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Aiutarsi per cosa? Considerazioni su mutualismo, soggettività, autonomia

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di COMMONWARE

0. Il capitale, ci ha insegnato Marx, non va studiato con gli strumenti dell’economia bensì con quelli della politica, perché è prima di tutto un rapporto sociale, scandito dal ritmo dell’antagonismo tra due parti in lotta. È questo fondamentale assunto a suggerirci che non è possibile stabilire nessun nesso deterministico tra aumento della crisi e aumento delle lotte. Semmai l’esperienza storica ci ricorda l’inverso e cioè che è nei momenti di espansione che si allargano i conflitti per la riappropriazione della ricchezza. E tuttavia, anche in questo caso sarebbe sbagliato affidarsi ad una logica deterministica, correremmo il rischio di affidare la capacità di iniziativa nelle mani del nemico o a presunte leggi oggettive. Nelle fasi “di bassa” occorre allora porre i problemi giusti, agire l’anticipazione per evitare le scorciatoie che conducono sempre a soluzioni sbagliate.

1. La crisi ci sta ponendo con forza una questione fondamentale, quella del bisogno. Si potrebbe dire che tra crisi e bisogni si è stabilito un rapporto diretto: al sopravanzare della prima corrisponde la crescita dei secondi. In questo senso la crisi si configura come un immediato dispositivo di comando nella misura in cui produce una determinata figura soggettiva, quella appunto del soggetto bisognoso, del soggetto della mancanza: la vittima per eccellenza.

Figura paradigmatica del presente, il povero in quanto tale è stato assunto a referente di quella che potremmo indicare come politica del bisogno: un insieme “di pratiche sociali che si pongono prima di tutto, se non esclusivamente, il problema del soddisfacimento di un bisogno (la salute, la liquidità, una buona alimentazione, ecc.) che il mercato o lo stato non riescono a garantire.” Si tratta di un aspetto imprescindibile per qualsiasi politica radicale della trasformazione e tuttavia altrettanto problematico perché – come ammonisce Cristina Morini – “in assenza dei mezzi per provvedere al proprio sostentamento poca attenzione si finisce per prestare al contesto generale, a struttura e sovrastruttura, oppure alle condizioni in cui versano gli altri, intorno”.

Non si tratta semplicemente di ricollocare marxianamente la critica e la politica all’interno dei contemporanei rapporti di produzione – esercizio ben diverso dall’assumere come punto di partenza la “banale” esistenza di disuguaglianze economiche – ma anche di valutare gli effetti della pratica politica in termini di produzione di soggettività e di forme organizzative.

Daniele Giglioli, nella sua “Critica della vittima” scrive: “chi parla da vittima o per la vittima è sempre in situazione di chi parla al posto di qualcun altro. Ciò è ovvio quando qualcuno prende parola in nome delle vittime silenti. Ma paradossalmente vero è anche nel caso della vittima che parla per sé” e aggiunge: “se solo la vittima ha valore, se solo la vittima è un valore, la possibilità di dichiararsi tale è una casamatta, una fortificazione, una posizione strategica da occupare a tutti i costi”. La politica del bisogno rischia pertanto di rimanere bloccata dentro una logica assistenziale e di servizio – tanto cara alla filantropia liberale. Anche quando ad agire sono direttamente i poveri ripete paradossalmente il ritornello della rappresentanza, separa i soggetti dalla politica. Innesca pericolosamente una competizione per la conquista della posizione vittimaria. E allora il punto per noi non è solo quello di adottare forme politiche che facciano i conti con la materialità del bisogno ma soprattutto quello di sfidare il dispositivo della crisi sul terreno della produzione di soggettività, non assumere come un dato di fatto il soggetto della mancanza.

D’altronde, l’arruolamento alla guerra di segmenti della composizione di classe, da una parte e dall’altra del presunto scontro di civiltà, non funziona proprio perché fa leva su bisogni concreti, rispondendo a questo problema con una soluzione reazionaria e mistificata?

