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Dentro e contro: ma in quale direzione?

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di GIGI ROGGERO

Un’analisi molto utile, un punto di vista molto discutibile. Ridotto all’osso, possiamo brutalmente sintetizzare così Dentro e contro di Marco Revelli (Laterza, ottobre 2015). Partiamo dal contenuto: il libro è un diario, preciso e acuto, di quello che l’autore ritiene un cambiamento della costituzione italiana, materiale e formale, tra il 2011 e il 2015, tra la famigerata lettera commissaria di Draghi e Trichet e lo sviluppo del governo Renzi. Questo cambiamento non costituisce per Revelli una parentesi, ma un passaggio strutturale: qui dentro si registra l’occupazione da parte del “populismo” dell’intero campo politico istituzionale, di governo e di opposizione.

Nelle prime decine di pagine tale opzione è collegata, in modo non certo inedito, all’ascesa del Movimento 5 stelle. Revelli non si limita però a brandire il termine a mo’ di scomunica per il rozzo e barbarico grillismo, com’è diventato di moda tra commentatori e opinionisti di sinistra che dell’anti-grillismo hanno fatto una professione, ma analizza la genealogia del M5s: la fa risalire al 2005 con la campagna “Tango Bond”, con cui si rivendicava il risarcimento agli ignari clienti che avevano subito lo spaccio bancario di bond argentini, il sostegno alle lotte territoriali contro gli inceneritori e la devastazione del territorio, nel 2007 la campagna “Gli schiavi moderni” per dare voce ai giovani precari, soprattutto a medio-alta scolarizzazione. E ancora, la campagna per i piccoli azionisti Telecom, quella contro il governatore di Bankitalia Fazio, e ovviamente i “V-Day” del 2007 e del 2008. Quest’ultimo era – aggiungiamo – l’anno del movimento dell’Onda, in cui si potevano trovare nella loro ambivalenza molti dei temi e degli istinti del M5s. La ricostruzione problematizza la dimensione interclassista con cui si è soliti etichettare il M5s: sarebbe meglio parlare di uno spazio di tensione e conflitto tra differenti prospettive di classe, il cui nucleo centrale è però costituito da un ceto medio in crisi o già esploso. Questa radice materiale spiega la convivenza tra le ideologie neoliberali e la difesa dai processi di declassamento, le rivendicazioni meritocratiche e l’avversione alla precarietà. L’ambiguità è innanzitutto nei fatti prima ancora che nelle posizioni che li esprimono.

Quando il populismo è di governo, così recita il sottotitolo del volume, per sottolineare la centralità della categoria nello sviluppo dell’analisi di Revelli. Tale categoria, com’è noto, negli ultimi anni è diventata un guscio vuoto, più un insulto che non uno strumento analitico. Si sono perse le tracce della sua origine, radicate nella Russia della seconda metà dell’800, epoca in cui il populismo rappresentò la nobile tradizione rivoluzionaria di intellettuali che andavano al popolo per difenderne valori più o meno mitologici e forme di vita organizzata contro l’incipiente colonizzazione capitalistica. La figura principale a cui i populisti si rivolgevano era tutt’altro che indefinita: si trattava del piccolo produttore progressivamente marginalizzato e impoverito dallo sviluppo, da qui le derive romantiche e piccolo borghesi duramente criticate da Marx e da Lenin. Il rapporto capo-masse, divenuto emblema della sua definizione contemporanea, non è una caratteristica necessaria né tanto meno peculiare del populismo. Allora, se già per il M5s l’utilizzo del termine ci sembra improprio e poco utile, non capiamo cosa c’entri Renzi con il populismo. Ed è decisamente anti-populista il feticcio dell’innovazione, contro cui i narodniki rivoluzionari si batterono fieramente, e su cui al contrario si basano la rottamazione e i cinguettii del pifferaio fiorentino. Se proprio vogliamo rifarci a suggestioni prese in prestito dall’800, Renzi è più un piccolo Luigi Bonaparte, ovvero una farsa della farsa.

Come è nato questo bonapartismo senza 1848? Revelli ricorda la frase pronunciata da Draghi all’indomani delle elezioni italiane della primavera 2013, volta a rassicurare i mercati: tranquilli, disse rivolto a questa concreta entità metafisica, “abbiamo il pilota automatico”. Di questo pilota collettivo Renzi è, come disse Marx di Luigi Bonaparte, il “nome collettivo”. Si spiega così come l’uomo più limitato possa acquistare il significato più multiforme: “appunto perché non era nulla, egli poteva significare tutto, fuorché se stesso”. Passerà Renzi, resterà il renzismo. Non a caso un altro Matteo invoca la successione. E tuttavia – qui entriamo nella problematicità del punto di vista – se per Revelli le parole del presidente della Bce certificano la sospensione della democrazia, a nostro avviso ne esprimono al contrario la piena realizzazione. La democrazia è il pilota automatico del capitale: non sono gli elettori a comandare la macchina, ma avviene l’inverso. Puoi scegliere chi vuoi alla guida, nella misura in cui la tua scelta non incide sulla destinazione del viaggio. Allora, da un punto di vista rivoluzionario, il problema non è cambiare il pilota, bensì dirottare l’aereo.

