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Che genere di nero è il “nero” della questione nera secondo Hollywood

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Articolo di Miguel Mellino sulla mercificazione della blackness ai tempi di Obama

…solo la paura della tua forza di vendicarti avrebbe potuto indurli a tanto, o a fingerlo, il che sarebbe stato (e sarebbe anche ora) già abbastanza.

     James Baldwin, La prossima volta, il fuoco, 1963.

In uno dei suoi articoli più noti, ma meno rivisitati, Stuart Hall si chiedeva «Che genere di nero è il “nero” nella cultura popolare nera?»[1] La sua domanda era rilevante non solo rispetto alla produzione artistico-estetica della Black Cultural Politics di quegli anni, ma anche come strategico «punto nodale» di questioni ben più generali e tuttora attuali. La sua analisi del significante «black» prodotto dalle culture espressive della diaspora nera in quella congiuntura storica mirava a identificare il campo discorsivo di ciò che possiamo chiamare, a partire dal suo stesso lavoro, un nuovo «regime di rappresentazione»;[2] un nuovo ordine simbolico e materiale aggettivato in questo saggio come «postmoderno globale», ma che negli anni successivi Hall interpellerà sempre di più come «postcoloniale».[3]

Si può dire, dunque, che Hall proponga qui una prima interrogazione dell’attuale «condizione postcoloniale». Come al solito, egli passa a contropelo questa condizione globale emergente a partire da una doppia strategia critica: da un lato, si concentra sulle interpellazioni soggettive disseminate nel corpo sociale da questo particolare sistema di significazione culturale/razziale, ovvero sulla produzione di nuove identità culturali nere intese come sintomo di un dispositivo emergente di assoggettamento,[4] dall’altra il suo saggio cerca di mettere a fuoco le crepe di tale ordine discorsivo, e cioè spazi, pratiche e possibilità di una politica culturale popolare nera alternativa o di resistenza. È così che questo nuovo investimento simbolico – questa nuova lotta per la significazione – intorno al significante «black» nella cultura globale serve a Hall come spunto per indagare i limiti e le possibilità della politica della differenza in un contesto piuttosto particolare, vale a dire all’interno di una congiuntura politico-economica che, dal suo punto di vista, si stava già configurando a partire da una logica piuttosto diversa rispetto al momento «moderno» o «fordista» del passato: anziché sull’obliterazione delle differenze, questa nuova condizione globale appare fondata proprio sulla messa al lavoro (sulla valorizzazione capitalistica) delle soggettività, dell’etnicità e quindi delle differenze.

Il fantasma nelle macchine: la questione nera tra cinema e carcere

La domanda di Hall sul significante «black» può tornare oggi di estrema attualità alla luce di due fenomeni strettamente correlati: da una parte, la proliferazione negli ultimi anni di film americani incentrati sulle lotte storiche degli africano-americani – come Amistad (Spielberg 1997), The Help (Tate Tylor 2011), Lincoln (Spielberg 2012), Django (Tarantino 2012), 12 Years a Slave (Steve McQueen 2013), The Butler (Lee Daniels 2012) e più di recente Selma (Ave DuVernay 2014); dall’altra, quello che si può considerare come il rovescio costitutivo di questa messa a valore hollywoodiana della storia e della memoria insorgente nera, ovvero l’incessante susseguirsi negli ultimi anni di omicidi di giovani neri perpetrati dalle forze di polizia in diverse città degli Stati Uniti. Agli effetti del nostro discorso, può essere importante ricordare che uno degli ultimi episodi di questa lunga serie è avvenuto, in modo del tutto sintomatico, proprio nel giorno del cinquantesimo anniversario della marcia storica di Martin Luther King in favore del libero diritto di voto per i neri, da Selma a Montgomery in Alabama: quel giorno nella città di Madison, nel Wisconsin, Tony Robinson, un giovane nero di diciannove anni, è stato ucciso da un poliziotto. Robinson è stato assassinato durante una colluttazione mentre era disarmato.

È così che la costituzione materiale dello «stato penale neoliberale»[5] americano viene qui a configurarsi come una brutale interruzione di ciò che può essere definito come un ulteriore tentativo di incorporazione della blackness nell’American way of life. Questi continui episodi di violenza carceraria nei confronti delle popolazioni africano-americane, sommati a fenomeni come l’abbandono di massa nei giorni dell’uragano Katryna, la conseguente espropriazione dei neri poveri durante la ricostruzione di New Orleans e l’elemento intrinsecamente razzista della finanza debitocratica dei subprime[6], non fanno che mettere in evidenza, attraverso un’autentica ironia necropolitica postcoloniale, il vero Reale della storia degli Stati Uniti: malgrado la sartriana malafede di queste narrazioni cinematografiche «epiche», l’unico tratto «nero» del sogno americano resta un persistente incubo razziale. Si tratta dunque di un «fantasma» che nelle sue molteplici manifestazioni condensa, disloca e interpella un Reale profondamente «epidermizzato», per riprendere qui l’espressione di Fanon, nel tessuto sociale e culturale del «capitalismo razziale»[7] americano. È peraltro un Reale ben catturato da altri prodotti cinematografici, come la nota serie televisiva The Wire (2002-2008), con le sue raffinate narrazioni delle strategie di sopravvivenza delle comunità nere dei ghetti di Baltimora di fronte a una violenza istituzionale razzista di ogni tipo (economica, politica, culturale, ecc.); o come il film Fruitvale Station (2012), in cui il regista Ryan Coogler ci racconta nello stile crudo e asettico dei migliori street-movies le ultime ventiquattro ore di vita di Oscar Grant, un giovane nero ucciso dalla polizia a Oakland nella notte di Capodanno del 2009.

