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Rottura o barbarie

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di COMMONWARE

0. Fin dall’inizio del dibattito attorno alla Grecia abbiamo scelto un altro campo rispetto a quello prevalente nella sinistra e nei movimenti, giocato dalle tifoserie pro o contro Tsipras. L’una e l’altra torcida hanno posizioni e ruoli diversi al proprio interno, da chi cerca di importare un modello elettorale a chi si propone come think tank dell’altra Europa, da chi ritiene che ciò che succede nelle istituzioni non ci debba riguardare a chi teme un’inevitabile cattura delle lotte, dimostrando in queste non molta più fiducia di quanta ne abbiano i partigiani delle istituzioni.

Abbiamo posto da subito una questione apparentemente banale eppure molto poco discussa e dunque risolta: quella del noi che parla. Coerenti con questa impostazione di discorso, all’indomani della proposta del governo greco che svuota l’oxi della sua popolazione non ci interessa adesso discutere se Tsipras sia un traditore oppure no. Lasciamo tale dibattito a chi si è sentito rappresentato da Syriza e ha riposto speranza nella possibilità che il suo leader riuscisse a creare un’altra Europa, o al contrario a chi era ansioso di dimostrare che sbagliavano. Non ci riguarda se Tsipras volesse o meno fare diversamente, perché – come ci ha insegnato la sana tradizione del realismo materialista – è inutile chiedere a qualcuno di essere diverso da quello che è: il punto per noi è che non poteva farlo. Si può riconoscere a Tsipras – anche qui, indipendentemente dalla sua volontà – di aver portato all’estrema tensione l’opzione rappresentativa, socialdemocratica e della sinistra, mostrandone il completo esaurimento politico. Sul bordo della rottura, ha accettato di tornare ad avere una pistola puntata alla tempia, perché alla fine della fiera rapiti e rapitori campano della stessa bottega, quindi è paradossale interesse degli uni e degli altri riprodurla e non chiuderla.

Ora ci si può arrampicare sugli specchi, sostenendo che Tsipras abbia fatto un’ulteriore mossa tattica per guadagnare tempo, dopo che l’accantonamento di Varoufakis è stato interpretato come una geniale mossa per spiazzare il nemico. L’ideologia e soprattutto il desiderio di autoconfermare le proprie certezze ottenebrano le menti e impediscono l’azione. La verità è un’altra ed è sotto gli occhi di tutti: la proposta del governo greco (che si trasformi o meno in “accordo” capestro, ma adesso questo dipende esclusivamente dalla controparte) è una vittoria della Troika, perché qualsiasi ripresa della trattativa/rapimento lo sarebbe stata. La popolazione greca sta sempre peggio, e difficilmente si può consolare al pensiero di essere riscaldata dal sol dell’avvenire di un’altra Europa che magari sorgerà dietro ai Pirenei. Nel frattempo, il mostro europeo dell’austerity è riuscito a recuperare terreno, mentre gli Stati Uniti sperano di tirare presto un bel sospiro di sollievo, dopo essersi a lungo impegnati per evitare che il paese ellenico – piccolo ma collocato in una posizione geopolitica strategica – aprisse un campo di relazione con i Brics, in particolare Russia e Cina.

È stato tutto inutile, allora? Pensiamo di no. Innanzitutto perché le soggettività che incarnano quell’oxi, al pari delle lotte, non si possono accendere o spegnere su comando di un governo, come pensano i tifosi pro o contro Syriza, in una sorta di budgetarizzazione governamentale dei movimenti. E poi sul piano degli insegnamenti e del dibattito le questioni sono, o dovrebbero essere, più chiare. In altri tempi di crisi si diceva “socialismo o barbarie”, oggi diciamo: rottura o austerity. Gli spazi in mezzo si asciugano e si marginalizzano, la polarizzazione sociale non permette scappatoie politiche di piccolo cabotaggio. Non c’è nessun catastrofismo, non stiamo rispolverando le trite distopie del “tanto peggio tanto meglio”. C’è un pacato realismo, cioè una delle tante, troppe cose che in questi anni ci è mancata. L’insegnamento lo possiamo sintetizzare così: l’oxi ha aperto uno spazio di possibilità; gli spazi di possibilità non durano a lungo e non coincidono con la realizzazione di quella possibilità. Tra possibilità e realtà c’è l’iniziativa politica che approfondisce la rottura: c’è il problema del noi.

