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Cos’è la guerra e come contrapporsi? Una breve nota

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di GIGI ROGGERO

Siamo in guerra. Non è certamente la nostra guerra, sono certamente i nostri morti. È una guerra in cui siamo trascinati e risucchiati. È una guerra di tipo parzialmente nuovo, diffusa, dagli incerti confini territoriali, senza temporalità definite. Ogni spazio urbano e metropolitano viene potenzialmente trasformato in una trincea bellica. È una guerra che, tuttavia, ha dei tratti ricorrenti con la propria storia: da sempre, infatti, la guerra è una possibilità della crisi. Questa volta non è una soluzione, perché la crisi assume dei tratti permanenti, o meglio ancora diventa a tutti gli effetti dispositivo di comando politico. Oggi dire crisi significa dire governo del sociale. Dunque, la crisi infinita necessita di una guerra infinita, proprio come profetizzarono Bush e i neocon alla vigilia dell’attacco all’Iraq. E, si sa, le profezie dei reazionari vanno ascoltate con molta più attenzione delle ciarlatanerie della sinistra, perché la mistificazione occulta gli interessi di parte su un nocciolo reale, mentre nell’idealismo di reale non vi è nulla.

È una guerra tra potenze non in contrapposizione, bensì in competizione sul mercato geopolitico. Sugli intrecci e i repentini cambiamenti di fronte, su chi finanzia chi, sugli interessi concreti e complessi degli attori in gioco, tanto si è scritto e tanto va ancora scritto. Bisogna farlo senza voglia di dietrologia, perché a forza di guardare alle trame oscure si finisce per perdere di vista i progetti dei nemici, chiari e visibili. E il petrolio, per esempio, resta ancora una volta una componente importante: in fin dei conti, il moderno non è sempre e comunque superato. Bisogna farlo senza timori giustificativi: perché mai chi si contrappone al capitalismo e alle potenze in cui storicamente si incarna dovrebbe oggi precisare che non ha niente a che vedere con l’Isis, ovvero limitare la propria facoltà di comprendere per agire? Sono loro, quelli che la guerra l’hanno cominciata, a doversi giustificare e ad avere a che fare con l’Isis. Sembra viceversa esserci in giro, anche in ambienti a noi vicini, troppa paura di comprendere e agire, appunto, come se la commozione per i morti facesse dimenticare o mettere in secondo piano il punto di vista di parte. Come se il discorso antagonista sui rapporti di classe fosse un lusso che adesso non ci possiamo permettere. E così, in un furore di unità internazionale e di frontismo da social network ci si stringe attorno alle “nostre” libertà e ai “nostri” spazi del divertimento, poco importa se le une siano le libertà del consumatore o di chi può esserlo, gli altri gli spazi della circolazione dello sfruttamento, delle merci e della gentrification. L’Isis arruola per la propria guerra tra i soggetti impoveriti e delle periferie, esattamente come da tempo fanno gli Stati Uniti con gli afroamericani per le proprie guerre. Altroché scontro di civiltà e religione. Papa Francesco e Al Baghdadi competono per le stesse fasce sociali, i poveri e le figure poste ai margini. Chi vede nel primo e nei suoi seguaci un alleato contro la guerra, si sta schierando con una delle parti che combattono. “In difesa del nostro stile di vita”, urlano Battista sul Corriere e i conservatori di tutte le risme. L’opinione pubblica di movimento, con qualche inutile precisazione, si accoda nella sostanza.

E invece no, questo non è il nostro stile di vita, ma uno stile dentro cui si incarna il rapporto di capitale, quindi ambivalente e potenzialmente antagonista, comunque interno a delle relazioni di forza e di potere. Uno stile di vita, come la libertà, è sempre la posta in palio di una lotta, contro il nostro nemico e contro noi stessi in quanto soggettività forgiata dal nemico. Diciamolo e ripetiamolo: qui la civiltà è una sola, quella del capitale, e la religione è un vestito che in mancanza di altro copre i segni che milioni di diseredati portano sulla propria pelle, i segni impliciti della storia e del colonialismo, i segni espliciti dello sfruttamento e dell’emarginazione. Non vi è nessuna giustificazione in questo, vi è al contrario l’individuazione delle nostre insufficienze.

Ecco il problema del noi, ancora una volta. Noi, inteso complessivamente come soggettività militanti di un movimento che non c’è, siamo molto arretrati sulla questione della guerra. Fatichiamo a comprendere, abbiamo paura di prendere posizione, ci rifugiamo nell’ideologia, oppure tendiamo ad arretrare su discorsi di comodo e impotenti. Discorsi da sinistra, intendendo con questo termine ciò che dobbiamo abbandonare. Uno dei terreni che, in questo contesto, ha un certo riscontro nei nostri ambienti è quello dell’aumento dei dispositivi securitari. È un terreno importante, che ci restituisce l’immediata concretezza della guerra diffusa e di come essa venga immediatamente agita per restringere gli spazi di agibilità sociale e politica. E tuttavia, come in tutti i discorsi sul securitarismo, bisogna evitare di dipingere in modo paranoico il nemico con una forza totalizzante che nei fatti dimostra di non avere. Il punto è soprattutto ribaltare il discorso sulla sicurezza contro chi oggi lo detiene e lo alimenta. Sono infatti i governi e i poteri costituiti ai diversi livelli a essere la fonte della nostra insicurezza, sono loro che ci hanno reso bersagli e scudi umani di una guerra che nessuno di noi ha voluto e ha dichiarato. Sono loro i responsabili delle nostre morti, governanti della crisi e dello status quo, sciacalli e propagandisti di regime. Che se ne vadano tutti, come gridava l’insurrezione argentina, ecco la nostra sicurezza.

Solo per questa strada è possibile conquistare la possibilità di agire in questo contesto, abbandonando la subalternità della paura e la marginalità della testimonianza. Non ci si può trincerare dietro alla complessità: non perché non esista, ma al contrario perché è un dato di fatto. La semplicità è tale solo ex post. Siamo sicuri che le cose oggi siano molto più complesse che in passato, oppure a essere molto minore è la nostra capacità di affrontare questa complessità e tagliarla per linee di parte? Dobbiamo allora capire come ci si contrappone alla guerra, con quale discorso, con quali soggetti, con quali parole d’ordine. I giovani delle banlieue negli ultimi anni si rivolgono all’islamismo perché è l’unica causa radicale sul mercato, diceva in questi giorni uno studioso “orientalista”. O noi riusciamo a essere una causa radicale materialmente forte, antagonista ai rapporti di sfruttamento e alle mistificate “cause” esistenti, oppure non si riaprono spazi rivoluzionari.

Un punto ci sembra quindi certo: la contrapposizione non è tra guerra e pace, perché la pace è quella dello sfruttamento, che genera continuamente la guerra diffusa della crisi. La contrapposizione è tra guerra e conflitto sociale. L’assenza del secondo apre gli spazi alla prima. A questa altezza, va riconquistato un punto di vista da tradurre e articolare contro le diverse figure del nostro nemico, contraddittorie e maledettamente concrete.