Stampa

La pazienza della ricerca e l’urgenza della risposta

on .

di MATTEO MONTAGUTI

«Le parole, comunque le scegli, ti sembrano sempre cose dei borghesi.

Ma così è. In una società nemica non c’è libera scelta dei mezzi per combatterla.

E le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni.»

 

«L’attività politica non è il marciapiede del Nevskij prospekt (il lindo, ampio e piano marciapiede della via principale di Pietroburgo, assolutamente rettilinea)» ammoniva Lenin, riprendendo Černyševskij, in quel suo manuale di guerra conosciuto come “L’estremismo”. Un’indicazione rivolta al sangue nuovo, arterioso, rivoluzionario, che scorreva nelle metropoli d’Europa pompato dal cuore pulsante dell’Ottobre, che metteva a soqquadro, perfino in discussione, l’esistenza dell’ordine borghese, circolazione venosa propagatrice di guerra, violenza, ingiustizia.

«Figurarsi allora il pensiero politico, oggi», potremmo aggiungere noi, a quasi un secolo di distanza da quell’assalto al cielo, abitanti o forse ancora migranti in questi tempi nuovi, tristi e spietati, che di fondo non sono poi tanto diversi dai paesaggi storici del Capitale («tutto è cambiato di una forma che è sempre la stessa»), al netto di qualunque “post”. Un pensiero politico, quello a cui ovviamente ci riferiamo, irriducibile all’esistente, sempre avanti un passo a quello del nemico, calato dentro ai propri tempi ma contro i propri tempi, adeguato ai compiti che essi pongono, ma soprattutto all’altezza della propria parte, vera, concreta, viva, che è sempre lì, e che attende di radicarsi in un noi.

“Dello spirito libero”, «manuale di sopravvivenza» e ultima opera di Mario Tronti, vuole essere lo specchio di questa condizione di mancanza, di difficoltà attuale di quel pensiero autonomo di tramutarsi in discorso potente, avanzato e tonante: il capovolgimento dello stato di cose presente che fatica a trovare una forma, alla ricerca della parola giusta per dirsi e dell’azione opportuna per farsi. Per questo il filo dell’autore si dipana, frastagliato, per frammenti, per accenni, per analogie, per richiami, per citazioni, per riflessi, per schegge di pensiero: sempre incredibilmente stimolante, radicalmente inquieto, tenacemente contro. Del resto, si sa, tra due punti non sempre la via più breve è la retta, ma può essere la curva. E a noi ci interessa, come Lenin, trovare quella che più è necessaria.

Il libro, indipendentemente dal percorso dell’autore soprattutto nell’ultima fase senatoriale, è davvero di grande importanza e denso di spunti fondamentali in questo senso. Ma occorre leggerlo circoscrivendo e contestualizzando quel “pessimismo della ragione” – utile e sano realismo disincantato – di cui è legittimamente (e anagraficamente) pregno, mettendo invece a valore quegli affilati strumenti concettuali che offre, di cui si deve armare l’“ottimismo della volontà”. Altra avvertenza, probabilmente banale ma da prendere in considerazione: va tenuto conto dell’assunzione di una prospettiva difficile da non definire, sostanzialmente, eurocentrica, o meglio occidentocentrica, ma che per questo, forse, riesce a scandagliare con maggiore chiarezza e intensità la fibra dei nodi immediati che a queste specifiche latitudini occorre sciogliere.

Procediamo, allora, a raccogliere qualche frammento, senza alcuna pretesa di esaustività o correttezza di lettura: lo impone l’umiltà di questo lettore di fronte alla densità del libro, a cui l’eccellente recensione di Franco Milanesi rende onore e a cui davvero volentieri rimandiamo.

Un dato di lucida realtà che il vecchio operaista ci mette di fronte: noi stiamo dentro una storia nemica, in cui appare chiuso ogni spazio di manovra decisivo per un attacco in grande stile allo stato di cose presente. Siamo immersi, argomenta, in una realtà sociale in cui appare prosciugata ogni risorsa (materiale – intellettuale – morale) capace di essere attivata non solo per dare concretezza a quel “sogno di una cosa”, ma anche solo per (ri)pensarlo in modo collettivo. La vittoria della narrazione materiale del Capitale, la compiuta occupazione capitalistica del Moderno, il Capitale che diventa potenza-mondo alla fine del Novecento, hanno portato all’emersione di una soggettività inedita: Tronti la chiama borghese-massa. Una figura egemonica e maggioritaria, «un senso comune intellettuale incarnato in forma di popolo», «una mentalità medio-borghese, espansa, diffusa, articolata, interiorizzata», «dominante, perché al tempo stesso individualizzata e massificata». Figura antropologicamente determinata, in tensione omologante, che invade e pervade, trainata e portatrice di una nuova ragione del mondo. Difficile non trovare un nocciolo di verità in queste dure e lapidarie affermazioni. Basta frequentare quotidianamente bar, università, mercati; ascoltare conversazioni sul treno, per strada, al lavoro; osservare i comportamenti, gli atteggiamenti, le aspirazioni comuni. Difficile negare che ci sia «una forte propensione, di massa, a includersi, più che a dislocarsi contro dal di fuori». La muovono inerzia e consuetudine: uno spontaneo autoriconoscimento in quello che c’è e che non può essere altrimenti, al «sistema generalizzato di oppressione liberamente volontaria», alla realtà intesa come stato di natura; un meccanismo alimentato da un apparato ideologico che «non è un’astrazione dalla realtà, ma una sua concrezione nelle mani di chi comanda». L’esercito nemico che invade tutto il campo di battaglia.