Il cinema americano in bianco e nero: mercificare e punire

È quasi banale ricordare che la proliferazione di film americani sulla questione nera mostra un rapporto di stretta corrispondenza con l’elezione di Barack Obama. Non è poi difficile sostenere che la catena di significazione messa in moto da questi film abbia una struttura circolare, nel senso che l’elezione di un nero alla Casa Bianca è sia il suo punto di partenza che il suo punto di arrivo. Tuttavia, a surdeterminare questa catena di significazione non è tanto l’evento, quanto una specifica narrazione di quell’evento, ovvero una particolare costruzione simbolica del «momento Obama» in quanto significante di un’attuale condizione «post-razziale» della società americana. La narrazione di questa condizione «post-razziale» emerge da un «duplice enunciato» connesso con la costruzione del «momento Obama»: a) l’arrivo di un presidente nero alla Casa Bianca è il punto finale della lunga lotta dei neri per il riconoscimento dei loro diritti negli Stati Uniti; b) lo happy end di questa storia sta a ricordare/celebrare la capacità degli Stati Uniti di accogliere/integrare tale istanza entro la propria storica grammatica democratica. Abbiamo qui, dunque, un altro esempio sintomatico di quel processo attraverso cui l’ordine del discorso «post-movimento per i diritti civili» negli Stati Uniti tenta di addomesticare la blackness per incorporarla alla «dominante culturale» dell’attuale congiuntura neoliberista, ovvero di depurare il significante «black» di ogni radicalità per metterlo al servizio della narrazione dell’American way of life come mero oggetto di consumo, come mero stile di vita alternativo.

Nei paragrafi che seguono cercherò di mettere a fuoco quella particolare «strategia discorsiva» attraverso cui questa serie di film è venuta a costituirsi come un ulteriore dispositivo di cattura e di espropriazione del senso (per stare alla descrizione di Hall riportata più sopra) della storia e della cultura popolare insorgente africano-americana. Si tratta di una «strategia discorsiva» operante certamente dall’interno di ciò che possiamo chiamare – a partire da un altro noto saggio di Hall – la «codificazione egemonico-dominante» di questo momento,[8] ma che, ovviamente, non può mai costituirsi come una struttura di significati chiusa, coerente e unilaterale. Per «codificazione egemonico-dominante» dunque intendiamo semplicemente quel «lavoro necessario per imporre, rendere plausibile o indirizzare come legittima una decodificazione dell’evento entro i limiti delle definizioni dominanti in cui è stato connotato».[9]

In primo luogo, la lotta dei neri ci viene qui narrata come se fosse dotata di un senso storicamente fondato, ovvero viene codificata come una domanda di emancipazione e di libertà destinata a imporre prima o poi le sue istanze politiche e culturali di riconoscimento. L’istanza nera viene quindi narrata come espressione di una «verità trascendentale», di una causa storica quasi naturale e a cui appare del tutto impossibile opporsi: sia dal punto di vista razionale che da quello umanistico-sentimentale. Richiamando ironicamente Hannah Arendt, ciò che ci viene qui proposto è una sorta di «banalità del bene», un racconto in cui la storia dell’oppressione e dell’emancipazione degli africano-americani viene iscritta entro una trama mossa da un logos «oggettivo», come mero effetto del telos illuministico e metastorico del progresso, e quindi dall’esito scontato. La direzione, lo sbocco, di questa «piccola» variante (nera) della grande narrazione (bianca) occidentale ci viene presentato come tanto «compiuto» quanto «inevitabile»: l’inizio della fine però si sarebbe materializzato non prima del momento (cronologicamente) giusto, del virtuoso concatenarsi di un incrocio di eventi che ne avrebbe favorito la definitiva cristallizzazione. Si pensi, per esempio, all’enfasi posta dal film Selma sull’opportunismo di Lyndon Johnson di fronte alle pressioni di Martin Luther King sulla legge per il diritto al libero voto dei neri: nel film Jonhson decide di accelerare le procedure per l’approvazione del Voting Rights Act perché «sa che prima o poi i neri voteranno», inutile quindi opporsi e restare nella storia come colui che si opponeva a un movimento, per così dire, tanto naturale quanto banale della storia. Qui importa poco la veridicità o meno dell’atteggiamento di Johnson: nel film esso sta a rappresentare la consapevolezza dell’essere dal lato giusto della storia. Il resto passa dunque in secondo piano.

Anche 12 Years a Slave propone uno schema simile. Ad accelerare la liberazione del protagonista Solomon Northup, musicista nero libero ma ricaduto in condizioni di schiavitù, è il suo incontro con la persona (bianca) giusta, o meglio con un uomo (impersonato da Brad Pitt, e anche produttore del film) la cui sensibilità liberale e progressista viene anche qui codificata come una sorta di «incarnazione» del lato giusto della storia. Così, quello che Myrdal aveva chiamato il «dilemma americano», la sedimentazione della schiavitù, della segregazione razziale e della supremazia bianca nella storia degli Stati Uniti, appare ridotto a una questione meramente etica o morale[10]: ci sono i giusti (coloro dal lato della storia, della verità, della ragione) e gli ingiusti (coloro dal lato del pregiudizio, della sragione). È certo però che la lotta dei neri è la causa giusta: bastava semplicemente attendere gli uomini giusti, coloro in grado di comprendere il lato umano dello schiavo. Si tratta di un leitmotiv presente anche in The Help, in cui è sempre la coscienza di una persona (bianca) giusta (in questo caso, una donna) a creare la situazione necessaria a un gruppo di domestiche nere per rendere pubblica l’oppressione razziale e le condizioni di vita para-schiavistiche a cui erano ancora soggette nel Mississippi della metà degli anni sessanta. Ma è sicuramente la narrazione di The Butler, una codificazione stilizzata e del tutto conviviale della storia degli africano-americani incentrata sul vissuto dell’oramai celebre maggiordomo nero della Casa Bianca (Eugen Allen, nel film Cecil Gaines), a spingere fino al parossismo lo storicismo – la «colonialità», ci verrebbe da dire con Anibal Quijano[11] – di questa strategia discorsiva. Nulla può esemplificare meglio la costruzione del «momento Obama» e il suo «duplice enunciato» del modo attraverso cui viene narrata la vicenda di Lewis, il figlio di Allen/Gaines: da ribelle Black Panther a deputato del Partito Democratico e sostenitore non solo del presidente nero degli Stati Uniti, ma soprattutto dell’approdo finalmente «post-razziale» della società americana.[12]