1. Qualcuno dirà: i falchi dell’Unione Europea e della Troika vogliono ancora di più. Certo, vogliono l’imposizione di un piano coloniale e la resa incondizionata. Se anche facessero un passo indietro e accettassero una semplice vittoria, non è con la matematica dei punti percentuali che si fa la politica. UE e Troika questo lo sanno, altri stentano a comprenderlo, anche di fronte all’evidenza. Anzi, spesso ci si appella alla tecnica e alla razionalità delle proprie proposte, senza capire che su questo terreno vincerà sempre e comunque chi la tecnica e la razionalità la detiene. E se c’è qualcuno che ha saputo prendere tempo, è stata proprio la Troika. Per poi riprendere in mano la partita quando sembrava potesse sfuggirle: ha ricondotto la preda sul proprio terreno di gioco, e ha ripreso a fare il gatto col topo. Se c’è stato un momento in cui la Grecia ha interrotto la temporalità del nemico e preso in mano davvero la variabile tempo è stato nel processo che ha portato al referendum. La riapertura della pseudo-trattativa ha chiuso lo spazio di possibilità e ha ridato il pallino in mano al nemico, che ora vuole la capitolazione completa di chi – la popolazione greca ben prima e ben più del suo governo – ha osato ribellarsi. Il resto è cronaca che cambia di ora in ora, senza però modificare il dato politico di fondo. Non è la stessa cosa se la Grexit è imposta dalla Germania o minacciata dalla Grecia, se è espulsione o rottura: è questo che decide chi sta dalla parte della forza. Ora, lagnarsi della crudeltà del gatto non serve a nulla. Il problema è l’incapacità del topo a fuggire su un nuovo terreno. Questo nuovo terreno implica la rottura del vecchio, che si chiama Unione Europea.

Ancora una volta, non ci interessa la polemica tra chi vuole andare avanti con l’Europa e chi vuole ritornare allo Stato nazione, tra europeisti a prescindere e sovranisti ideologici, tra euro e dracma. Perché è una polemica tutta interna al campo del comando capitalistico, tattiche diverse per una stessa strategia. Noi dobbiamo porci la domanda di come è possibile rompere quella strategia. E su questa base, elaborare la tattica. Rompere – con la UE e con lo Stato, poteri gemelli – vuol dire questo, non improbabili alchimie di una governance immaginifica.

Tanti dicono: dopo la rottura, che cosa succede? Qual è la proposta alternativa? Lo citiamo come autorevole esempio storico, fuor di retorica. Sono note le critiche di Marx allo Stato, al socialismo lassalliano e al programma di Gotha. Con lo Stato bisognava rompere, e dopo? Non c’era il rischio di ritornare al passato, al regionalismo feudale, ai piccoli regni e ducati? La risposta è altrettanto nota: noi non scriviamo ricette per la cucina dell’avvenire. Quello che conta non è la proposta, ma il processo di lotta. Marx non si aspettava la Comune, non l’aveva né prevista né prefigurata, definiva addirittura l’insurrezione una follia. Ma quando avviene, a fare della Comune la “forma politica finalmente scoperta” non è la sua rispondenza a criteri teorici o a schemi ideali, ma il suo incarnarsi nell’iniziativa autonoma di classe.

Tutto ciò non significa inghiottire il problema della progettualità nel fuoco della contingenza. Ma progetto e proposte sono due cose completamente diverse. Il progetto è capacità di dare respiro strategico e prospettiva alla rottura e alla trasformazione, non trovare in laboratorio soluzioni alternative. Perché quelle soluzioni servono alla riproduzione del governo dell’esistente, quell’alternativa diventa dentro e non contro i rapporti sociali di sfruttamento. Il capitale è una straordinaria macchina di fagocitazione di tutto ciò che non è in grado di spezzarla. Oggi, dunque, non possiamo limitarci a passare il fucile – dell’Unione Europea o dello Stato-nazione – da una spalla all’altra, da destra a sinistra. Il punto è spezzare la macchina della governance, conquistando di volta in volta le posizioni più avanzate per farlo. Trasformare la crisi e lo scenario di guerra imposto dall’austerity in un’occasione per costruire quello che non c’è, a partire dalla rottura con quello che c’è.

2. Fin dall’inizio della crisi buona parte dei compagni tedeschi ha interpretato la propria posizione rispetto alle lotte nel Mediterraneo (prima quelle della sponda sud, dalla Tunisia all’Egitto, poi della sponda nord, dalla Spagna alla Grecia) come una questione di solidarietà internazionalista. Una riedizione di una posizione terzomondista, oggi però non più rivolta a lontani paesi di altri continenti, ma immediatamente a ridosso o all’interno dell’Europa. L’Europa a due velocità è già in parte assunta tra i militanti di movimento.

