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Quale futuro per i palestinesi e non solo?

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di GIUDITTA BRATTINI

La diplomazia Internazionale è in movimento: occorre trovare una soluzione alle violenze di queste settimane nei Territori occupati e nella prigione a cielo aperto di Gaza. Vengono avviati incontri più o meno ufficiali tra Usa, Israele, Giordania, A.N.P e paesi Europei e la base, pretestuosa, della discussione è/sarà la questione sulla ‘gestione’ del territorio della Moschea di al Aqsa (ma che dagli ebrei è chiamato/rivendicato come il Monte del Tempio), il luogo che ha dato il via alla terza intifada, come tanti la definiscono.

Quanto sta accadendo in queste settimane in Palestina viene rappresentato come un problema alla sicurezza di Israele e non una rivolta per i diritti alla terra, all’acqua, alla libertà e contro la continua espropriazione delle terre nella Gerusalemme est. Paradossalmente è Israele che si presenta al mondo quale paese assediato la cui esistenza è costantemente minacciata dai palestinesi. Quindi l’argomento sono i palestinesi che brandiscono coltelli, che lanciano pietre a minaccia dei coloni e della sicurezza dei militari e civili israeliani, mentre la violenza dell’occupazione militare e degli insediamenti illegali sulla terra di Palestina è una condizione di “normalità.”

Dal carcere Marwan Barghouti (leader della resistenza armata di Fatah) scrive “….il motivo per cui non si è raggiunto un accordo di pace è stata la mancata volontà del defunto Presidente J. Arafat o l’incapacità del Presidente M. Abbas, mentre sia l’uno che l’altro erano disposti e capaci di firmare un accordo di pace”. Nei fatti gli Accordi di Oslo furono presentati al mondo come la soluzione per la pace Israele-Palestina ma, aldilà dei buoni propositi elencati nella narrazione ufficiale delle diplomazie occidentali e accolti dai movimenti pacifisti europei come la soluzione ottimale per la nascita dello Stato palestinese, furono la tomba dei diritti dei palestinesi e un grande beneficio per la politica economica israeliana e per gli interessi,sempre economici, di M. Abbas.

Oslo infatti è stato l’avvio non di un processo di pace, ma bensì di un processo di contrattazione – compravendita dove Israele ha potuto frammentare la Cisgiordania in tre zone e in cambio ha concesso alla nascente Autorità Nazionale Palestinese una “autonomia politica-amministrativa” che si è rivelata finalizzata agli interessi finanziari di pochi e alla stretta collaborazione tra le appena costituite forze di polizia palestinesi e le forze di occupazione israeliana sul tema della sicurezza dello Stato di Israele. Oslo non ha avuto difficoltà a trovare tutto il consenso Internazionale.

Le motivazioni che spingono le nuove generazioni a scendere nelle strade per affrontare una morte sicura per sé, la distruzione delle loro abitazioni e la prigione per i parenti non possono essere relegate, come alcuni vorrebbero, alla questione di Al Aqsa o al fallimento di questi pseudo accordi.

La generazione che sta affrontando le forze di occupazione israeliana, una delle più addestrate ed equipaggiate al mondo, è cresciuta oppressa in campi profughi, tra check point e barriere, in una umiliazione quotidiana, dove le contraddizioni politiche del “dire” e “fare”, ambiguità se non complicità sia degli occidentali sia dell’Amministrazione palestinese (risoluzioni ONU/accordi internazionali) non sono più accettate.

Debolissime si levano alcune denunce contro le violenze israeliane: l’Ambasciata di Palestina in Italia dichiara

“…..La situazione è gravissima, chiediamo alle Nazioni Unite, al Consiglio di Sicurezza, all’Amministrazione Americana, all’Unione Europea, alla Comunità Internazionale e a tutti i liberi del mondo di agire immediatamente per fermare questo massacro”.