Sia chiaro: non si vuole qui entrare in un dibattito sulla credibilità o meno delle storie rispetto agli avvenimenti storici. Ciò che ci interessa è rimarcare in che modo questa codificazione «storicistica» della lotta degli africano-americani, in cui la resistenza dei neri viene ridotta in modo schematico e manicheo al «lato giusto della storia», vale a dire a una causa già vinta in anticipo, finisce per imprigionare la memoria insorgente nera (la blackness) entro un dispositivo discorsivo del tutto de-soggettivante.

In secondo luogo, in tutti questi film la razza e il razzismo ci vengono narrati come un residuo arcaico e anacronistico, come una sorta di elemento «non contemporaneo della contemporaneità» (della modernità) della società americana. Si tratta ancora una volta di una narrazione storicistica e coloniale, plasmata da un manicheismo infantile e del tutto astorico, in cui i razzisti vengono costruiti per lo più come macchiette, persone volgari, provinciali e accecate dalle consuetudini culturali, dalle proprie ambizioni economiche o anche da una propria sadica e incomprensibile cattiveria. Ovviamente, si tratta sempre di schiavisti del Sud, ovvero dell’America che fu (sconfitta) e dei suoi residui nel presente. Non possiamo qui entrare nei particolari, ma da questo punto di vista ciò che narrano Lincoln, Amistad, Selma, The Help e The Butler è «mera ripetizione senza differenza»: la violenza razzista e la divisione razziale del lavoro, che come è noto furono alla base anche dello sviluppo industriale del Nord e del sistema fordista, vengono costruiti qui come «eccezione» anziché come «norma» del capitalismo e della democrazia americana, ovvero come fenomeni del tutto estranei, o inversamente proporzionali, all’America più moderna, metropolitana e neoliberale.

E’ interessante notare che questa narrazione storicistica e “liberal-progressista” della razza e del razzismo appare in forte sintonia con la storiografia dominante del colonialismo e delle lotte anticoloniali: con una scrittura storica egemonica “post-coloniale”, intendendo questo aggettivo in un senso strettamente cronologico, che ha teso a restituirci il colonialismo come una mera parentesi stadiale-temporale premoderna e l’arrivo al potere dei movimenti di liberazione nazionale come un fatto tanto positivo quanto scontato[13]. Sappiamo che il processo di decolonizzazione è costato ai paesi colonizzati milioni di morti, che i vecchi imperi coloniali hanno opposto una violenta resistenza al desiderio di emancipazione e di libertà delle “popolazioni più scure”[14] del mondo e che hanno ceduto solo di fronte alla certezza (virtuale o reale) di una sconfitta o alle pressioni “imperiali” degli Stati Uniti. Si tratta, ancora una volta, di una storia scritta dai vincitori, in cui la conquista del diritto all’autodeterminazione finisce per apparire più l’esito più di una gentile e inevitabile concessione del padrone che non della soggettivazione degli oppressi.

Infine, vi è un altro importante elemento attraverso cui questa codificazione coloniale della storia della resistenza dei neri costruisce la sua particolare «strategia discorsiva»: l’estetizzazione sia della sofferenza che della resistenza degli africano-americani. Si tratta di un fenomeno riconducibile in primo luogo alla progressiva mercificazione post-moderna della blackness, all’effetto glamour (bianco e razzista) proiettato dalle industrie culturali sia sui corpi neri che sul significante «black» come mero stile di vita. L’estetizzazione della sofferenza dei neri trova il suo momento più riuscito e raffinato in 12 Years a Slave. Malgrado l’estrema attenzione di Steve McQueen alla ricostruzione storica della vita nella piantagione (il film ebbe tra i suoi consulenti storici Henri Louis Gates Jr.), nonché il suo indubbio talento di regista, la sua narrazione finisce per risolversi in un resoconto più sentimentale che politico della condizione schiavistica, in cui il dramma dell’oppressione e dello sfruttamento razziale acquista significatività storica soltanto in virtù della sua dimensione etico-spirituale, del suo lato specificamente «umano» e quindi «metafisico». Diciamo subito che la descrizione delle logiche di vita che governavano la piantagione appare piuttosto suggestiva: la sobrietà della regia nel ritrarre quello che possiamo chiamare la dimensione kafkiana della piantagione e la sua «morale grigia», per rifarci in qualche modo al racconto di Primo Levi sui campi di concentramento, è un aspetto del film tanto condivisibile quanto coinvolgente. Tuttavia, McQueen ci mostra la schiavitù come parte di una questione più che altro psicologica, inerente più alla stessa condizione umana nel suo rapporto (intimo) con la violenza e il sadismo verso l’altro, che non come la logica conseguenza di un sistema sociale, politico ed economico emerso da una combinazione piuttosto brutale e perversa (ma, stando a Marx, assai razionale se vista dall’interno della logica astratta del valore) del capitalismo con il colonialismo. Si tratta di un aspetto ben messo in luce, per esempio, dal noto e polemico critico africano-americano Armond White:

Per McQueen, la crudeltà è un elemento di frizzante ricercatezza; è in linea con l’interesse del cineasta per l’esibizione sado-masochistica messa in luce nei suoi precedenti film Hunger e Shame. La brutalità è il punto di forza di McQueen. Anche grazie ai suoi sfondi di alta qualità estetica, i suoi film ricordano delle installazioni artistiche: le storie sono sempre rarefatte in una serie di eventi sconvolgenti e spiazzanti. Attraverso Northup (impersonato da Chiwetel Ejiofor) McQueen racconta l’esperienza consapevole di una sofferenza fisica e psicologica incessante. La sua narrazione metodicamente ritmata avanza lentamente attraverso gli anni di cattività di Northup, mettendo in evidenza varie ingiustizie che ben illustrano i terrori provati dagli Africani neri negli Stati Uniti durante la cosiddetta «istituzione peculiare» […] Ma McQueen è un animale unico, apolitico, interessato solo all’arte. Per lui gli aspetti sociologici di 12 Years a Slave non hanno senso, proprio come gli ideali politici dietro lo sciopero della fame sostenuto dal carcerato dell’IRA Bobby Sand in mezzo alla brutalità carceraria esibita in Hunger, o lo squallido panorama di «compulsioni sessuali» in Shame. McQueen assume la depravazione del sistema della schiavitù come prova della depravazione umana.[15]  

Inutile aggiungere che la narrazione della schiavitù fatta da McQueen colloca i neri dal «lato giusto della storia» più che altro come «vittime», ovvero a partire di una riduzione a-senso-unico dei neri-in-quanto schiavi a una sorta di essenza di «nuda vita» della storia. Il film interpella le audience sollecitandole a un’identificazione totale (dei bianchi) con la vittima (nera), attraverso una strategia narrativa il cui scopo primario non sembra raccontare la resistenza (la soggettivazione) degli africano-americani a un dominio razzista brutale e disumano, bensì sollecitare negli spettatori un’umanità del tutto edonistica e autoreferenziale, perfettamente a proprio agio «nel sentirsi bene a causa del sentirsi male» (nello sperimentare il dolore dello schiavo di fronte alle violenze) e infine assai sollevata nel dichiararsi traumatizzata (e quindi estranea) dal passato schiavistico. Si tratta di un sentimentalismo umanistico che non fa che confermare soggetti (bianchi) e oggetti (neri) nel loro storico posto, nel loro storico rapporto coloniale. Ci vengono in mente le oramai celebri parole dello scrittore nero James Baldwin in Notes of a Native son:

Il sentimentalismo, l’ostentazione sfrontata di emozioni spurie ed eccessive, è il segno della disonestà, dell’incapacità di sentire; gli occhi umidi del sentimentale tradiscono la sua avversione per l’esperienza, la sua paura della vita, l’aridità del suo cuore; e pertanto è sempre il segno di una disumanità segreta e violenta, la maschera della crudeltà.[16]

È inoltre difficile comprendere quali possano essere i contributi di una narrazione del genere a un’analisi politica non tanto della schiavitù in sé, ma soprattutto dell’eredità (materiale e simbolica) del colonialismo e della schiavitù negli Stati Uniti di oggi.[17] Se in Pelle nera. Maschere bianche, Fanon chiedeva di analizzare razza e razzismo alla luce della loro «sociogenesi»,[18] si può dire che McQueen ripieghi sull’«ontogenesi» di questi fenomeni. Come abbiamo visto, in 12 Years a Slave la schiavitù sembra soltanto un pretesto per affermare qualcosa di più generale sulla condizione esistenziale umana. Tuttavia, è un lusso che una pratica (politica e/o culturale) antirazzista seria, dovendosi misurare quotidianamente con la violenza di una macchina economica e carceraria segnata ancora dalla propria «razziologia applicata», non può concedersi;[19] come ebbe a sottolineare altrove lo stesso Stuart Hall: «Le storie dei diversi tipi di razzismo non possono essere scritte come una “storia generale”. I ricorsi alla “natura umana” non sono spiegazioni: sono un alibi».[20]

Per quanto riguarda l’estetizzazione più sintomatica (e più grottesca) delle istanze più radicali della storia degli africano-americani occorre tornare a The Butler e al riferimento del film al momento delle Pantere Nere. La scena in questione è quella in cui il figlio del maggiordomo nero della Casa Bianca e la moglie cenano con il figlio Lewis e la compagna; oltre a presentare alcuni degli atteggiamenti più radicali adottati dalle Pantere (nello specifico, la critica all’accondiscendenza nei confronti dei bianchi da parte dei cosiddetti «neri da cortile», per riprendere la famosa sentenza di Malcolm X) come meri estremismi preconcetti e tipici di una rabbia giovanile, nonché del tutto fuori luogo rispetto alla «saggezza» moderata rappresentata da maggiordomo e moglie (la coppia di genitori, infatti, caccia di casa figlio e compagna dopo una discussione sull’arrendevolezza di neri del tipo di quelli rappresentati nei suoi film dall’attore Sidney Poitier), la scena ci propone non tanto «due pantere» quanto due esponenti di un «brand», ovvero due «militanti» con un abbigliamento e un’acconciatura Panther piuttosto «fashion». Possiamo affidare a un’ex militante nera del calibro di Angela Davis un efficace commento di questa persistente riduzione della blackness a mero oggetto di consumo:

Una donna mi presentò il fratello, il quale in un primo momento reagì al mio nome con indifferenza. La donna lo redarguì: «Ma come, non conosci Angela Davis?! Dovresti vergognarti!» Improvvisamente un barlume di riconoscimento gli passò sulla faccia. «Oh», disse, «Angela Davis – l’Afro!» Penso che simili reazioni non siano eccezionali e trovo umiliante e mortificante scoprire che, una sola generazione dopo gli eventi che mi hanno costruito come una personalità pubblica, di me si ricorda soltanto la pettinatura. È umiliante perché riduce una politica di liberazione a una politica della moda; è mortificante perché simili incontri con la generazione più giovane dimostrano la fragilità e l’instabilità delle immagini storiche, in particolare di quelle connesse con la storia africana-americana. Questo incontro con quel giovanotto che mi identificava con «un’Afro» mi ricordò di un recente articolo sul «New York Times Magazine» che elencava il mio nome tra i cinquanta più influenti modelli di stile (leggi: di fogge di pettinatura) degli ultimi cento anni».[21]

