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Ultrà: fenomenologia del tifo

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di LIUCS

Non è facile a vent’anni dalla sua pubblicazione addentrarsi in Ultrà di Valerio Marchi (ristampato da Red Star Press). Sono gli eventi e le circostanze susseguitesi alla sua pubblicazione e morte di Valerio che mi spingono a farlo per continuare nel costante tentativo di ampliare il dibattito all’intero della sottocultura Ultras.

Ultrà è un libro che un ultras o un semplice appassionato di questo mondo deve leggere, studiare ed approfondire. Non solo per la storia e fenomenologia del “tifo”, ma perché mette sul tavolo spunti di discussione e riflessione ancora molto attuali, necessari per capire il “che fare?”oggi all’interno del mondo Ultras.

Il libro si suddivide in tre parti, ognuna di per sé fondamentale: la prima tratta la nascita del tifo nella patria natia del calcio, l’Inghilterra. Il suo evolversi negli anni, l’ascesa attraverso la nascita dell’Hooliganesimo nelle sue diverse forme, la sua fase calante attraverso le contromisure che i governi, a partire dalla Thatcher, mettono in piedi per eliminare il fenomeno hooligans, fino ai giorni nostri quando, con l’appoggio delle società esclusivamente per scopo di profitto, si è arrivati a “normalizzare” il sistema calcio rendendolo puro spettacolo e niente di più; la seconda parte, forse quella che ci coinvolge direttamente, affronta la storia del “tifo” in Italia , le sue evoluzioni, la nascita del modello “Ultras”, le sue trasformazioni fino per arrivare agli anni ’90 del secolo scorso; la terza partetira le somme del fenomeno “Ultras” sottoponendo al lettore diverse riflessioni dello stato attuale del tifo.

In tutti i tre capitoli Valerio pone la questione dal punto di vista sociale e psicologico, cercando di approfondire il perché nascono e si solidificano certe sottoculture, come esse attraverso il calcio arrivino a legare passione per la propria squadra e città alla dura vita quotidiana e di strada. Interessante anche come viene affrontato il “concetto” di violenza, legata strettamente all’illusione che la cultura dominante offre alle fasce giovanili del sottoproletariato di ogni epoca, quelle fasce giovanili che diventeranno poi il cuore pulsante dell’hooliganesimo (teddy boy, skinhead e casual) in Inghilterra e Ultras (ultras, hooligans, casual) in Italia.

Ogni decennio ha avuto il suo movimento, i suoi momenti di resistenza e di elevata pulsione sociale, che ancora oggi resiste e reclama spazio all’interno di una società volta ai consumi, creatrice di illusioni e che allo stesso tempo crea distanze tra classi sociali con la logica conseguenza che quelle subalterne e proletarie reclamino visibilità e voglia di “volere tutto e subito”, anche quello che non si può ottenere.

Questo concetto all’interno del libro emerge più volte, anche se con tempistiche diverse tra Inghilterra e Italia, ed è proprio dalle masse escluse ed emarginate che nascono quelle sottoculture che daranno vita alla nascita del movimento Ultras che conosciamo oggi.

In Inghilterra, dove il calcio sin da subito si presenta come sport popolare, sul finire degli anni ’60 del secolo scorso nasce il movimento Skinhead. Una sottocultura che emerge dalla Working Class, sottoproletariato in cerca di visibilità e riscatto con schemi ben precisi e look che si rifà proprio agli operai inglesi: testa rasata, camicia, bretelle, jeans stretti e stivali da lavoro. Votato al senso di appartenenza e alla territorialità, con lo stile Skinhead nel 1967/1968 nasce il movimento Ultrà Inglese. Da qui nel decennio successivo fino ai primi anni ’80 molti gruppi Skin iniziano a frequentare i settori popolari degli stadi dei loro quartieri (se parliamo di città grandi come Londra, Manchester o Liverpool) o semplicemente delle loro città o paesi. Un senso di appartenenza e di “violenza” che porterà alla difesa e all’attacco della propria curva o settore praticando quella che diventerà la modalità diffusa in quegli anni, ovvero la “take the end”. È un movimento ultras tra l’altro diventato famoso per le trasferte coi treni Intercity, dal quale molte tifoserie attingeranno il nome Intercity Firm reso poi famoso dal libro I.C.F di Cass Pennant, storico ultras del West Ham.

È un movimento accusato da sempre di razzismo e xenofobia, questione che Valerio nello specifico spiega molto bene attraverso le sue evoluzioni e diramazioni politiche. Sono accuse che prendono piede soprattutto con il tentativo del National Front Inglese di fare proselitismo di estrema destra all’interno delle curve Inglesi, cosa che in parte riuscirà ma che in brevissimo tempo le logiche ultras con le sue regole in larga parte respingeranno e isoleranno, benché non lo cancelleranno. Alcune tifoserie tutt’oggi continuano infatti ad essere dichiaratamente di stampo razzista e xenofobo. Apro qui una parentesi: interessante oggi è capire, parlando con chi porta avanti la cultura skin, come essi rimandano al mittente le accuse di razzismo e xenofobia, rimarcando come il vero skin si rifà “allo spirito del ’69”, rigettando quelle derive di estrema destra (bonhead) e le sue logiche razziste e xenofobe.

