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Fin de ciclo. Le elezioni argentine

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Un contributo di Andrea Fagioli sulle recenti elezioni in Argentina

I fuochi d'artificio che domenica sera hanno illuminato a giorno il cielo dei quartieri bene (soprattutto) e meno bene di Buenos Aires (e delle altre città argentine; Cordoba su tutte, dove oltre il 70% ha votato Macri) hanno segnato l'inizio di tempi nuovi per il paese. E anche per l'intera America latina, si potrebbe aggiungere, che grazie all'imminente avvicinamento argentino all'alleanza del Pacifico (Cile, Perù, Messico e Colombia[1]) e all'isolamento sempre più probabile del Venezuela, rischia un ritorno generalizzato a politiche da Consenso di Washington, dopo la rottura del decennio scorso[2].

Il corpo elettorale argentino ha deciso di mettere fine all'esperienza dei governi targati K, uno di Nestor e due di sua moglie Cristina Fernandez. Una esperienza che, vale la pena sottolinearlo, sarebbe scivolata verso qualcos'altro anche se avesse vinto il candidato del “modello”, Daniel Scioli. Per una serie di ragioni, tra le quali non è secondaria la drastica diminuzione, sul mercato internazionale, del prezzo delle materie prime, soprattutto di quella soia che aveva guidato la crescita e reso possibile la ridistribuzione del primo decennio del XXI secolo, e il problema della mancanza di dollari nei forzieri del Banco Central.

Sono molti gli angoli dai quali si potrebbe tentare di gettare luce sugli eventi culminati nella serata di domenica. In primo luogo la scelta poco felice del candidato sconfitto - uno che nel 1987 dichiarò, riferendosi al Golpe: “se non fossero intervenuti i militari non so cosa sarebbe successo”! -, un uomo della destra del kirchnerismo, che non ha mai acceso la passione dei militanti K e non ha mai bucato lo schermo per raggiungere l'enorme platea di telespettatori (stanchi, indecisi o non-K). Un altro aspetto della questione degno di essere trattato sarebbe anche la miopia degli elettori (“Macri è la festa alla quale non ti inviteranno mai” recita uno degli slogan anti-Macri più usati), che si sono consegnati a un governo che ha tra i suoi obiettivi principali quello di rincorrere gli investimenti stranieri. Quegli elettori si dovranno aspettare, se gli obiettivi del nuovo governo si realizzeranno, le lacrime e il sangue che caratterizzano l'ortodossia economica che sta mettendo in ginocchio una buona parte del mondo. Il curriculum degli economisti macristi parla per loro e le porte del Fmi e delle ristrutturazioni sembrano spalancarsi nell'immediato futuro argentino. A ogni modo, come sostiene l'antropologo Alejandro Grimson (http://www.revistaanfibia.com/ensayo/la-pregunta-por-la-derrota-cultural/) la voglia di immaginare un futuro più prospero, evocato dal nome stesso della coalizione Cambiemos, ha potuto di più, nell'immaginario collettivo, che la difesa di quanto conquistato fino adesso. Piatto forte della campagna sciolista, fino a un patetico e ultimo tentativo di rincorrere l'avversario sul terreno del cambiamento, è stato proprio ripercorrere i successi dell'era Kirchner invece di immaginare l'Argentina del quadriennio 2016/2020.

Allo stesso modo si potrebbe tentare di pensare ai futuri scenari che si apriranno su due aspetti centrali: diritti civili e diritti umani. A questo riguardo ci sarebbe molto da discutere e la stampa di questi primi giorni del nuovo ciclo ha già regalato alcune perle. Lunedì, quando in molte scuole del paese stavano pulendo le aule e ripiegando le cabine elettorali dopo il trambusto del ballottaggio, il principale quotidiano conservatore del paese, La Nación, è uscito con un editoriale titolato No más venganza (http://www.lanacion.com.ar/1847930-no-mas-venganza), in cui si definiva «vergogna nazionale» il fatto che molti ufficiali dell'esercito, condannati o accusati per crimini di lesa humanidad durante l'ultima dittatura militare (1976-1983) siano morti in carcere. Nello stesso articolo, uscito senza firma e attribuibile quindi alla proprietà[3], si chiedeva un'inversione di tendenza sull'argomento. È possibile che fosse solo un tentativo di imporre l'agenda, da parte di chi ha tirato la volata a Macri, su un argomento rispetto al quale il neopresidente ha molto più da perdere che da guadagnare. La seconda perla è venuta invece dal medico Abel Albino, futuro responsabile per il governo sulla questione “Malnutrizione”, che in un'intervista alla radio[4] ha rivendicato la natura esclusivamente procreativa del sesso («non è per divertirsi», ha detto), ha dichiarato che l'omosessualità è un problema e che il sesso anale è contro natura. Ma soprattutto, parlando della lotta all'Aids, ha indicato che la prevenzione dal contagio non deve essere affidata alla tecnica (l'uso del preservativo, inutile perché si può rompere), ma deve essere condotta su un piano etico (leggi astensione, argomento sul quale il partito di Macri era già scivolato).