Questa riduzione della politica della liberazione africano-americana a ciò che Angela Davis chiama qui «politica della moda» è un tratto costitutivo anche di Selma: Ave Duvernay costruisce il suo Martin Luther King più entro le coordinate discorsive della cosiddetta “celebrity culture” pop-americana che non della grammatica storico-politica del movimento dei diritti civili; si pensi, da questo punto di vista, al modo in cui viene ritratto il suo rapporto con la moglie Coretta all’inizio del film: in questa scena, i due appaiono in una discussione più da coppia da «Cosmopolitan» o «Vogue» che non da soggetti alle prese con le tensioni razziali di quel preciso momento storico. Non vogliamo qui sostenere che l’analisi della vita privata di una figura come M.L. King non sia altrettanto importante: il problema è che il film si intitola Selma e si propone come la ricostruzione di uno dei momenti più significativi nella storia del movimento per i diritti civili. La stilizzazione della blackness è qui ben visibile anche nei costumi indossati dai protagonisti: è poi lo stesso film a mettere in evidenza in modo grottesco la sua stilizzazione, pensiamo qui alla sequenza finale in cui si alternano immagini documentarie della folla che ha preso parte alla storica marcia di Selma con la ricostruzione proposta dal film. È proprio nella differenza tra gli uni e gli altri che si può cogliere un’importante variazione dello show della «razza» come «spettacolo dell’Altro»[22]

Nel complesso, dunque, si può sostenere che questa politica della rappresentazione (nera) hollywoodiana non fa che contenere il significante «black» entro una chiara trama discorsiva: i neri, con le loro lotte e rivendicazioni, hanno contribuito a fare dell’America ciò che essa veramente è: la terra dei diritti universali per eccellenza, l’unica nazione davvero moderna, nel senso liberal-democratico del termine. Come a dire, gli Stati Uniti ringraziano i neri d’America per il servizio prestato alla nazione: Amistad, Lincoln, Selma e The Butler condividono questa «codificazione egemonico-dominante» nelle sue varianti più banali. La storia e la memoria insorgente nera vengono qui tradotte nella linearità della grande narrazione occidentale-americana e del suo ineluttabile movimento verso il progresso. Si tratta di una narrazione in cui il padrone (bianco) finisce per riconoscere lo schiavo (nero); ed è così che il patto (coloniale) alla base della cittadinanza occidentale moderna mostra tutta la sua potenza metafisica.

Il valore simbolico di questa strategia discorsiva sta tutto qui: nella sua capacità di svelarsi come una delle espressioni più tipiche di quello che abbiamo chiamato il «terzo momento neoliberista» della politica nera della rappresentazione; un momento che si auto-narra come «post-razziale», eppure, proprio in virtù della sua costruzione del razzismo come una frattura sociale ricomponibile al di là della reale rimozione delle disuguaglianze materiali su cui è storicamente fondata, esso non fa che mostrarsi sempre di più come una nuova e più perversa variante delle governamentalità razziali moderne. È proprio in quest’accezione che possiamo definire come «post-razziale» il momento neoliberista: nel senso di una sua perversa e costante negazione degli effetti persistenti della supremazia bianca e del capitalismo razziale nel presente della società americana. Paul Gilroy riassume in modo efficace la logica discorsiva dominante di questo momento:

Oggi, il neoliberismo riprende ed estende quella storia. Il neoliberismo decreta che il razzismo non costituisce più un ostacolo significativo né al successo individuale né all’avanzamento collettivo. La razza offre uno strumento utile per segnare il confine tra passato e presente; il razzismo è presentato come anacronistico: nient’altro che un intoppo trascurabile nel meccanismo, esente dal colore, della meritocrazia manageriale.[23]

È così che abbiamo cercato di mostrare in che modo la codificazione hollywoodiana della questione nera non sia altro che uno dei tanti prodotti di una potente «macchina razziale penale»; una macchina la cui dialettica di controllo resta sempre oscillante tra prigioni, scuole-ghetto, abbandono e incarcerazione di massa, ma che va interpretata come una risposta dello stato americano all’abolizione della schiavitù, al movimento dei diritti civili e del Black Power, ovvero alla minaccia posta dalla blackness alla struttura di classe e di razza tradizionale della società americana. 

Django, né oblio né perdono: vendetta

Ci sembra utile chiudere la nostra analisi con Django Unchained: pur non esente di alcuni dei significanti tipici delle narrazioni di questo “terzo momento” – gli ideal-tipi del razzista e del razzismo americano si condensano ancora nel Sud, la trama è incentrata attorno alla figura di un messia carismatico, che insieme alla mammy è tra gli stereotipi più ricorrenti del cinema della schiavitù, e la libertà e i mezzi della rivolta vengono donati allo schiavo da un bianco – il film di Tarantino va sicuramente oltre. Anche Django è stato definito da diversi critici come un film sui neri per bianchi liberal[24], o meglio come un divertissement prodotto da un immaginario sulla schiavitù tipico dell’America bianca e progressista alle prese con i propri sensi di colpa. Su questo punto può apparire emblematico il modo in cui Tarantino presenta la rivolta di Django contro il sistema della piantagione: la lotta, la contrapposizione essenziale, non è tra neri (schiavi) e bianchi (padroni), ma tra schiavisti (il bianco Candie e il nero da cortile Stephen) e anti-schiavisti (il nero Django e il bianco Schultz). Non è difficile vedere qui una certa de-razzializzazione del sistema schiavistico, tipica dell’abolizionismo liberale e illuminista[25]. E tuttavia, dal mio punto di vista, la diversità di Django rispetto agli altri film sta proprio nel suo modo di porsi di fronte a questo “terzo momento”: è attraverso la forma (e non attraverso il contenuto) della sua narrazione che il film di Tarantino riesce a far saltare la codificazione egemonico-dominante dell’attuale discorso post-razziale.

