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Chi sono io per giudicare Zangheri?

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di FRANCO BERARDI BIFO

L’11 marzo del 1977 un plotone di carabinieri sparò contro un gruppo di studenti colpendone uno (alle spalle). Francesco Lorusso morì dopo pochi istanti. Migliaia di persone invasero la città, occupandone il centro con barricate e cortei, fin quando la polizia mandò dei tank per sgomberare il quartiere universitario. Zangheri si rivolse allora alla polizia con le parole: “Siete in guerra e non si critica chi è in guerra.”

Frase disgraziata, perché chi è in guerra contro la società (come era allora la polizia al servizio del governo di unità nazionale DC-PCI) si dovrebbe criticare, eccome. Il PCI, di cui Zangheri era un dirigente, scelse di difendere l’ordine e di isolare il movimento. Alla lunga sappiamo che fu una battaglia persa, anche se riuscì a peggiorare di gran lunga le condizioni in cui il movimento poté continuare la sua esperienza, spingendone alcuni frammenti verso la lotta armata. Il ricordo che ho di Renato Zangheri è legato a quegli eventi, e a quell’anno. 

Poi iniziò la lunga storia della pacificazione tra la città e gli studenti, e Zangheri rivelò poco alla volta di essere molto meno dogmatico e stalinista di come aveva mostrato di essere in quel momento. Mi è capitato di incontrarlo, molto più tardi, e mi è parso un uomo consapevole del fatto che talvolta siamo costretti a svolgere un ruolo che intimamente non ci piace. Provai in quell’occasione una simpatia umana profonda per quel vecchio comunista che aveva ancora l’energia intellettuale di mettere in discussione il suo passato.

Ma forse è stupido parlare delle persone col tono di chi giudica. Chi sono io per giudicare Zangheri? Preferisco riflettere sulle ragioni per cui, al di là delle frasi disgraziate, eravamo tanto diversi e però anche vicini, seppure nella polemica.

Eravamo diversi perché Zangheri, come i compagni del suo partito, a cominciare con Enrico Berlinguer pensavano che il progresso della società venisse dall’imposizione di un ordine politico, mentre io come i compagni del mio movimento pensavamo che il progresso della società venisse dallo scatenamento delle energie autonome della società medesima. Per noi la ribellione contro l’ordine del lavoro era un fattore di rinnovamento e di libertà, mentre per il partito di Zangheri la ribellione contro l’ordine del lavoro era un indizio pericoloso di anarchia imminente.

Il risultato fu quello che sta sotto i nostri occhi: noi avevamo ragione nel rivendicare l’autonomia della dinamica sociale, ma la separazione tra dinamica sociale autonoma e politica ha prodotto il trionfo del Neoliberismo.

Alla fine chi cerca scorciatoie giornalistiche chiede: Ma insomma, aveva ragione Zangheri (e il suo partito) o aveva ragione il movimento autonomo degli operai e degli studenti?

Io non rispondo a questa domanda, perché nella storia i problemi non trovano mai la loro soluzione, dato che mentre cerchi la soluzione il problema è già cambiato da cima a fondo.

Non lo sapremo mai chi aveva ragione nel 1977. Quello che sappiamo è che gli eventi si sono sviluppati in una maniera molto più simile alle nostre immaginazioni anarco-comuniste di scatenamento che alle pretese statal-comuniste di governo razionale su un sistema capitalistico che con la ragione non c’entra niente.

Ma questa è ormai storia antica. Se ripenso a Zangheri con lo sguardo dell’oggi mi viene in mente che con i politici di quell’epoca era possibile discutere, litigare, e alla fine trovarsi d’accordo o in disaccordo. Era gente che pensava, anche se a mio parere pensava cose sbagliate, superate o autoritarie.

Nell’epoca presente è divenuto impossibile discutere, litigare, essere in disaccordo o magari anche d’accordo, per la semplice ragione che l’azione politica non ha più nulla a che fare col pensiero. È mera esecuzione di ordini che stanno scritti negli algoritmi finanziari, o calcolo dei giorni che mancano perché maturi la pensione di deputato.