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Danni collaterali

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[Materiali sull’attacco a Parigi]

di ZOE SAMUDZI

Lo scorso venerdì, più di 100 persone sono state uccise in una serie di attacchi coordinati nella città di Parigi. Il presidente Francois Hollande ha chiuso i confini francesi, ha dichiarato lo stato di emergenza e ha annunciato lo schieramento di unità militari e forze di polizia intorno alla città per prevenire ulteriori attacchi. Ha descritto le atrocità della serata come “un orrore”, ma ha chiamato alla calma e all’unità. A Washington, il presidente Barack Obama ha fatto dichiarazioni di piena e inequivocabile solidarietà con il governo e il popolo francese. Ha detto “siamo preparati e pronti a fornire qualsiasi sostegno di cui il governo e il popolo di Francia abbiano bisogno”, e ha promesso di “fare tutto il necessario per assicurare i terroristi alla giustizia e perseguire tutte le reti terroristiche che perseguitano la nostra gente”.

Forse una delle cose principali che ci lasciano gli attacchi di Parigi è la dissonanza nelle parole del presidente Obama. Ha detto che si è trattato di “un attacco a tutta l'umanità e ai valori universali che noi tutti condividiamo”, cosa che pone la questione: di quale umanità si parla? Chi ha il privilegio di essere umanizzato? Perché i recenti attentati suicidi a Baghdad e Beirut non sarebbero anche un attacco all’umanità?

Mentre tentavamo collettivamente di dare un senso a questo atto orribile di terrore, la natura della risposta era purtroppo prevedibile. L’Isis avrebbe rivendicato la responsabilità dell'attacco, ma ben prima che il numero di morti fosse confermato, prima che si concludesse la situazione degli ostaggi nella sala concerti di Bataclan o che si conoscesse l'identità degli assalitori, l’estremismo islamico era già coinvolto. La BBC ha tentato di collegare gli attacchi alla crisi dei rifugiati in Europa, deducendone il coinvolgimento di siriani radicalizzati; anche la CNN ha assunto il coinvolgimento degli islamisti, mentre i conservatori americani hanno crudelmente provato a strumentalizzare gli attacchi a sostegno del porto d’armi e per prendere in giro gli studenti neri che stanno protestando in America. E se la condanna è stata rapida, la pertinente contestualizzazione degli attentati nei cicli di politica estera ed europea è arrivata con notevole ritardo.

È importante rendere omaggio alle persone che sono state uccise, ed è centrale che rendere omaggio alla loro morte voglia dire essere sicuri di comprendere il perché di questi attacchi, nello sforzo di prevenire ulteriori sofferenze umane. Così è importante assumere queste morti come “danni collaterali” nella guerra al terrorismo. Non siamo soliti classificare le morti di occidentali in un attacco terroristico come “danni collaterali”, perché non siamo soliti situare noi stessi all'interno del paradigma della violenza e non siamo soliti a paragonare noi stessi ai civili musulmani ugualmente vittime in paesi esteri. “Danni collaterali”, nel nostro vocabolario in tempo di guerra, connota morti inutili: è un termine che normalizza la disumanizzazione dell’’“altro” straniero nero musulmano. Non possiamo pienamente rendere omaggio alle morti di Parigi senza analizzare il modo in cui i nostri governi intendono la radicalizzazione seguita alle invasioni e agli attacchi aerei in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria; agli attacchi dei droni in Somalia, Pakistan, Libano, Yemen e in altri paesi; e il bombardamento americano dell’ospedale di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, lo scorso mese di ottobre.

I morti negli attentati di Parigi, come i morti musulmani in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, sono “danni collaterali” in quanto sono morti in gran parte prevenibili avvenuti all'interno del paradigma politico del post-11 settembre. Se veramente crediamo che “all lives matter”, forse non dovremmo essere così pronti a dedurre il coinvolgere di rifugiati in questo attacco, senza ricordare la violenza Nato da cui questi fuggono. Se davvero investissimo nella nostra sicurezze, forse la priorità sarebbe quella di affrontare le radici ideologiche di razzismo e xenofobia invece di chiudere le frontiere alle popolazioni rifugiate espulse e rese vulnerabili dalle nostre politiche.

A fronte di una serie di considerazioni di carattere pratico sulla sicurezza, la chiusura delle frontiere da parte del presidente Hollande è un esempio di cattiva attribuzione delle responsabilità che non considera l’estremismo religioso maturato nella guerra al terrorismo. Non sono da biasimare i rifugiati nel limbo tra la loro casa e l’asilo europeo ma piuttosto la pratica delle politiche islamofobe e il linguaggio caricato di violenza nel discorso politico e di tutti i giorni.

Ore dopo le violenze, un'organizzazione affiliata allo Stato Islamico ha rivendicato la responsabilità degli attacchi, ma a prescindere se i terroristi islamici avessero rivendicato la loro responsabilità o fosse stata dichiarata una responsabilità da parte dello Stato, il danno di aver diffuso informazioni in modo speculativo era già stato fatto: sono il musulmano, il rifugiato o la persona di colore, piuttosto che dieci anni di violenza globalizzata, che devono portare la colpa.

 

* Pubblicato su “Salon”, tradotto da Anna Curcio.