 Un altro “dire” che non trova corrispondenza nel “fare”, perché una efficace azione politica per dare un segnale al popolo Palestinese sarebbe quella di sospendere immediatamente l’accordo di collaborazione sulla sicurezza con Israele e utilizzare la polizia di sicurezza dell’ANP a difesa dei civili, contro la demolizione delle case e gli arresti. Anche questo chiedono i giovani che vanno a morire e che conoscono perfettamente il destino loro e delle loro famiglie.

Un gruppo di professionisti e rappresentanti sindacali, intellettuali e attivisti politici palestinesi, ha fatto appello alla leadership palestinese sia all’interno dell’OLP sia fuori affinché chieda alle Nazioni Unite di mettere i territori palestinesi occupati nel 1967 sotto la protezione internazionale dell’ONU.

Ma quale ONU? Quella delle molteplici risoluzioni mai fatte rispettare per il divieto degli Stati Uniti e delle lobbies sioniste? L’Onu che mediante gli aiuti stabilisce un’arma di ricatto contro i palestinesi? L’ONU degli aiuti umanitari e delle politiche del mantenimento dello status quo?

Gli aiuti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono un esempio: finalizzati al congelamento e alla normalizzazione della situazione, sono troppo spesso nicchie di privilegi e corruzione, poiché le condizioni di accesso agli aiuti devono rispondere a determinati requisiti che sono sempre quelli di prevenire il ‘terrorismo’ contro Israele, perché la legittima resistenza del popolo palestinese per l’ONU è terrorismo.

La questione palestinese non può essere considerata una questione che riguarda i soli palestinesi, ma deve essere assunta a livello internazionale perché la Palestina non è solo un problema di sottrazione dei diritti di un popolo , in primo luogo l’ autodeterminazione, ma rappresenta una  forma di imperialismo, di neocolonialismo che si realizza attraverso la distruzione dell’economia reale (il furto della terra e dell’acqua, il blocco dell’autonomia energetica e delle sue strutture industriali, le limitazioni di movimento e di mercato), e di conseguenza la distruzione della società, dei suoi legami sociali, della sua cultura e identità.

Sono sufficienti le denunce ormai decennali, i tentativi di rivolgersi al Tribunale Internazionale dei diritti, le campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni?

La campagna BDS Italia per il boicottaggio di Israele, tra contraddizioni, difficoltà, ambiguità non riesce a sfondare mentre si moltiplicano le collaborazioni economiche, culturali, di ricerca e militari con Israele, sia nelle politiche nazionali, sia nelle Amministrazioni delle Regioni, come ad esempio il Veneto.

Le molteplici denunce sono rimaste lettera morta, così come i tentativi di portare Israele di fronte alla Corte Internazionale. Possiamo ancora tollerare la sofferenza di un intero popolo, lasciar assassinare donne, uomini, bambini in attesa che un cavillo giuridico permetta di portare Israele davanti a un Tribunale?

Va ridefinita una strategia per la sconfitta dell’ipotesi della grande Israele e per la liberazione del popolo palestinese. Oppure siamo tutti sotto ricatto?

Dobbiamo in primo luogo dichiarare il fallimento definitivo della proposta “ due popoli - due stati” e proporre una risoluzione democratica, multietnica e antisionista. Un solo Stato (o anche due, tre, cinque Stati?), ma dove vi siano uguali diritti, democrazia e partecipazione per tutti e pongano fine e disarmino il progetto sionista di pulizia etnica della popolazione Palestinese, che costituisce una minaccia costante non solo per la comunità palestinese. E’ evidente il rafforzarsi in Occidente di un pensiero (mai sopito) razzista, suprematista bianco, ancora e sempre coloniale e che si nasconde dietro al discorso del conflitto religioso e di culture.

In questa fase non si può che ribadire la necessità di un’unità, politica e organizzativa, dalla Cisgiordania alla Striscia di Gaza, delle forze della resistenza, laica e islamica, come strategia per il percorso di liberazione.

Per il diritto a praticare la resistenza in tutte le forme e condizioni senza distinzione “etica” tra resistenza armata e resistenza non violenta/pacifica, dentro e fuori la Palestina.

 

* Giuditta Brattini fa parte del Centro Studi e Ricerca sulla Palestina – Veneto.