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Con e oltre Carl Schmitt: la guerra al tempo dell’assolutismo morale

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di FRANCO MILANESI

Il novum della guerra tardo novecentesca deve essere pensato sondandone la densità storica, cioè il carattere di rottura e contiguità che intrattiene con il passato. A tal fine la strumentazione concettuale offerta dall’opera di Carl Schmitt risulta preziosa. Non si tratta, evidentemente, di essere più o meno d’accordo con un giurista paranazista e razzista che a fronte di una straordinaria profondità di sguardo ha ricondotto il conflitto di classe a un semplice fattore di regressione premoderna del politico. Si tratta piuttosto di maneggiare la sua articolazione teorica come dispositivo di ripulitura della mescola di interessi, leggi morali eterne, valori, religione e appelli alle coscienze che il liberal-capitalismo ha utilizzato per opacizzare il reale e confondere lo sguardo critico. Se coniughiamo questa azione di rischiaramento dentro una comprensione tutta “di parte”, se utilizziamo la sua opera non ingessandola nella filologia ma mettendola incessantemente alla prova di uno sguardo in grado di assumere o scartare suggestioni e motivi allora, forse, rendiamo un servizio al pensiero (anche a quello di Schmitt) e qualche nebbia del presente possiamo tentare di diradare.

Il lungo corso del paradigma vestfaliano e del jus publicum Europaeum, cioè del concreto principio d’ordine internazionale fondato sull’entità-Stato che seguì i conflitti religiosi cinquecenteschi e la guerra dei trent’anni (1618-1648), affonda le sue radici tanto nell’architettura politico-istituzionale quanto nella vicenda dell’ordo capitalistico borghese sostanziale a quell’impianto. Lo Stato dunque – operiamo già un netto scarto dall’assolutizzazione schmittiana – nonè l’unico attore sulla scena della modernità ma divide e intreccia il suo primato con il capitale, come è evidenziato dall’estesa applicazione di una razionalità calcolante che connette l’economia politica borghese all’architettura istituzionale e allo sviluppo tecnico- scientifico.

In questa realtà la guerra, cioè la violenza organizzata in forma giuridica, svolge una funzione costituente: definisce i nuovi rapporti interstatuali attribuendo alla sovranità politica, anche a quella di nuova formazione, piena autonomia decisionale dentro i confini territoriali; rilancia al termine del conflitto armato l’eguaglianza giuridica tra soggetti statali (che si sostanziava nel jus ad bellum, cioè nel diritto, paritetico, di fare la guerra) e fissa il divieto di interferire negli affari interni. Fin qui Schmitt. Si tratta ora di volgere lo sguardo dentro i confini dello Stato, osservando una realtà molto meno pacificata di quanto il teorico della funzione “frenante” della sovranità sosteneva. Infatti, se il potere sovrano è quello che decide sullo stato d’eccezione (Schmitt) e se lo Stato come articolazione di autorità, popolo e territorio nasce da dispute e conflitti tra forze che lottano per il potere di dettare la costituzione (Mortati) è chiaro che la guerra detta principi d’ordine internazionale nella stessa misura in cui “risolve” le tensioni interne. Cosicché i trecento anni che seguono la pace del 1648 andrebbero osservati nell’incessante azione di sponda tra ordo nazionale e internazionale. Ogni guerra infatti porta a fibrillazione i rapporti sociali e si risolve “mettendo ordine”, cioè riallineando amici e nemici del fronte interno. Non dobbiamo mai perdere di vista questo doppio ruolo disciplinante delle guerre interstatuali, all’esterno, certo, ma non meno all’intero delle unità territoriali impegnate nel conflitto armato. Ogni guerra, a rigore, è sempre anche una guerra civile.

