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Loro non sanno mai tutto

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Articolo di Gigi Roggero su La settima croce di Anna Seghers

“C’è soltanto una cosa che mi meraviglia, che la gente possa dire tante cose. E perché? Perché pensa che loro sappiano già tutto”. A parlare è Paul Röder, piccolo operaio nella Germania degli anni ’30. Non è nazista e non è anti-nazista, è semplicemente amico di gioventù di Georg Heisler, evaso insieme ad altri sei compagni dal lager di Westhofen, ed è per questo che l’ha nascosto e aiutato a proseguire la fuga. Loro sono la Gestapo, che l’hanno interrogato per un’intera notte, strizzandolo e rivoltandolo, minacciandolo di tutto quello di cui si può minacciare qualcuno. Ma, dice Paul alla moglie, è stato solo un “gran teatro”, perché loro “sono ben lontani dal sapere tutto, sanno soltanto ciò che gli viene detto”.

La settima croce di Anna Seghers (da poco ristampato da Beat con una nuova traduzione di Alessandra Petrelli) non è un romanzo sul nazismo. È un romanzo sulla resistenza. La cruda ferocia del nazismo è certo presente pagina dopo pagina, dal campo di Westhofen alle torture che i prigionieri subiscono, dalla rete di spie e informatori sul territorio alla crocifissione degli evasi mano a mano che vengono catturati. E quando scrisse il libro, tra il 1938 e il 1939 a Parigi, anche lei in fuga dalla Germania, l’autrice non poteva immaginare fino a che punto il regime hitleriano si sarebbe spinto. Tuttavia, protagonisti della storia non sono i comandanti e gli scagnozzi di Westhofen, gli infami agenti della Gestapo e i loro servi. Protagonisti sono i sette prigionieri che fuggono, la loro volontà di resistere, i rapporti organizzativi di cui si avvalgono e quelli che costruiscono. E alla fine una di quelle croci, la settima appunto, resterà vuota.

Non mancano i momenti di debolezza, l’apparente muro di complicità e indifferenza che pare aver risucchiato la società, il cedimento di oppositori e militanti. Füllgrabe, uno degli evasi, si consegna alla polizia perché pensa che sia impossibile fuggire, pensa appunto che loro sappiano già tutto. Riportato nel campo tenterà di tenere testa alla paura, morirà insieme ai suoi compagni. Lo stesso Heisler ha momenti di sconforto, quando il corpo sembra non sostenerlo, quando la fidanzata gli volta le spalle, quando viene a sapere che l’adorato fratello più piccolo veste l’uniforme delle SS, quando si chiede “e adesso?”. Ma poi ci sono i Röder, Fiedler, Kreß e la sua compagna; e chi, come Reinhardt e il suo vecchio amico Franz Marnet, hanno continuato a essere militanti nella clandestinità; e a loro modo anche l’ex moglie Elli e il padre, che pur molto distanti dalla condivisione delle ragioni della lotta non si piegano a chi li vorrebbe sottomessi e delatori.

La settima croce non è perciò una storia di eroi. È una storia di militanza, disciplina, coraggio, insostenibilità dell’oppressione, rottura dei dispositivi della paura. Chi decide di aiutare o comunque non denunciare Heisler e i suoi compagni, sfidando i rischi potenziali o concreti, non lo fa per semplice solidarietà umana: lo fa perché solo in questa scelta trova una via di fuga all’accettazione della schiavitù quotidiana, assaggia la possibilità di una vita degna di essere vissuta. Non insegue un martirio in senso religioso, cioè la silenziosa sofferenza nel nome di un indefinito aldilà, ma al contrario comprende la dura fatica e perfino la disponibilità al sacrificio di cui si compone il desiderio di libertà qui e ora. È la dimostrazione che la vita non è mai nuda, che perfino i cosiddetti regimi totalitari non cancellano la possibilità della contrapposizione e della trasformazione rivoluzionaria.

Dopo la prima pubblicazione nel 1942, il libro è rapidamente diventato un best seller internazionale, tanto che due anni dopo gli Stati Uniti – in chiave di propaganda anti-nazista – ne hanno fatto una versione condensata per i propri soldati, mentre la Metro-Goldwyn-Mayer produceva il film diretto da Fred Zinneman, con Spencer Tracy nella parte di Haisler. In apparenza piuttosto fedele al libro, la sua traduzione cinematografica ne stravolge in realtà il senso. Wallau, il punto di riferimento politico di Georg, cessa di essere un militante rivoluzionario per diventare una sorta di profeta cristiano; un generico umanesimo interclassista disincarna le figure concrete del romanzo, operai e lavoratori; la fede nella bontà prende il posto della necessità della resistenza; il richiamo a Dio rimuove quello che invece sostanzia tutta la storia, cioè la lotta per il comunismo. Già, perché erano militanti comunisti Heisler, Wallau e molti di coloro che si sono battuti non solo contro il nazismo, ma innanzitutto contro quel rapporto sociale da cui il mostro è stato generato. Dopo aver completato la sua fuga imbarcandosi sulla Wilhelmine, del resto, Georg non salpa per la normalità dello sfruttamento capitalistico, come vuole farci credere il film, ma va a combattere nella guerra civile spagnola. Ed era comunista Anna Seghers, che nel 1947 tornerà nella sua Germania, quella dell’est. Insomma, in attesa della sconfitta del nazismo, gli Stati Uniti si preparavano alla battaglia con il nemico strategico.

Ma forse quello spettro non è morto. Vive nella testa del nostro angelus novus, fatto del desiderio di libertà di milioni di Georg. Quell’angelo redentore tutti i giorni grida vendetta. E, almeno in potenza, agita ancora i loro sonni.

 

* Pubblicato anche su alfabeta2.