2. Negli ambiti teorici e politici di “movimento” – non a caso – ritorna con forza il tema del mutualismo. Non si tratta certo di un elemento nuovo, al contrario è presente nel dibattito sin dagli esordi del movimento operaio e con alterne fortune è arrivato fino ai nostri giorni. Come agli inizi della rivoluzione industriale quando un pezzo della composizione di classe non più garantito dalle tradizionali forme di tutela diede vita alle società di mutuo soccorso, oggi tra le figure del lavoro precario dopo la fine del patto sociale fordista proliferano le attività di self-help. Queste attività, o talora semplici allusioni suggestive, dovrebbero essere meglio precisate e suddivise in relazione ai soggetti sociali che le attuano: quando parliamo di neo-mutualismo in senso lato andrebbero per esempio distinte le pratiche e le retoriche dei settori della conoscenza “creativi” e “innovativi”, quelle che derivano dall’affrontare bisogni impellenti di sopravvivenza, le espressioni di gruppi militanti che offrono servizi autogestiti. Tali distinzioni andranno approfondite e chiarite perché, per quanto esistano ampie aree di sovrapposizione, vi sono evidentemente questioni, ambivalenze e possibilità diverse e specifiche da affrontare a seconda dei soggetti di cui parliamo. E tuttavia, per ora possiamo dire che oggi come allora mutatis mutandis si propone uno stesso problema. I liberali dell’epoca incoraggiarono lo sviluppo del mutuo soccorso, perfetta incarnazione del principio dell’autosufficienza, il neoliberismo di oggi si richiama al principio della sussidiarietà per socializzare i costi della riproduzione. Il compito allora, ancora una volta, non è quello di accontentarsi del dato di fatto, di assumere staticamente la proliferazione di pratiche di “mutuo-aiuto” o di rivendicarne il riconoscimento come tentano di fare gli orfani della sinistra, bensì di utilizzarle come strumenti di lotta. Era infatti proprio l’uso politico che ne faceva il nascente movimento operaio a spaventare la borghesia ottocentesca. La questione che ci sembra dirimente allora è: senza soggettività organizzata, e organizzata contro, non c’è alcuna possibilità di trasformazione.

3. Si è detto, ormai da qualche decennio, che è stata la fuga dal lavoro salariato ad imporre il superamento del fordismo. Tuttavia il capitale ha avuto la capacità di assorbire la critica materiale praticata dai movimenti di insubordinazione del lavoro vivo. Un nuovo regime di accumulazione si è imposto, proprio a partire da quegli stessi elementi critici che hanno informato lo sviluppo delle lotte contro il fordismo, e che oggi con un segno opposto sono elementi dinamici del capitalismo: così per il sapere, l’autonomia e la flessibilità del lavoro vivo. Il conflitto si è dislocato su un nuovo terreno, sono emerse nuove figure del lavoro e le vecchie hanno indossato panni nuovi, sono mutati i processi di valorizzazione. Con “cognitivizzazione” non abbiamo indicato – alla maniera dei liberali – la tendenziale egemonia di un settore capitalisticamente avanzato della composizione di classe all’interno della divisione del lavoro. Da un lato ci si riferiva alla tendenziale incorporazione del capitale fisso da parte del capitale variabile, e quindi all’individuazione di un antagonismo dagli esiti sempre incerti ma che lasciava intravedere nuove possibilità di autonomia. Dall’altro si indicavano nuove forme di valorizzazione, di sfruttamento e gerarchizzazione della forza-lavoro. È quindi dentro questa ambivalenza che bisogna leggere le pratiche della cooperazione sociale, come ad esempio il co-working, che interessano una certa composizione di classe. Innanzitutto per capire e verificare quanto in quell’ambivalenza specifica vi sia reale potenzialità di conflitto oppure no.

Si è diffusa l’idea che esse siano di per sé forme buone di autonomia – perché autogestite – l’espressione salvifica e progressiva di un definitivo superamento del lavoro salariato, condotto dall’élite innovativa dal punto di vista capitalistico e quindi centrale dal punto di vista politico. Ancora una volta, il compito per noi è quello di non fermarsi al dato di fatto. L’errore in cui incorrono queste letture è di non vedere l’ambivalenza, di sovrapporre e confondere la composizione politica con la composizione tecnica. Se c’è infatti autonomia della cooperazione sociale, essa stessa funziona capitalisticamente. Da qui viene tutta una serie di problemi che si pongono davanti a noi: la politica del riconoscimento, lo scambio tra indipendenza e salario, il lavoro gratuito, l’egemonia della forma impresa. Non bisogna però commettere l’errore opposto e simmetrico, di confondere in maniera inversa composizione tecnica e composizione politica, dando per persa qualsiasi forma di soggettivazione antagonista.

Il punto allora è trovare gli strumenti per sciogliere l’ambivalenza, recuperare un’idea forte di autonomia del lavoro vivo contro le utopie proudhoniane del fuori. Una nozione forte di autonomia perché saldata dentro i rapporti di produzione, forte perché dispositivo di soggettivazione e appropriazione del comune, forte perché posta in palio della lotta di classe.