Un’occasione il M5s l’ha avuta, in uno degli episodi chiave del diario di Revelli: tra il 18 e il 20 aprile 2013, nei giorni dell’elezione di Re Giorgio. In quell’occasione non si trattava di appoggiare un altro candidato, ma appunto di sabotare la macchina, di farla esplodere. Di farsi qui sì strumento del “popolo”, non ritirando l’annunciata convocazione dell’adunata sotto Montecitorio, sciogliendosi nell’impeto di massa di quella multiforme composizione di soggetti colpiti dalla crisi di cui il M5s era espressione, offrendo ad essa un’occasione di battaglia, un casus belli che andava ben oltre l’inutile scelta di un capo di Stato. Giocando ancora con gli improbabili parallelismi con la Russia dell’800, dove poteva esserci uno zar Alessandro II che cadeva, c’è stato invece il 18 brumaio del custode della costituzione. Lì il M5s ha abdicato, diventando un attore istituzionale più o meno come gli altri, i cui esponenti si accontentano – scrive l’autore – di rappresentare il precariato intellettuale, la creative class all’italiana, o se vogliamo un più o meno immaginario quinto stato.

La strada istituzionale per il renzismo a quel punto è spianata. Anche qui Revelli traccia un profilo preciso e intelligente del governo del fare senza complemento oggetto, dell’azione contrapposta al pensiero (quanto renzismo c’è anche nei movimenti, speculare agli inveterati cultori del ruolo intellettuale), con il suo mito della velocità completamente indipendente dai contenuti. O meglio, con i contenuti dettati da una macchina europea che, ci dice l’autore, non ha nemmeno più bisogno della Troika perché l’ha interiorizzata. Chi si ostina a vedere uno scarto tra Europa e Unione Europea, ovvero tra Europa astratta ed Europa reale, è ostaggio delle proprie ideologie, al pari di chi pensa che un governo nazionale possa sottrarsi al controllo del pilota automatico. In questo scenario, Renzi non ha una strategia, un progetto di medio-lungo periodo, è pronto a distruggere il futuro per sopravvivere nel presente. Questa sua apparente debolezza ne costituisce in realtà la forza, perché gli permette di essere interprete politico della crisi permanente, cioè di una forma di governo finalizzata all’autoconservazione del comando capitalistico. “Senza la crisi il renzismo non sarebbe neppure concepibile”, osserva correttamente l’autore, spiegando come Renzi sia la crisi messa al lavoro in politica. In questa direzione il piccolo fiorentino agisce una continua verticalizzazione del potere in tutti gli ambiti, dal governo all’impresa passando per la formazione, ovvero con Italicum, Jobs Act e Buona Scuola; e ovviamente la pratica nel partito, disfandosi senza remore del fardello del Pd, con quel coraggio della rottura interna che i suoi avversari non hanno avuto. A questo punto il riferimento al populismo diventa completamente inspiegabile: Renzi è una figura del comando politico del capitale-crisi, si è liberato delle mediazioni nella misura in cui ha compreso che la società è esplosa e si è polarizzata. Agisce per la sua parte, compattando il potere verso l’alto e dividendo verso il basso le figure che lo possono mettere in difficoltà, e scegliendo registri differenti di comunicazione a seconda dei livelli a cui il messaggio deve arrivare.

Come si combatte il renzismo, di e oltre Renzi? Qua l’apprezzamento per il contenuto analitico del libro deve cedere il posto alla sua critica. Nell’ultima parte, infatti, Revelli parla in modo piuttosto rituale dell’esempio greco come la breccia in cui ci si può inserire, senza dire nulla di cosa è accaduto a chi in quella breccia si è effettivamente inserito. A quel punto non resta, come è stato fatto dopo la resa incondizionata di Tsipras della scorsa estate, che recriminare sulla cattiveria della controparte. Piaccia o non piaccia, però, Carl Schmitt continua a spiegare la realtà “postmoderna” molto meglio della teoria dei giochi. L’esibizione della ferocia del nemico serve semplicemente a rafforzarlo, mostrando la nostra impotenza. È qui all’opera l’atteggiamento tipico della sinistra (chiamatela nuova se volete, oppure post o radicale, tanto il risultato è identico). È il ritagliarsi il ruolo di rappresentanti delle vittime davanti a un’opinione pubblica effimera, che si indigna attraverso facebook per la foto di Aylan e i bambini che soffrono, e all’ora dell’aperitivo affoga le proprie lacrime nello spritz. Le vittime servono per appagare le coscienze e recitare la messa, non per cambiare lo stato di cose presente.

Allora le coordinate dentro cui l’analisi di Revelli si muove, la rappresentanza e la costituzione, sono parte del problema, non certo la sua soluzione. Gli accenti etici dell’autore, davanti all’ipotesi di un “populismo fascistoide”, trovano la propria radice nella tradizione azionista, innanzitutto piemontese. La proposta sembra a tratti quella di un frontismo costituzionale, una posizione morale più che politica, dunque irrealistica prima ancora che non condivisibile: il cambiamento della costituzione formale, come ci ha spiegato lo stesso autore, è infatti stato semplicemente la ratifica del cambiamento della costituzione materiale. Qui vanno cercate le armi per combattere il governo della crisi, un Matteo e l’altro. Le possiamo trovare solo negli ambigui comportamenti di quei soggetti che quel cambiamento l’hanno in parte subito e in parte determinato. E quelle armi le possiamo usare non arginando, bensì agendo fino in fondo la crisi della rappresentanza. Lo stesso Revelli, d’altro canto, spiega come l’astensione sia divenuta un “voto qualificato”, ossia “non un atto passivo, di apatia, ma una scelta consapevole di denuncia e di rifiuto della politica mainstream e del suo establishment (non un exit ma una voice, direbbe Hirschman)”. Ricondurre questo “voto qualificato” nell’alveo istituzionale (di destra o di sinistra, oppure al di là di entrambe) è stato l’errore mortale del M5s, è l’obiettivo dei due Matteo, ed è alla fine il desiderio dell’autore. Per noi invece il problema è trasformare la potenziale ingovernabilità in uno spazio di effettiva rottura, così come Renzi l’ha agita come elemento di stabilizzazione del potere.