La grande crisi, divenuta permanente, ha contribuito a dissestare, a inceppare e a rallentare in parte certi di questi ingranaggi. Non sempre in modo omogeneo e limpido, non ancora in modo sistematico e allargato, o semplicemente come piacerebbe a noi. Ma non poche sono le crepe e le brecce che si sono aperte sulla superficie, a dispetto – come dice Franco Milanesi – di quel trontiano «pessimismo che sembra dare il gioco per chiuso, con una sconfitta senza appello dei subalterni». Tuttavia, il dato rimane la permanenza in stato di marginalità di una soggettività reale, all’interno della composizione di classe e non ristretta a ceto politico, in contrasto e in contraddizione con l’oggettività del reale. Da qui bisogna sempre tornare e ripartire, e con un utile sguardo al passato (e questo va approfondito), porsi il problema di come riconquistare capacità di movimento e profondità d’impatto sull’arena del pensiero e dell’azione politica. Pena, probabilmente, la scomparsa di quell’«anomalia italiana» che, sempre di più ridotta a lumicino, ha salvaguardato il suo tessuto conflittuale da una completa pacificazione alla Nord Europa. Molte suggestioni e punti rilevanti del libro risultano allora preziosi per riflettere su come tornare a pensare e possedere le contraddizioni, ad agirle con tensione strategica autonoma e pragmatica intelligenza tattica, se si vuole bene combattere quel “qui” e quell’“adesso”. La posta in gioco, come sappiamo, non è tanto assumere una velleitaria vocazione maggioritaria per uscire da marginalità o minorità, ma costruire dall’interno della propria parzialità l’egemonia politica sui processi di crisi: o la scienza del capitale riesce a forgiare o ad appropriarsi degli strumenti per manovrarli, per determinarli (non tanto per eliminarli), o le forze della rottura riescono a farne una scadenza e un passaggio di organizzazione sovversiva, di costruzione autonoma di nuove prospettive, capaci di radicarsi e contagiarsi, di generare impulso e di suscitare entusiasmo. Quell’entusiasmo di prospettive, quello spirito e quell’attitudine che, con uno sguardo al maledetto Novecento, si possono rivedere «nel soldato bolscevico che, baionetta in canna, assalta il Palazzo d’Inverno, nel partigiano condannato a morte della Resistenza che scrive la sua ultima lettera, nell’operaio della fabbrica taylorista che salta la scocca sulla catena di montaggio, nella donna che pronuncia la parola impronunciabile: rivoluzione femminile». Figure inquiete che per trovare pace sono entrate in guerra con il loro mondo.