La razionalità moderna ha avuto il merito, come rileva il realismo politico schmittiano, di “asciugare” il conflitto da ogni rivestimento morale. Il senso della guerra è racchiuso nella motivazione geopolitica della conquista o del consolidamento del potere territoriale. Questo è la sua finalità che porta con sé tanto l’individuazione del nemico quanto la dichiarazione di guerra, la sua conduzione militare e la decisione della sua fine. La condizione di questo svolgimento tutto politico è, va ribadito, il riconoscimento del nemico come portatore di pari diritto, dunque di una politicità sostanziale spogliata da ogni connotazione morale, coscienziale, religiosa. La modernità politica emerge dal Medioevo proprio attraverso questa azione di neutralizzazione della dimensione valoriale.

Quando e dove si colloca la cesura? Quali sono gli elementi di discontinuità che portano all’implosione del paradigma vestfaliano? Quando si riapre il “discorso morale” sulla guerra e sul nemico? Nel 1963 Schmitt scrive, nella premessa al suo testo del 1932, che lo Stato “come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione ultima, questa fulgida creazione del formalismo europeo e del razionalismo occidentale, sta per essere detronizzato” (Carl Schmitt, Premessa a Il concetto del politico, in Le categorie del politico, p. 90). Finalmente Schmitt si è accorto che il capitalismo globale non solo opera interamente al di fuori dei confini della decisione politica, ma si proietta su di essa depotenziandola alla radice. L’esercizio di sovranità, tradizionalmente circoscritto dentro il limes tracciato dall’autorità statale, investito dalla potenza del flusso capitalistico subisce un processo deterritorializzante che ne annulla l’efficacia minandone la stessa ragion d’essere. Va detto che nel ragionamento schmittiano l’esautoramento dello Stato (nostalgicamente evocato come unico principio ordinante) e la reintroduzione della prospettiva valoriale sono imputabili, più che alla funzione fluidificante del mercato, all’assolutismo ideologico del cosmopolitismo liberale e dell’internazionalismo. Indifferente, anzi compiaciuto, di fronte allo squilibrio tra Europa e mondo su cui si è fondata la spinta coloniale, Schmitt osserva con sgomento la perdita di protagonismo del vecchio continente in un mondo bipolare dominato da USA e URSS. Il giurista ammaliato dal raffreddamento dell’etica garantito dal diritto pubblico elaborato dentro l’intreccio diplomatico-militare dell’Europa moderna, registra con perplessa e amara ironia la contaminazione del “politico” ad opera di una narrazione moraleggiate e criminalizzante che tratteggia il nemico come avversario irriducibile alle regole della discorsività politica. Lenin e i suoi epigoni, nelle parole di Schmitt, sono responsabili al pari del fondamentalismo liberale della diffusione di una violenza s-confinata e priva di regole, destinata a segnare le relazioni internazionali. Lenin ha “preso sul serio” il concetto di inimicizia totale poiché l’avversario di classe, il borghese, il capitalista occidentale diviene una figura demonizzata contro cui scatenare una guerra senza tregua e senza confini. Rispetto al conflitto di classe “la guerra circoscritta del diritto internazionale europeo classico, che procede secondo regole riconosciute, non è molto di più di un duello fra due cavalieri in grado di darsi soddisfazione” (Schmitt, Teoria del partigiano, pp. 73-74).