A ogni modo, il dato sul quale vogliamo soffermarci brevemente e che è, per noi, il più rilevante, è che il 22 novembre in Argentina ha vinto la pace (sociale). Il nuovo presidente ha fatto una campagna elettorale basata sull'assenza di contenuti politici duri e su un richiamo ossessivo all'allegria che aspetta il popolo argentino. Ha puntato su un discorso in cui ha primeggiato la necessità di (ri)unire gli argentini, invece che dividerli. L'idea della riconciliazione è stata ripetuta fino allo sfinimento sia prima delle elezioni – «il Cambiamento lo faremo “a braccetto” con chi vorrà fare opposizione costruttiva» -, sia nella prima conferenza stampa da presidente eletto. L'idea, che ha finito per convincere la maggioranza dei votanti, è stata quella dei vecchi ritornelli: «remare tutti nella stessa direzione», «è più quello che ci unisce che quello che ci divide», «lavoreremo per il paese migliore che tutti meritiamo».

Questi 12 anni di governi kirchneristi, definiti da Miguel Mellino di governance post-neoliberale, hanno avuto aspetti progressivi e lati più oscuri. Da una parte non possiamo non rilevare che sono rimasti insoluti alcuni problemi come il “grilletto facile” della polizia nelle periferie, l'uso del clientelismo a livello elettorale, un modello di capitalismo estrattivo che ha puntato sulle esportazioni e su un monocoltivo di soia che ha implicato sia violenze e suprusi ai danni delle comunità indigene, sia la messa in pericolo della sovranità alimentare. A parte questo va però sottolineato che l'esperimento kirchnerista, figlio della rottura delle giornate del “que se vayan todos” del dicembre 2001, si è opposto a quel neoliberalismo governamentale di rapina che aveva caratterizzato gli anni '90. Non ha applicato le ricette monetariste degli economisti del Fmi e della Banca Mondiale – anche a costo di pagare interessi più cari sul debito – ha investito in quei settori che in Europa vedono un costante disimpegno pubblico come salute, educazione, ricerca, piani sociali per i settori disagiati; ha riconosciuto la legittimità e incoraggiato esperienze come le fabbriche recuperate, è avanzato molto sul terreno dei diritti umani (processi ai repressori dell'ultima dittatura) e civili (matrimonio ugualitario, identità di genere, etc.). Questi non sono stati, ovviamente, regali caduti dall'alto, ma conquiste rese possibili dalla maniera in cui le forze in campo e i conflitti si sono combinati in questi anni di “tregua permanente”[5], in cui l'istanza politico-istituzionale non ha mai sussunto sotto di sé un sociale estremamente eterogeneo.

Domenica invece ha funzionato l'appello a un “Bene” chiaramente identificabile e trascendente, che coincide con la crescita del Pil, il favorimento degli investimenti stranieri e le riforme strutturali necessarie. Tutti obiettivi che vengono sottratti al dibattito politico e delegati alla techné degli specialisti. A ogni voce disconforme con la razionalità del discorso economico, questo discorso egemonico toglie la legittimità che si concede all'avversario politico e gli affibbia l'etichetta di “incompetente” o “militante” (quale maggiore infamia per un governo che si vuole per tutti gli argentini?), collocandolo così fuori dal sentiero della ragione.

Appena eletto, Macri si è detto un ammiratore della crescita cilena[6] e il sogno del macrismo – la cui realizzazione dipenderà dalla tenuta dell'eterogenea coalizione di governo e dall'organizzazione della resistenza – sembra quello di costruire una “gabbia di ferro”[7] che possa incapsulare lo spazio politico-istituzionale, forzandolo all'interno dei limiti della razionalità neoliberale. Uno spazio che espelle dal suo orizzonte una reale alternativa al modello.



[1] I presidenti Enrique Peña Nieto, Messico, Manuel Santos, Colombia, e l'ex presidente cileno Sebastián Piñera sono stati i primi a celebrare la vittoria di Macri.

[2] Emblematico in questo senso fu il No al Trattato di libero commercio Alca, nell'incontro di Mar del Plata, a novembre del 2005.

[3] L'assemblea dei giornalisti si è dissociata con un comunicato dall'articolo.

[5] Rimandiamo qui alla riflessione di Diego Sztulwark e Mario Santucho apparsa sulla rivista Crisis http://www.revistacrisis.com.ar/notas/operacion-de-pinzas

[6] In Cile il modello neoliberale di Chicago è stato applicato, grazie alla pace sociale imposta dalla dittatura di Pinochet, trasferendo alla realtà sociale, quasi letteralmente, i contenuti dei testi di Friedman, von Hayek, Becker, etc...

[7] Mutuiamo la formula dal sociologo cileno Tomás Moulián (Cfr. Chile actual. Anatomía de un mito, Lom: Santiago de Chile)