Ni olvido ni perdòn. Né oblio né perdono. Questo slogan politico così diffuso nell’Argentina degli anni settanta per condannare i militari responsabili del golpe del 1955 contro il governo democratico di J. D. Peròn potrebbe tornare utile a racchiudere il senso disseminato da Django rispetto alla schiavitù e al suo ruolo nella storia degli Stati Uniti: impossibile dimenticare, impossibile perdonare. E’ questo forse il senso veicolato dalla scena finale del film, in cui Django, uno schiavo libero dalle sue catene, consuma il suo odio-vendetta nei confronti non solo dei padroni bianchi, ma di tutto il sistema della piantagione. Candyland deve saltare in aria nella sua totalità: non c’è nulla da salvare; non basta fuggire o salvare la donna amata. Si tratta dunque di un film ferocemente anti “politically correct”, qualcosa che non può sorprendere affatto chi conosce lo stile pop e corrosivo di Tarantino.

Nel film, Django e Broomhilda, armati da un odio che possiamo definire di tipo fanoniano, ovvero non affatto mosso da “grandi ideali” o da “retoriche progressiste”, come altri celebri schiavi della storia del cinema (vedi Amistad o Lincoln), sono agiti dalla rabbia allo stato puro dei dannati e quindi da una volontà tutt’altro che conciliatrice e misericordiosa. Così essi vengono a configurarsi come l’esatto rovescio della coppia Obama-Michelle. Non possono quindi stupire le critiche al film negli Stati Uniti; niente di più lontano dal clima di “politically correct” post-razziale dei tempi di Obama che l’anima rancorosa, risentita, vendicativa e punitiva di Django. Emblematica di questa particolare struttura del sentire è ancora la scena finale, dove Django procede al suo personale atto riparatorio vestito con gli abiti del padrone. Ci vengono in mente le pagine iniziali de I dannati della terra: “il colonizzato – avvertiva Fanon – vuole dormire nel letto del colono, possibilmente assieme a sua moglie. Il colonizzato è un invidioso, il colono non lo ignora quando, constata amaramente…: ‘Vogliono prendere il nostro posto’. E’ vero, non c’è colonizzato che non sogni almeno una volta al giorno di impiantarsi al posto del colono”. [26]

Sta qui una parte importante della politica della rappresentazione promossa dal film, e assai in contraddizione con i film che abbiamo analizzato in precedenza: occorre nominare la razza – anche attraverso il controverso significante nigger[27] – affinché emergano i suoi effetti nella costituzione materiale del presente. Django dunque non fa che demolire in modo sporco, ironico e violento la struttura montata dall’igiene linguistica del “politically correct” post-razziale; ovvero, di una catena di significazione che non fa che presentarci la razza, come abbiamo visto, come un elemento meramente residuale, come una parentesi (primitiva, irrazionale) della storia (americana, moderna). Si tratta di un film profondamente disturbante del senso comune sul razzismo. Django sporca con le cattive maniere le acque di questa igiene razziale linguistica, così come la lotta cruenta tra i Mandingo cosparge di sangue nero il glamour dell’etereo salotto dello schiavista Calvin Candie; un contrasto pungente – amplificato dal rumore delle ossa rotte dei Mandingo – attraverso cui Tarantino riesce a decostruire in termini puramente visuali il feticismo dei prodotti della società della piantagione, ovvero a porre in evidenza la violenza fisica su cui si fondava il modo di produzione schiavistico.

Nei termini di Achille Mbembe, si potrebbe dire che Django contribuisce a svelare il lato necropolitico della modernità (la politica di morte fisica e sociale praticata dal colonialismo) come il rovescio costitutivo di quello che Foucault ha chiamato la biopolitica occidentale. Il film dunque viene a collocarsi sulla traccia postcoloniale aperta dalla celebre ingiunzione storica di Césaire e Fanon ad abbandonare l’Europa-Occidente. Django, una sorta di rievocazione postmoderna e postcoloniale in celluloide dello spettro degli schiavi ribelli dell’800 come Nat Turner o Gabriel Prosser, ci consegna attraverso la sua vendetta un giudizio altrettanto radicale e lapidario: la storia degli Stati Uniti è indifendibile. Sta qui la differenza tra Django e gli altri film sulla schiavitù su cui ci siamo soffermati. Django e Broomhilda, come la schiava del romanzo Beloved di Toni Morrison, preferiscono la morte alla schiavitù, la distruzione totale del sistema schiavistico (e quindi della sua eredità) al “riconoscimento” umanistico della causa dei neri: qualunque altro gesto che non sia la lotta, il marronage o la resistenza finirebbe per riconoscere il diritto del padrone.