«Il proprio pensiero va sempre misurato col proprio nemico». Va allora assunto come nodo strategico la critica della democrazia politica reale – democrazia realizzata perché è quella che c’è, non per distinguerla da una democrazia ancora possibile diversa da quella degenerata, perché se si vuole un’altra cosa bisogna trovare un’altra parola – che è la critica di quanto esiste assunto come forma ultima, finale, indiscutibile di sistema politico-sociale, senza più un altro e un oltre di desiderabile, ideologia totalizzante che si fa religione integralista d’Occidente, migliore dei mondi possibili che vincola «spalmando polvere d’oro sulle sbarre della gabbia d’acciaio». Democrazia e mercato, non più democrazia e libertà, è l’equazione oggi vincente a livello di massa, il grande feticcio con cui si perpetua la sottile nuova forma di tirannica oppressione di classe saggiata quotidianamente. Da qui, suggerisce Tronti, il passaggio del “da dove cominciare?” che precede il “che fare?”. «È scaduto il termine per un diverso uso del concetto. Troppo forte è la potenza di chi se n’è appropriato, diciamo pure ai suoi fini. È più difficile a questo punto espropriare i proprietari dell’idea che immaginare/progettarne una nuova. Come per un rudere di campagna: si fa prima, ed è più economico, demolire e ricostruire che mantenere e restaurare». Certo, meglio e più utile avere diritti, e usarli come opportunità di movimento, come i vietcong usavano la giungla; necessario non credere di possederli, importante non identificarsi nelle e con le regole formali sottostanti la democrazia borghese. È con un “Per la critica della democrazia politica” che un pensiero strategico antagonista all’esistente, forte e all’altezza dei compiti posti dai propri tempi, deve allora misurarsi. Occorre una proposta di sintesi e una pratica della complessità, nemiche di intellettualismo ed elitismo, come armi di lotta nel combattimento con la storia in atto, che sappiano però trasmettersi efficacemente a «coloro che ci interessa che capiscano» (e qui le suggestive riflessioni sulla comunicazione, sulla ricerca della parola, sulla profezia e sul mito). Un nodo di proficua riflessione che il vecchio teorico operaista aiuta ad articolare («sottrarre l’idea di libertà all’orizzonte borghese, lasciando al capitalismo la sua democrazia»), e che occorre affrontare senza mai dimenticare la parzialità, la differenza e il “partire da sé”, perché sempre si sta, si ragiona e si parla stando da una precisa parte.

In tutto questo, infine, diventa di importanza nevralgica e strategica il nodo politico della memoria vivente e del rapporto dialettico col passato, in particolare il proprio passato, quello della propria parte. La riflessione che ci consegna il libro è innervata dall’urgenza del trarre pensiero, per l’oggi, dall’esperienza storica della classe operaia, dalle lotte del proletariato, dal percorso compiuto dal movimento reale che vuole abolire lo stato di cose esistenti: una storia che va messa a valore in tutta la sua interezza, dagli assalti al cielo alle cadute negli inferi, come già gridava Rosa Luxemburg alla fine dei giorni di Spartaco. All’interno e contro un eterno presente in cui sembra essere stato debellato ogni orizzonte di divenire storico altro rispetto a quello che c’è già, in cui si nega il carattere storicamente determinato dei rapporti sociali ed economici contemporanei, la storia operaia, in particolare quella del Novecento – quel «deposito archeologico» di lotte, organizzazioni, movimenti, trasformazioni, date, eventi, persone, masse, salti in avanti, conquiste, sconfitte – può e deve essere messa a tensione con la memoria viva, che diventa allora essenziale risorsa antagonista e sovversiva, strumento nel conflitto sociale e nella lotta politica. Una memoria che, insieme alla sua trasmissione, va riconquistata dalle maglie del nemico, difesa con i denti e costantemente curata: non solo «il passato è un campo di conflitto tra le forze che si contendono il presente», ma può anche diventare «atto sovvertitore […] più di qualsiasi immaginabile futuro» (significativo il continuo parlare di Tronti con le tesi di filosofia della storia di Benjamin, in particolare la 6 e la 12). Per essere effettivamente viva, è necessario legare – con impegno paziente e certosino – la memoria delle lotte di ieri alla trama del proprio tempo, ai movimenti odierni della classe, ai soggetti reali che combattono oggi, perché, oltre ad essere serbatoio di saggezza ed energia, la memoria è il fuoco di un faro che guida nella notte tempestosa, capace di proiettare senso e potenza per la critica del presente.

Una classe senza passato è una classe priva di futuro, la cui esistenza si riduce a semplice fenomeno empirico. Non è perché siano falliti i molteplici ed eterogenei tentativi di dare corpo a quel “sogno di una cosa”, quindi, che lo stato delle cose diventa accettabile. Uso strategico del passato. Relazione perturbante e inquieta con le proprie radici storiche. Le risorse per un attacco generale all’insostenibile stato delle cose presente un tempo ci sono state, sono storicamente esistite e «non sono da invocare come l’utopia di qualcosa che mai si è visto». Se qualcosa è stato, quindi, può essere ancora.

Alla fine rimane sempre la vecchia questione: la pazienza della ricerca e l’urgenza della risposta. Tante sono le parole che si potrebbero ancora proferire riflettendo su “Dello spirito libero”, numerosi rimangono i frammenti di pensiero da sviscerare, molteplici gli aspetti di questo libro che meriterebbero di essere approfonditi, criticati e messi anche a verifica. Qui si è voluto solo dare qualche traccia di ragionamento, a partire da quel vecchio adagio, ancora valido, che esordiva all’inizio dell’altro libro: «No, il problema di oggi non è che cosa bisogna sostituire al vecchio mondo. Il problema di oggi è ancora quello di come abbatterlo.»