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Frammenti: le vostre guerre, i nostri morti

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[Materiali sull’attacco a Parigi]

di JULIEN SALINGUE

Sono i nostri cari che sono morti ieri notte.

Nella terrazza di un ristorante, in un bar, per la strada, nella sala di un concerto.

I nostri cari.

Morti perché degli assassini hanno deciso di colpire in piena Parigi e di sparare sulla folla, con l’obiettivo di fare il maggior numero possibile di vittime.

11h30. Sarkozy dichiara: “Siamo in guerra”.

Per una volta sono d’accordo con lui. Loro sono in guerra.

Voi siete in guerra, voi, i Sarkozy, gli Hollande, i Valls, Cameron, Netanyahou, Obama. Voi siete in guerra, voi e i vostri alleati politici, voi e i vostri amici delle grandi multinazionali.

E avete tirato là dentro pure noi, senza domandarci il nostro avviso.

Afghanistan, Iraq, Libia, Mali, Siria… Non sempre eravamo in molti a protestare.

Non siamo sufficientemente riusciti a convincere che queste spedizioni militari non avrebbero apporto che maggiore instabilità, violenza e tragedie.

Laggiù, qua così.

In quanto la guerra non è cominciata ieri sera. E non è nemmeno cominciata a gennaio, durante gli assassini di Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher. È cominciata molto prima.

A gennaio ho scritto quanto segue:

Una delle cause dello sbalordimento di larghi settori della popolazione, comprese le cerchie militanti, è la (ri)scoperta di questa verità: sì, la Francia è in guerra. Una guerra che non si presenta sempre come tale, una guerra di cui non si discute nelle assemblee, nei media e più generalmente nello spazio pubblico, una guerra contro dei nemici non sempre ben identificabili, una guerra asimmetrica, ma una guerra ad ogni modo. I recenti assassini l’hanno ricordato in modo brutale a chi l’ignorava, a chi rifiutava di vedere la cosa l’aveva dimenticata: la Francia è in guerra, la guerra fa dei morti, e i morti non si contano solo ed esclusivamente presso l’avversario.

Contro chi, allora, è in guerra la Francia? A seconda dei discorsi e dei periodi, contro il “terrorismo internazionale”, contro lo “jihadismo”, contro la “barbarie integralista”, etc. Questo testo non avalla simili denominazioni imprecise, le generalizzazioni abusive che le sottendono e i paradossi che implicano (alleanze a geometria variabile, sostegno a dei regimi le cui politiche favoriscono lo sviluppo di correnti jihadiste, partecipazione a degli interventi militari che rafforzano tali correnti, etc.). Si tratta di sottolineare che la Francia, in realtà, è stata al passo con gli Stati Uniti di George W. Bush dal settembre 2001 (guerra in Afghanistan, legislazione anti-terrorista) e ha fatto sua, senza tuttavia dirlo, la retorica e la politica dello “scontro di civiltà”.

Ecco che la Francia è in guerra da quattordici anni senza ammetterlo.

Nessun motivo, quindi, di modificare una sola linea di quest’estratto. E affermare tutto ciò non significa mancare di rispetto nei confronti delle vittime e dei loro cari.

L’emozione, l’indignazione e il dolore sono evidentemente legittimi. E gli assassini che hanno scassato centinaia, miglia di vite ieri sera, sono inscusabili.

12h. L’Isis rivendica l’attacco. Ovviamente. Anche loro sono in guerra.

L’Agence France Presse cita un testimone presente al Bataclan, secondo il quale uno degli assalitori avrebbe gridato: “È colpa di Hollande, è colpa del vostro presidente, non doveva intervenire in Siria”.

Ora, possiamo chiudere gli occhi e tapparci le orecchie. E farci affumicare dalla retorica depoliticizzante del “terrorismo cieco”, per natura inspiegabile.

Ma gli assassini di Parigi non sono dei poveri tipi irresponsabili, “folli” o manipolati da non-solo-quale-servizio-segreto. Ne sapremo di più nelle ore e nei giorni seguenti, ma nessuno dubita del fatto che avranno un profilo e un discorso simile a quello dei Kouachi e di Coulibaly, a proposito dei quali, sempre a gennaio, avevo scritto:

Gli assassini hanno un discorso (vedere le loro interviste e video, nei quali parlano della Siria, dell’Iraq, delle offese fatte ai mussulmani in Francia e nel mondo, etc.); un corpo teorico (vedere in particolare l’articolo pubblicato da Mediapart); dei riferimenti organizzativi (lo Stato islamico, Al-quaeda nella penisola arabica).

[…] Si pensano, razionalmente, in guerra contro una certa Francia, e si considerano, razionalmente, in situazione di legittima difesa. Ne è testimone questa dichiarazione di Coulibaly nel suo video postumo: “Voi attaccate il Califfato, voi attaccate lo Stato islamico, noi vi attacchiamo. Non potete attaccare e non subirne le conseguenze”.

Si, l’Isis fa politica. Sono degli assassini, ma fanno politica.

E ieri sera hanno colpito duro, molto duro.

