nel senso stretto del termine. Se lo si rilegge è infatti difficile individuare delle indicazioni politiche, al di là di alcune grandi categorie che sono quelle classiche ma esposte nuovamente, ossia in una forma totalmente nuova. Mi riferisco per esempio a quella a cui Tronti è sempre stato fortemente legato, ovvero il rapporto fra lotte e organizzazione: su questo nodo, tra coloro che fecero questa esperienza, si sono anche verificati traumi laceranti, proprio per l’importanza che lo stesso Tronti gli attribuisce in questo libro. Separare questi due momenti è impossibile, oltre che profondamente scorretto. Ma non si tratta di un’indicazione politica nel senso stretto del termine, quanto piuttosto di un’indicazione di massima rispetto a quell’ordine di valori a cui io sarei oggi portato ad attribuire il significato più profondo di questo libro-messaggio. Se Tronti nella sua introduzione del 1966 – brechtianamente intitolata “La linea di condotta” – non avesse esorcizzato questa possibilità come una cosa per lui intollerabile, direi che Operai e capitale è un libro altamente filosofico. E se questa terminologia fosse troppo traumatica e troppo dispiacesse all’autore, direi allora che ci troviamo di fronte a un grande libro di pensiero. Dire questo significa sottolineare due elementi: anzitutto la proposta di lettura originale e non scolastica della realtà che Operai e capitale ci consegna. Le categorie messe in campo hanno infatti consentito e, secondo i testimoni più giovani, ancora oggi consentono una lettura della realtà più penetrante di quelle della scienza borghese, che contiene in sé l’ideologia marxianamente intesa. Allora, se Operai e capitale è da un lato un prontuario per ben leggere la realtà, dall’altra è – secondo elemento – una pratica del pensiero così rigorosa da diventare una lezione di etica. Se si pensa in questo modo, si deve necessariamente ubbidire a certi principi di comportamento che proprio nel rigore trovano il loro fondamento più totale. Di queste due cose, un sistema di pensiero per leggere la realtà e un movimento implicito in grado di collegare il rigore del pensiero al rigore dei comportamenti pratici, è testimonianza – oserei dire sublime – lo stile del nostro autore. Uno stile che è al tempo stesso fortemente asseverativo (non è dimostrativo in sé, né ragionativo nel senso disciplinare del termine) e così legato al tracciato del reale che viene investigando da proporre una nuova logica del pensiero medesimo nelle sue forme espressive fondamentali. Procede per tesi, ma ognuna di queste ha una profondità tale che ci vorrebbe un intero libro per spiegarla e approfondirla.

La lezione che ho ricavato da Operai e capitale, che si può dire di un caposcuola (di una scuola che, come tutte, ha avuto le sue varianti), è che per fornire una chiave di lettura della realtà penetrante è necessario che il pensiero preesista alla lotta politica. Quello che è scritto nelle pagine di Operai e capitale non è infatti totalmente deducibile dalla lotta medesima e, forse, la storia personale di Tronti precedente ai primi saggi di questo libro lo dimostrerebbe con maggior efficacia di quanto possa fare io attraverso la sua rilettura. Per scrivere queste pagine memorabili, prima di lottare, Tronti ha pensato, e non viceversa. Dunque, se c’è una fase di rinnovata fortuna di Operai e capitale oggi, cosa che ritengo assolutamente positiva, lo si deve proprio alla lezione di pensiero, all’ammonimento secondo cui non si fanno lotte o azione politica, non si incide sulla realtà, senza un livello alto di elaborazione teorica.

 

* Relazione di Alberto Asor Rosa al convegno “Rileggere ‘Operai e capitale’”, Roma 31 gennaio 2007.