Alcuni critici – come Spike Lee – hanno fatto ricorso alla (serietà della) storia per delegittimare Django. Ma in realtà l’arte radicale di Tarantino ci propone Django per delegittimare (la scrittura) della storia. Su questo punto Django sembra avere un immaginario punto di incontro con le celebri parole di Tagore (con cui lo storico dei Subaltern Studies Ranajit Guha inizia il suo La storia ai limiti della storia del mondo): levatevi di torno con la vostra storia, con i vostri miti. Ed è così che Tarantino continua un discorso iniziato con Bastardi senza gloria. In questo film, infatti, egli si proponeva di distruggere tutta la mitologia riguardante gli esiti della Seconda Guerra mondiale: al diavolo con gli americani (eroi, liberatori), con i nazisti (emblemi del male assoluto) e con gli ebrei (vittime per definizione) così come ce li ha raccontati la storia dei vincitori; che non è che una storia scritta e fatta da bastardi senza gloria. Ed era proprio l'assenza di qualsiasi riferimento all'URSS a farci capire che ci troviamo all'interno di un racconto ben preciso, i cui codici non sono quelli della tipica (ri)scrittura storica. E’ chiaro che Tarantino non è affatto interessato ad opporre una visione della storia ad un’altra.

In Django la decostruzione di ogni senso della Storia procede con un tono ironico simile: al diavolo con i bianchi (tutti razzisti), con i neri (tutte vittime) e con l’America precedente alla Guerra Civile, ovvero con una società costruita dal senso comune dominante di questo “terzo momento” come premoderna e residuale e quindi come destinata all’inevitabile sconfitta per mano dell’America vera, quella antischiavista, progressista, moderna e repubblicana. In un film come nell’altro, Tarantino procede alla distruzione dei miti con la stessa strategia postmoderna – e ora decisamente postcoloniale – di decostruzione: la forzatura dei cliché e degli stereotipi (prodotti dal cinema e da altre emanazioni dell'industria culturale) mediante la messa in evidenza del loro aspetto grottesco. E’ proprio la volontà di caricare, di saturare di senso i cliché fino a farli esplodere, ciò che ci consente di liberarci di essi, di distruggere il senso che essi intendono veicolare. Ed è proprio attraverso tale strategia che l'ironia postmoderna si propone come critica della doxa, dell'arbitrarietà di ogni sistema di significato. Come la pop art di Andy Warhol o di Jean-Michel Basquiat, la strategia discorsiva di Tarantino è stata sempre quella di mettere a critica l’ideologia o i valori dominanti della società contemporanea attraverso una sovraesposizione ironica dei suoi stessi miti. Si pensi, per esempio, a due scene di Django: alla satira del Ku Klux Klan (che rimanda non tanto a una presunta realtà fuori dai testi quanto ai film di David W. Griffith The Birth of a Nation e Intolerance) o al fatto che a liberare lo schiavo nero non è un americano, ma un tedesco (invertendo in questo modo una logica testuale cinematografica che ha ripetuto fino alla stanchezza la vicenda di tedeschi liberati dagli americani). Si può concludere – contro Spike Lee e altri – che uno degli scopi di Django è gonfiare il significante della razza dei suoi propri contenuti fino a renderlo ridicolo, fino a farlo scoppiare nel non-senso.

Così facendo il cinema di Tarantino non fa che riportare i miti (i significati storici) allo status di meri significanti. Film come Bastardi senza gloria e Django ci ricordano una delle eredità principali dei movimenti culturali del ’68: la lotta di classe, la lotta politica, non può prescindere dalla lotta per il significato, per il senso. Detto altrimenti, liberarsi dal linguaggio, disidentificarsi dalla soggettività istituita, è la condizione iniziale di qualunque soggettivazione politica. E' questo il modo attraverso cui Tarantino fa sua la sollecitazione di Benjamin: all'estetizzazione della politica la politicizzazione dell'arte. E’ chiaro che l'idea della politica che emana dai film di Tarantino è molto diversa da quella di Benjamin, ma Tarantino segue fino in fondo questa premessa: l'arte, il cinema, è uno degli strumenti principali attraverso cui distruggere la mitologia diffusa dalla politica e dalle industrie culturali, la storia dei vincitori, le soggettività collettive. Non a caso è proprio in un vecchio cinema di Parigi che si consuma l'atto finale di Bastardi senza gloria: l'esplosione dei miti attraverso cui è stata scritta buona parte della storia del dopoguerra. Tarantino affida all'arte il ruolo di liberarci (dal senso istituito) dalla storia, di farla saltare per aria e di trasformarla in cumulo di frammenti, di rovine. E' la catastrofe necessaria, l'apocalisse, da cui potrà sorgere un mondo nuovo. Ed è quanto ci dice anche la scena finale di Django: la liberazione di Django (di tutti i dannati della terra) dipende esclusivamente dalla riduzione di Candyland (della storia coloniale occidentale moderna) a un cumulo di macerie. In breve: non vi sarà mai libertà senza lo scoppio della Struttura materiale e simbolica della Storia (ovvero, dell’Europa, dell’Occidente). D’altronde si tratta di qualcosa suggerito anche dalla stessa parte di Tarantino nel film: ricordiamoci che Django comincia la sua liberazione finale solo dopo aver fatto saltare in aria il personaggio interpretato dal regista.

Ma Django parla anche all’Europa. Anche il vecchio continente ha la sua Candyland nascosta: la sua secolare storia imperiale-coloniale. Ma ad eccezione del formidabile Caché di Haneke e di qualche altro isolato esempio, il cinema europeo sembra ancora inibito dalla violenza simbolica della Struttura, ovvero dall’oblio e dalla rimozione. Si pensi, da questo punto di vista, alle resistenze che incontra in Europa la piena assunzione del concetto di razza come significante o dispositivo chiave della sua storia e quindi della costituzione materiale del proprio presente. Con Django e Tarantino crediamo che sia ora anche in Europa di nominare la razza. Si tratta di uno dei modi obbligati attraverso cui cominciare a far saltare la Struttura e i suoi attuali e diversi dispositivi di comando: materiali e simbolici. Ci sembra d’altronde un compito del tutto in linea non solo con il saggio di Stuart Hall da cui siamo partiti, ma con il senso del lavoro intellettuale trasmessoci dalla sua opera: ci “interessano qui, dunque, solo le strategie culturali che possono segnare una differenza, quelle capaci di mutare le disposizioni del potere” (Hall 1992, p. 268).