Ciecamente? Sì e no.

Sì, perché se la sono presa con delle persone che non sono direttamente implicate in questa guerra, delle persone il cui solo crimine era di essere là, delle persone che sarebbero potute essere altrove ed essere ancora tra di noi oggi.

No, perché colpire in quel modo, significa lanciare un messaggio: “Il vostro paese è in guerra contro noi, e finché questa guerra durerà, nessuno di voi sarà al sicuro”.

Fanno della politica. Detestabile, ma della politica.

Viviamo in un mondo in guerra. La Russia, la Francia e gli Stati Uniti bombardano in Siria.

L’Arabia Saudita bombarda in Yemen. Le “operazioni” francesi si proseguono in Mali. Obama ha annunciato che le sue truppe non lasceranno l’Afghanistan.

Secondo l’Alto Commissariato dei Rifugiati, non vi è mai stato un numero di rifugiati e profughi come oggigiorno, e non vi sono ragioni che le cose si migliorino.

Il bilancio, attualmente, è di 128 morti. 128 morti di troppo.

Il 13 novembre 2015, 128 morti.

128, è molto. È spaventoso.

È quasi quanto la media quotidiana dei morti in Siria, dal marzo 2011.

Quasi quanto la media quotidiana, sì: 250.000 morti da marzo 2011, quasi 4.500 morti al mese, ossia quasi 150 morti al giorno.

Da monito al prossimo che ci spiega che non capisce perché i siriana fuggono verso l’Europa: da più di quattro anni e mezzo, è il 13 novembre tutti i giorni in Siria. Ed è il vostro nuovo alleato Assad che ne è in prima istanza responsabile, avendo represso selvaggiamente una sollevazione in quel momento pacifica.

Viviamo in un mondo in guerra. E ciò consente ad alcuni di fare affari.

La Francia si rallegra di vendere le sue macchine da guerra all’Egitto. La Francia si rallegra di vendere le sue macchine da guerra all’Arabia Saudita. La Francia si rallegra di vendere le sue macchine da guerra agli Emirati Arabi Uniti.

Ma la Francia si stupisce, s’indigna, insorge di essere anch’essa presa di mira.

Ipocrisia. Vigliacchieria. Menzogna.

I cani sono sguinzagliati. Le loro labbra schiumano.

Bisogna tenere duro.

Ritorno a gennaio:

Ogni risposta guerrafondaia, securitaria, stigmatizzante o cieca di fronte alle realtà economiche, politiche e sociali della Francia del 2015 è non soltanto condannata a fallire, ma rappresenta pure, ciò che è più grave ancora, un passo supplementare verso gli assassinii di domani.

Eccoci. Domani, era ieri sera.

13h. Cambadélis annuncia che “la Francia ha appena subito una prova di guerra”.

Dicono e ripetono che la Francia è in guerra. Ma quando dicono ciò, è per dire “noi siamo in guerra”. Un “noi” nel quale vorrebbero coinvolgerci.

No. Quattordici anni di vostre guerre non hanno apportato, nei quattro angoli del mondo, che a maggiori violenze, tragedie e nuove guerre.

Se l’Iraq non fosse stato raso al suolo, l’Isis non esisterebbe.

Paul Valéry diceva che “la guerra è un massacro di persone che non si conoscono, al profitto di persone che si conoscono ma che non si massacrano”.

Aveva ragione. Sono sempre gli stessi che brindano.

E se vogliamo che tutto ciò si fermi, è necessario, una volta passato lo choc, fare di tutto per porre un termine a questa fuga in avanti verso la barbarie generalizzata.

Non è troppo tardi. Siamo ancora in tempo per passare a qualcos’altro. Radicalmente.

Rifiutando l’ingiunzione “o con noi, o con i terroristi”.

Rifiutando gli appelli all’unità con gli aguzzini e i fautori di guerre che costruiscono ogni giorno maggiore barbarie.

Rifiutando il loro mondo fondato su sfruttamento, rapina, violenza, ingiustizia, ineguaglianze, messa in concorrenza di coloro che dovrebbero unirsi.

Battersi per un altro mondo, che non soltanto è possibile, ma più che mai necessario.

Mantenere sangue freddo e non concedere nulla sotto la pressione dell’emozione o dello sbalordimento.

Potrai tacciarmi di candore se vuoi. Ma il mio candore non ha mai ucciso nessuno.

Contrariamente al tuo “pragmatismo”.

Ora più che mai, è tempo di “resistere all’irresistibile”. Altrimenti tutto può accadere.

Allora, no Cambadélis. No Sarkozy. No Hollande. “Noi non siamo in guerra”.

Non è la mia guerra, non è la nostra guerra. Questa è la vostra di guerra.

E una volta ancora, sono i nostri morti. Come a Madrid nel 2004. Come a Londra nel 2005. Come in Egitto quindici giorni fa. Come a Beirut questa settimana.

E come ovunque seminate il terrore.

Vostre guerre, nostri morti.

Vostre guerre, no more.

 

* Traduzione di Davide Gallo Lassere.