Rimettiamo ordine nel discorso schmittiano al fine di estrarre da un’estenuante esaltazione della forma-Stato indicazioni utili a leggere la tarda modernità capitalistica e le sue guerre. Infatti, a parte la discutibile sottolineatura di una propensione irenica del sovranismo statale, empiricamente smentita nell’ininterrotta cadenza di guerre, spesso devastanti, che punteggia la storia europea e mondiale; a parte la rappresentazione del bolscevico come barbaro generato non da una condizione materiale di oppressione ma dal vettore attivante dell’ideologia del reissentiment; a parte l’eurocentrismo assiomatico che si rende disponibile a scaricare sul “fuori” ogni mira espansionistica (“L’anticolonialismo è soprattutto propaganda antieuropea”, Carl Schmitt, L’ordinamento del mondo dopo la seconda guerra mondiale), i contributi schmittiani restano illuminanti per capire la configurazione del nemico al tempo della guerra morale che abbiamo di fronte a noi. Guerra giusta, criminalizzazione del nemico, depoliticizzazione e reinserimento di categorie morali gerarchizzanti: questa è la novità che Schmitt prefigura a partire dagli anni Trenta e che si sostanzierà appieno tre decenni dopo. Facciamo buon uso del parallelismo, spesso forzato ma affascinante, tra dimensione geografica (geopolitica) ed elaborazione teorica e ripartiamo dal secondo dopoguerra. Il bipolarismo che ha sgretolato l’egemonia europea ha configurato in modo diverso il Grande Spazio (Grossraum) di un mondo “aperto”, percorso da una pluralità di soggetti politici (Schmitt osserverà con orrore le lotte anticoloniali) e striato dalla circolazione globale capitalistica la cui ferrea legge del profitto, sappiamo, agisce come dissolutore di ogni vincolo, compresi i confini e le delimitazioni territoriali. In ogni caso, tra il jus publicum e il caos di oggi, tanto il bipolarismo quanto il decennio della solitaria egemonia statunitense rappresentano momenti in cui è ancora attivo un principio d’ordine internazionale fondato sulle rappresentazioni muscolari tra le due potenze e su nette prese egemoniche territoriali. Ma è proprio in questo passaggio che il discorso morale delle due parti si fa assordante, che lo scontro politico si sostanzia di diversità antropologica. In Schmitt l’economia politica resta sullo sfondo ma se la collochiamo al centro della scena, dove deve stare, le sue osservazioni sulla tirannia dei valori acquistano una pertinenza straordinaria.

Nell’ultimo decennio del secolo, implosa la galassia sovietica, gli Stati Uniti potevano riarticolare il sogno di un “regno millenario” attestato sui pilastri della democrazia politica, dell’egemonia borghese e del liberismo. La “tirannia dei valori” che nel confronto tra homo oeconomicus e homo sovieticus aveva introdotto una contrapposizione valoriale antropologica in una logica ancora tutta “classicamente” territoriale, dilaga ora invadendo il terreno del politico e desostanziandolo. Il primo intervento americano post-’89, a Panama, prende il nome di Operation Just Cause e la guerra contro l’Iraq del 1991 che mobilita uno schieramento eccezionalmente esteso sotto egida USA è già agita sul doppio binario del ristabilimento del principio di gerarchia monopolare e della criminalizzazione dell’avversario. La promozione della democrazia, con la rielaborazione teorica del suo “compito storico”, della “guerra giusta” e della “guerra preventiva”, fa da corollario all’idea che più mercato e più democrazia (cioè la virtuosità interna) esprimano un potenziale equilibratore anche all’esterno dei singoli stati. Su chi scivola all’esterno di questa autorappresentazione si abbatte l’anatema. Appaiono gli Stati canaglia, l’asse del male, i paladini del bene. Questa “tirannia dei valori”, cioè la corruzione della politica attraverso la rivestitura morale della guerra, avviene in parallelo con il dilagare nello spazio-mondo del capitale. È stato giustamente osservato da uno dei più acuti interpreti di Schmitt che “specificità del concetto di valore” va cercata nella “sua sfera originaria, dunque nel campo dell’economia”, per cui se “una valorizzazione universale è oggi in atto in tutti gli ambiti della nostra esistenza sociale” e vengono convertiti “in valori anche i fondamenti dell’esistenza teologica, filosofica e giuridica, la valorizzazione universale non può che accelerare il processo di neutralizzazione generale” (Franco Volpi) e, aggiungiamo noi, il processo di naturalizzazione dell’economico, unica ragione del mondo. Si può disquisire all’infinito se questa sottomissione del politico faccia parte di un progetto della razionalità economica o se, mettendone in dubbio la capacità strategica, sia soprattutto l’esito sistemico di una macchina mondiale che, al più, è in grado di programmare ipotesi tattiche di brevissimo respiro. Quale sia la causa, quanto giochi l’eterogenesi dei fini in un sistema ad alta complessità procedurale, il risultato è che dopo gli anni Novanta salta il rapporto stretto tra territorio, Stato, decisione politica, guerra, gerarchizzazione del principio d’ordine, sostituendo la scena ordinata dei soggetti tradizionali con un caos molecolare in cui si ridefiniscono incessantemente tutti i confini, o i fantasmi di questi. Alla guerra interstatale tra equivalenti giuridici spogliati di connotazioni morali si è sostituita una guerra civile mondiale, a gradi diversi di intensità, basata sull’assolutizzazione morale del nemico. “La discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale dei teatri di guerra. Il potenziamento dei mezzi di annientamento spalanca l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva” (Carl Schmitt, Il Nomos della Terra, p. 430). È doveroso rivelare l’apporto americano ed europeo a questa eticizzazione dello scontro, ma non si può non cogliere come le tradizioni religiose svolgano un analogo ruolo di iniezione ipervaloriale verso un “oltre” del politico. Martiri e infedeli, bene e male, dannati e salvati: se per Schmitt la modernità giuridica aveva significato l’espulsione di queste dimensioni extra politiche, negli ultimi anni esse hanno capillarmente innervato le retoriche giustificative che accompagnano le guerre, saturando rapidamente lo spazio comunicativo.