 


[1] «What is this “black” in black popular culture?»,in G. Dent (a cura di), Black popular culture, Seattle, Bay Press 1992; trad. «Che genere di nero è il “nero” nella cultura popolare nera», in Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali (cura e trad. di Miguel Mellino), Meltemi, Roma 2006, pp. 264-278.

[2] S. Hall, The spectacle of the other, in S. Hall, J. Evans, S. Nixon (a cura di), Representation: cultural representations and signifying practices, London, SAGE 2013, p. 232.

[3] S. Hall, «When was the “Post-Colonial”? Thinking at the limits», in I. Chambers, L. Curti (a cura di), The Post-Colonial question, London, Routledge 1996; trad. Quando è stato il post-coloniale? Pensando al limite, in I. Chambers, L. Curti (a cura di), La questione postcoloniale, Napoli, Guida 1997.

[4] S. Hall, What is this “black” in black popular culture?, cit, pp. 264-265.

[5] L. Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, Deriveapprodi 2005.

[6] Per un’analisi piuttosto efficace dei modi attraverso cui la stessa definizione di «subprime mortgage» sia divenuta negli USA un significante «razziale» di stigmatizzazione e colpevolizzazione dei neri poveri, vedi P. Chakravartty, D. Da Silva 2012, Accumulation, dispossession, and debt: The racial logic of global capitalism, «American Quarterly», 64, 3, 2012, pp. 361-385.

[7] C. Robinson, Black Marxism: The making of the black radical tradition, London, Zed Books 1983.

[8] S. Hall, «Encoding-Decoding», in Culture, media, language, in Hall, S. (a cura di), London, Taylor and Francis 1980; trad. «Codifica e decodifica nel discorso televisivo», in Il soggetto e la differenza (a cura di Miguel Mellino), Meltemi, Roma 2006.  

[9] Ivi, p. 44.

[10] G. Myrdal, An American dilemma.The Negro Problem and Modern Democracy, Transaction Publishers, 1995.

[11]                  A. Quijano, “Colonialidad del poder, eurocentrismo y America Latina”, in E. Lander (a cura), Colonialidad del saber, eurocentrismo y Ciencias Sociales, Buenos Aires, Clacso, 2001, pp. 201-246.

[12] «Se da qualche parte c’è ancora qualcuno che dubita che l’America sia un posto dove tutto è possibile; che ancora si stupisce del perché il sogno dei nostri fondatori è ancora vivo ai giorni nostri; che mette ancora in dubbio il potere della democrazia, ecco qui la nostra risposta». Commento di Obama alla proiezione del film The Butler http://www.nationalreview.com/article/356068/butler-and-obama-moment-will-allen.

[13] Vedi, per esempio, R. Betts, La decolonizzazione, Il Mulino, 2008. Ma se ne potrebbero citare tanti altri, soprattutto tra i manuali di storia.

[14] Faccio qui riferimento al titolo del lavoro di Vijay Prashad, The Darker Nations. A People’s History of the Third World, The New Press, 2008; trad.it Storia del Terzo mondo, Rubettino, 2009.

[15] A. White, Dud of the Week. 12 Years a Slave reviewed by A. White, http://www.nyfcc.com/2013/10/3450/.

[16] James Baldwin, Notes of a native son, London, Corgi 1965, p. 10.

[17] Per un parere diverso, vedi il commento di Paul Gilroy in http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/nov/10/12-years-a-slave-mcqueen-film-legacy-slavery. Secondo Gilroy, il film di McQueen, soprattuto nella sua estrema cura dei particolari storici sulla vita nella piantagione, si rivela piuttosto efficace nel porre il dibattito sulla schiavitù nelle sue connessioni con il presente, e al di là di ogni cliché razziale: «Il film rivela un mondo in cui la sofferenza è priva di qualunque capacità di redenzione e la comprensione umana, la generosità, la capacità di adattamento e la moralità non si conformano al semplice codice binario bianco/nero».

[18] F. Fanon, Peau noire. Masques blancs, Paris, Seuil 1952 (trad. Pelle nera. Maschere bianche, Milano, Marco Tropea editori 1996), pp. 10-11.

[19]   P. Gilroy, Darker than blue, cit.

[20] S. Hall, Race, articulation and societies structured in dominance, in UNESCO (a cura di), Sociological theories, race and colonialism, Paris, UNESCO 1980 (trad.it “Razza, articolazione e società strutturate a dominante”, in Cultura, razza, potere, a cura di Miguel Mellino, Verona, ombre corte, 2015) e S. Hall et al. (a cura di), Policing the crisis. Mugging, the state and law and order society, London, Macmillan 1978.

[21] A. Davis, Afro-images: politics, fashion and nostalgia, «Critical Inquiry», 21, 1, 1994. pp. 37-45.

[22] Cfr. S. Hall, «The Spectacle of the Other», in S. Hall, J. Evans, S. Nixon (a cura di), Representation: cultural representations and signifying practices, London, SAGE 2013, pp. 226-234.

[23]   P. Gilroy, 12 Years a Slave: in our «post-racial» age the legacy of slavery lives on, consultabile su http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/nov/10/12-years-a-slave-mcqueen-film-legacy-slavery.

[24] Per una critica di questo tipo, vedi ancora Armond White in, http://www.nypress.com/still-not-a-brother-armond white-on-django-unchained/.

[25] Vedi per esempio la critica al film in http://www.lecinemaestpolitique.fr/quelques-reflexions-sur-django-unchained/.

[26] F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 2001, p. 7.

[27] Come è noto, il film è stato assai criticato per il suo estremo di questa parola. Vedi ancora la critica di Armond White prima citata.