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Femminile eccedente

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di ANNA CURCIO

 “Non incarniamo una femminilità dolce e autocompiacente, né nulla di simile. Non rivendichiamo la femminilità delle brave ragazze, siamo cagne cattive. La nostra è una femminilità estrema, radicale, sovversiva, spettacolare, prorompente, esplosiva, plateale, sporca, mai impeccabile. Femminista, politica, precaria, combattiva, scomoda, arrabbiata, spettinata, dal mascara colato, bastarda, squatter, sfatta, persa, prestata, rubata, smarrita, eccessiva, esaltata”. È un urlo osceno e graffiante, quello delle transfemministe queer che prendono parola parola in Diventare cagna di Itziar Ziga (Golena edizioni – Malatempora 2015, 128 pagine, euro 15,00; prologo di Virginie Despentes e Paul B. Preciado, introduzione all’edizione italiana di Slavina), per sua stessa definizione femminista occidentale, situata ai margini del femminismo e dell’occidente. Un un racconto polifonico, dove la voce dell’autrice e quella delle sue “cagne” – donne trans e bio, frocie, lesbiche, etero-insubordinate – si somma e si sovrappone in una trama densa di appunti teorici e pensieri anche strillati. Una riflessione corale e non dissonante, dove il percorso di Ziga tra maschile e femminile e fin dentro le pieghe del desiderio erotico e della sessualità è al contempo il suo percorso, e solo il suo, e potenzialmente il percorso di tutte. È l’espressione autonoma della propria identità di genere, della propria sessualità, dei proprio bisogni e desideri, dunque suo e di tutte proprio in quanto autonomo. Ci si può infatti rispecchiare o meno nel racconto che Itziar Ziga propone della costruzione della sua identità di genere, si può più o meno aderire all’iperfemminilità sconcia e puttana delle cagne che prendono voce nel libro, ma non si può fare a meno, nel corso della lettura, di ripercorrere i sentieri più o meno battuti e della propria soggettività politica e (eventualmente) femminista, sin dentro le (spesso) inevitabili sbavature della propria costruzione di genere, sin dentro la propria sessualità e il desiderio.

Il testo è, a tutti gli effetti, “un esercizio di visibilizzazione ludica e politica”, più individuale che collettivo per la verità. Un percorso incerto, tra maschile e femminile, che mette al centro l’artificialità del sesso e del genere per svelare la natura sociale e culturale della loro costruzione. È un gioco aperto intorno al tema della femminilità che intacca “la decenza e la sottomissione che ci vengono imposte col pacchetto femminilità” e scaglia il suo attacco direttamente al cuore del problema. La donna decente e sottomessa ha svolto storicamente un ruolo cruciale nel sistema capitalista: quello della moglie/mamma che, marxianamente, garantisce ogni giorno che il lavoratore possa tornare a vendere sul mercato la propria forza lavoro. Il tema della femminilità (e dunque della costruzione di genere) si salda così indissolubilmente a quello della classe. Da questa prospettiva Ziga sembra dirci che l’unico modo possibile per leggere la femminilità è quello di calarla all’interno dei rapporti di produzione e delle sue gerarchie e segmentazioni. E su questo  è perentoria: “Il femminismo senza prospettiva di classe è bianco e borghese. Senza nozione critica del sesso e del genere il femminismo è essenzialista e transfobico, e in qualche modo connivente con tutta la violenza attraverso la quale continuano a cercare di modellarci come donne e come uomini”.

All’interno di questo approccio pienamente materialista, va anche collocata la lettura che Ziga propone delle sante mistiche, in un percorso per certi versi simile, ma forse più incarnato e materiale di quanto non avesse già fatto il poststrutturalismo. Sant’Agata che serve il suo seno adolescenziale al padre su un vassoio, per non essere data in sposa a un uomo a lei sconosciuto, e Santa Liberata che preferisce farsi divorare dall’anoressia piuttosto che accettare un matrimonio imposto, sono donne indomite che difendono ostinatamente il proprio destino opponendosi con forza alla violenza patriarcale. Sono “biodonne – scrive Ziga – che si tagliano le tette e a cui cresce la barba”. Perfettamente in linea dunque con i corpi eccessivi e trasgressivi delle altre cagne.

È proprio il corpo, infatti, il protagonista indiscusso del libro. Il corpo letto nella sua dimensione più politica: come campo di battaglia tra la morale dell’ordine eteropatraiarcale da una parte e l’immoralità delle cagne transfemministe dall’altra. Tra mistica della femminilità e l’iperfemminilità sboccata e irriverente che il libro indaga. Il corpo sessuato, disponibile e penetrabile da una parte e quello eccessivo, godereccio e prorompente delle iperfemmine di Ziga dall’altra. Una femminilità che non è dolcezza ma autonomia, anche violenta se necessario. Perché così “è più divertente!” e perché “non c’è maggiore ribellione che la risata e il piacere”. Una femminilità che è parodia di se stessa, pacchiana e di cattivo gusto, che intende smontare ogni costruzione di immaginario e discorso intorno al genere.