Si verifica comunque un curioso riallineamento che sembra dare ragione ancora una volta a Carl Schmitt quando scrive che “tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico; essi hanno presente una conflittualità concreta, sono legati a una situazione concreta, la cui conseguenza estrema è il raggruppamento in amico-nemico (…) termini come Stato, Repubblica, società, classe, e inoltre: sovranità, Stato di diritto, assolutismo, dittatura, piano, Stato neutrale o totale e così via sono incomprensibili se non si sa chi in concreto deve venire colpito, negato e contrasta attraverso questi termini” (Carl Schmitt, Il concetto di politico in Le categorie del politico p. 113). Se accogliamo questa indicazione, la crisi della parola e il caos del pensiero ci appaiono come contrappunto coerente della pulsione entropica della realtà effettuale. Motivazioni “ufficiali” dei soggetti sul campo, comunicazione mediatica, decostruzioni degli “esperti”, deliri solitari trasformati in “gioco delle opinioni” nel cyberspazio: il pulviscolo fitto di parole avvolge il caos della guerra e si fa corpo materiale con il disordine globale al punto che la disgregazione semantica “spiega” paradossalmente quella della sovranità geopolitica. Non sembra più tracciato il confineche separa “un ordinamento pacifico da un disordine senza pace, il cosmo da un caos, la casa da una non-casa, un luogo custodito da un territorio selvaggio” (Carl Schmitt, Il Nomos della Terra, p. 33). Soprattutto si scioglie il nesso tra Ordinamento (Ordnung) e Luogo (Ortung), una scissione che percorre anche il linguaggio sempre più privo di origine e di supporto di soggettività e sempre meno capace di concettualizzare, cioè tentare di dare ordine al mondo.

Certo non possiamo limitarci a constatare questa sovrapposizione tra crisi categoriale e crisi storica, magari fornendo l’ennesimo contributo al metadiscorso pubblico sull’impotenza dell’agire razionale. Il disordine sotto il cielo non è, in quanto tale, una buna occasione. Il caos può essere passivizzante, può polverizzare i processi costitutivi, può esprimere una violenta richiesta di disciplinamento. Ma dal caos è anche possibile ripensare un nostro principio di vita. Facciamo, ancora una volta, buon uso di ciò che ha scritto Carl Schmitt, riattiviamo quel compito che egli attribuiva alla sfera del politico: individuare la propria parte, fare chiarezza sul nemico, liberare l’agire dalla muffa morale, potenziare la costituzione di quella particolare forma di amicizia che è l’amicizia politica. Scegliere tatticamente le forme del polemos di volta in volta più adatte. Infine, assumiamo fino in fondo i criteri che delineano quella nuova soggettività osservata da Schmitt con preoccupazione, rovesciandola in fonte di speranza antropologica e politica nel tempo della barbarie capitalistica: irregolarità; aumento di mobilità nella conduzione della lotta; accresciuto impegno politico, carattere tellurico (Carl Schmitt, Teoria del partigiano). Il profilo del Partigiano, di chi sta da una parte, dalla nostra parte.