Per arrivare al movimento Ultras in Italia bisogna partire da più lontano per capirne le evoluzioni. Agli albori il calcio in Italia era solo “roba” per le classi medio-alte della società. Questo perché il proletariato italiano, a differenza di quello inglese, non aveva tempo materiale per assistere o giocare le partite di calcio a causa di ritmi e tempi di lavoro incessanti che dovevano sopportare e alla scarsa disponibilità economica. Sport di “ massa” comincia a esserlo con l’avvento del fascismo che usa il calcio come strumento di propaganda per la sua sporca dittatura (sappiamo molto bene come e perché la nazionale di calcio in quegli anni vinse ben due mondiali e una olimpiade!), ma è con la fine del secondo conflitto mondiale che assistiamo alla trasformazione da sport di elite a sport di massa vero e proprio; i ceti popolari cominciano ad avere più tempo libero e iniziano non solo a giocare a questo sport ma a frequentare gli stadi, formando i primi gruppi organizzati che prenderanno quasi tutti il nome di “fedelissimi”, diventando più che tifoserie dei veri e propri club organizzati con episodi di violenza legati soprattutto ai risultati sportivi.

È con le rivolte sociali del 1968-69 per poi travasarsi negli anni ’70 che molti ragazzi cominciano a mettere piede nelle curve degli stadi, il settore più popolare, e a formare i primi gruppi ultras organizzati, che diventeranno gruppi militanti e che porteranno nelle curve il bagaglio politico e culturale delle lotte di piazza.

Gruppi organizzati, militanti che attraverso striscioni, tamburi, megafoni e una militanza settimanale preparano il giorno della partita. Appunto dalla strada perché ancora una volta questi gruppi e il loro agire nascono dalle condizioni sociali dell’Italia dell’epoca. La voglia di emergere, di visibilità, di prendersi quello che gli spetta. Non a caso si decide di entrare nei settori popolari (gli unici che si potevano permettere) perché il calcio, nonostante il suo ruolo di massa, è uno sport di “classe” e divisione sociale dove ogni settore rappresenta un ceto: le curve per il popolo, mentre gli altri settori crescono di prezzo e di classe in base al loro posizionamento e importanza.

In questi anni cambia anche il concetto di violenza. Non è più una violenza legata al risultato e contro la squadra, ma diventa quasi esclusivamente politica (anche se non mancheranno episodi di violenza legati al campanilismo) perché le curve oramai sono diventate un vero contenitore e bacino politico, che esse siano di destra o di sinistra: dalle piazze si entra nelle curve e viceversa. Non mancano episodi dove ancora una volta la legge del beduino[1] fa sì che spesso alcune tifoserie rivali in un contesto di piazza e di scontri rivolgano la loro rabbia contro la polizia, rappresentante di quello stato che con affare illusorio, in periodi di sviluppo economico, invece di pareggiare il livello sociale, crea ancora più distanze.

Sono due fenomeni, quello inglese e quello italiano, che se pur distanti tra loro e nati da strade ed eventi diversi convergono sul concetto di violenza e di voglia di emergere. Due fenomeni che nel tempo, attraverso quello che viene chiamata “moral panic”, hanno visto la controparte evolversi anch’essa, dovendo confrontarsi con sistemi e modi repressivi sempre più incisivi e violenti, utilizzati per debellare il fenomeno Ultras negli stadi, verso una normalizzazione atta a compiacere chi, snaturando questo sport, nel calcio vede solo profitto e niente più.

Da qui, e mi avvio alle conclusioni, vorrei portare alcuni spunti di riflessione sullo stato attuale del mondo Ultras in Italia oggi. Valerio ha la capacità, già nel lontano 1994, di capire come la controparte o cultura dominante (chiamatela come volete) si sarebbe mossa per “normalizzare il mondo Ultras”. Per dirla tutta, mette in guardia gli Ultras da quello che sarebbe potuto succedere e che poi nei fatti è accaduto e sta accadendo. È sulla parte finale del secondo capitolo e su tutto il terzo che gli Ultras dovrebbero soffermarsi e capire come poter passare dalla fase di resistenza e stagnazione a quella del contrattacco. È un passaggio difficile, che a mio avviso deve prevedere scelte dolorose ma necessarie, che devono mettere in prima linea la parte finale della legge del beduino affinché tutti gli ultras si uniscano contro la controparte e ristabilire lo stato delle cose come lo conosciamo. Troppo spesso raduni e incontri Ultras partiti con ottimi auspici si sono trasformarti in nulla di fatto, lasciando cadere nel vuoto molti propositi di lotta; troppo spesso ho visto Ultras unirsi dopo morti o arresti, causati da una repressione asfissiante da parte della controparte, ma finito il singolo evento fan ricadere la rabbia in se stessi invece di riversarla contro chi vuole questo mondo morto; troppo spesso e sempre più frequentemente vediamo Ultras che fanno di questa passione un lavoro mettendo da parte l’appartenenza e la passione per questa sottocultura.

Gli spirargli, se pur minimi, ci sono ancora per reagire e passare alla fase di contrattacco; forse Valerio con questo libro voleva metterli davanti agli occhi di tutti, ma questi devono essere colmati appunto dalla volontà di questa sottocultura di tornare a riemergere e primeggiare.



[1] “Io contro mio fratello; io e mio fratello contro mio cugino; io e la mia famiglia contro la tribù; io e la mia tribù contro le altre tribù; io e tutti gli altri beduini contro chiunque altro”.