È un corpo erotico quello che emerge da “Diventare cagna”, piena espressione del desiderio. Un corpo che sfida apertamente la costruzione del genere e le sue gerarchie, la morale dominate e la norma eterosessuale. Un corpo che gode, “si struscia” e “si stropiccia” in cerca del piacere, dell’orgasmo. Sì, proprio quell’orgasmo femminile un po’ tabù, sempre poco valorizzato dalla pornografia mainstream, che qui salta invece in primo piano come dimensione erotica e del desiderio. È il corpo del “do it your self”, un corpo che crea e inventa il suo piacere, il “nostro personale porno dissidente” lo definisce Ziga o, detto altrimenti, il “ nostro postporno”, riprendendo Annie Sprinkle alla cui fica Ziga dedica un’ode negli ultimi capitoli del libro. È la produzione di materiale sessualmente esplicito ma più ironico e politico, “fatto per eccitare, ma non solo gli uomini” ed anche per pensare, sperimentare, dialogare. È la costruzione di sé a partire dal piacere che si fa, insiste Ziga, “luogo peculiare da cui partire per fare politica”. Anche se poi, il passaggio da una politicità vissuta in termini soggettivi a una dimensione politica più complessiva che si fa processo collettivo di trasformazione dei rapporti sociali e produttivi, resta quantomeno poco indagato nel libro.

Il corpo è ancora al centro dell’efficace lettura che Ziga propone della disputa, sempre attuale, intorno all’uso dello hijab, qui messo in relazione alla minigonna su cui tante aberranti sentenze giudiziarie sono state scritte. Lo hijab, specifica con forza Ziga, è un fazzoletto e non un velo. Indossarlo non è un atto di sottomissione, non è il velarsi per nascondersi in relazione alla dominazione maschile. È piuttosto un gesto di autodeterminazione perché “il patriarcato non è nascosto nello hijab ma nella proibizione o obbligatorietà di indossarlo” e perché, a volte, celare il proprio corpo può essere un importante alleato, come ha ampiamente evidenziato Frantz Fanon e come tante di noi, e le stesse cagne del libro, hanno avuto modo di sperimentare nel corso, ad esempio, di passeggiate notturne in solitaria.

Più problematico, invece, dal mio punto di vista, è il modo in cui il libro affronta il tema della prostituzione. Più precisamente, appare senz’altro azzeccata la riflessione intorno alla distinzione coatta e eterodiretta – ovvero estranea alla possibilità delle donne stesse di autodefinirsi – tra sposa e puttana: “le due condizioni socioeconomiche riservate alle donne nell’ordine eteropatriarcale”, entrambe destinate ad offrire servizi sessuali agli uomini. E convince la critica aperta e tagliente alla retorica sulla “decenza” e sulle “donne per bene” come ricerca, da parte delle donne stesse di una qualche forma di riconoscimento all’interno di quell’ordine sociale che le vuole subordinate e sottomesse. Una femminilità, giocata in opposizione allo stigma della “puttana” che colpisce le donne autonome, forti, indipendenti e autodeterminate, che si aggrappa al risicato privilegio concesso alle “signore” di essere “schiave legittime”.  Convince meno, invece l’insistenza sulla possibilità di autonomia e autodeterminazione all’interno dello scambio economico sessuale legato al lavoro della prostituita. Non solo perché quando si parla di lavoro non si può omettere il tema dello sfruttamento. Ma soprattutto perché in tale scambio va colto il dispositivo per eccellenza della subordinazione femminile: una forma di relazione profondamente sbilanciata dentro precisi rapporti di potere segnati dal binarismo gerarchico dei rapporti di genere. Non cogliere ciò ci espone al rischio di reinterpretare autodeterminazione e libertà sessuale in chiave neoliberista ovvero come mercificazione, cosa che porta in primo piano l’impossibilità di far coincidere la nozione di scelta con quella di libertà. Detto questo, tuttavia, resta il merito di Ziga di aver affrontato un tema, quello della prostituzione che fatte salve alcune eccezioni, resta uno dei grandi tabù del femminismo.

Insomma, Diventare cagna è un libro senz’altro pop ma non per questo ordinario. Una riflessione colta e pungente e insieme dissacrante e provocatoria che vuole soprattutto decostruire e riassemblare pratiche e immaginari che hanno a che fare con la dimensione politica del corpo e del genere. Un libro dunque sempre attuale (pubblicato per la prima volta in Spagna nel 2009) la cui traduzione appare più che mai opportuna. Sono infatti piuttosto convinta che all’epoca del “ladylike” e dell’incubo gender, diventare cagna può essere un’efficace opzione politica da praticare insieme.