Ora, l’atteggiamento che si è creato nelle ultime settimane in Italia rischia di riprodurre la stessa logica nei confronti della Grecia. Ed è ovviamente ancora più paradossale. In Grecia la disoccupazione complessiva è al 27%, qui a più del 12%, con le note truffe delle statistiche che escludono chi ha smesso di cercare lavoro e includono quelli che lavorano un giorno al mese o guadagnano qualche manciata di euro. Quella giovanile è là al 50%, qui al 42%. La precarietà da tempo dilaga e si approfondisce ovunque, le situazioni di impoverimento e precipitazione del ceto medio sono più accentuate e crude in Grecia, ma ampiamente radicate e visibili in Italia. Insomma, stiamo parlando di contesti simili con punte di drammaticità parzialmente diverse. Dunque, la Grecia siamo noi. Non serve mettere delle bandiere elleniche ai nostri balconi, serve invece attaccare le bandiere dell’austerity che sventolano dai balconi del potere. Dunque, chi dice che parlare di rottura significa giocare sulla pelle della popolazione greca dice una cosa priva di senso, innanzitutto perché quella pelle è la nostra pelle, quella popolazione siamo noi.

In questo quadro, si pone una questione estremamente spinosa ma inaggirabile, che la lettera di Bifo ha avuto il merito di porre in modo aperto. Non c’è dubbio che oggi dire Unione Europea e austerity significhi per molti – innanzitutto a livello popolare – nominare il paese che le guida, cioè la Germania, suscitando sentimenti di indignazione o aperta contrapposizione al “colonialismo finanziario”. Non c’è dubbio, al contempo, che la questione sia chiaramente ambigua, perché rischia di sfociare in posizioni anti-tedesche da punti di vista sovranisti o nazionalisti (come cercano di fare parte delle destre). È possibile dare ai sentimenti contro la Germania una curvatura internazionalista e non nazionalista, quindi farne terreno di lotta comune contro il capitale finanziario e non tra popolazioni? Ci sembra una domanda cruciale da affrontare, che si ripropone in tutte le situazioni di guerra come questa. Non è, attenzione, un passo indietro rispetto a una posizione di classe; al contrario, significa tenere conto che la classe si esprime e si compone materialmente e soggettivamente attraverso una molteplicità di istanze, tra cui anche quella della collocazione geografica e dei processi di razzializzazione del mercato del lavoro, come spiega bene Anna Curcio.

Allo stesso tempo, il dibattito nell’Eurogruppo dopo la remissiva proposta di Syriza rende evidenti anche le diverse posizioni dalla parte del governo dell’austerity, tra la Germania e la Bce, tra chi ha interesse a mantenere un’Europa a una velocità e chi sta forse programmando o si sta preparando alla separazione dall’alto. Questa probabilmente sarà un’altra, grande questione con esiti molto concreti e di breve periodo: a questo punto non si tratterà davvero più di solidarizzare con i greci, ma di schierarsi rispetto a un processo i cui effetti riguardano immediatamente tutti.

3. Una cosa ci sembra indiscutibile. In tempi come questi – ammesso e non concesso sia lecito farlo in altri – non ci si può accontentare di un biglietto in tribuna a tifare per la propria squadra o contro quella avversaria. Al contempo, è inutile immaginare di giocare partite in cui si è solo spettatori, oppure rinunciare a partite che si potrebbero giocare per paura di perdere i propri sudati orticelli nelle isole della marginalità. Raffaele Sciortino ci invita a pensare e ragionare nei termini di una grande politica, cioè di un agire politico che punti a trasformare realmente i rapporti di forza, senza paura e senza arricciare il naso, anche cotroutilizzando istanze non nostre. Nella crisi e nella guerra dell’austerity, del resto, non c’è spazio per raffinati distinguo teorici. La complessità bisogna possederla, non esibirla. In politica nei momenti cruciali quello che conta è la capacità di semplificazione, cioè di condensazione tattica di uno scenario strategico. Viceversa rischiamo – ed è il rischio più grosso – di fare la fine dei socialisti italiani tra il ’19 e il ’22, riformisti e massimalisti che fossero, uniti nell’impotenza rispetto a un mondo in tumultuosa precipitazione. Non lo diciamo per preconizzare il ritorno di un passato chiuso, ma per indicare l’incapacità di comprendere le profonde modificazioni sociali e soggettive, perfino antropologiche, del presente di crisi e di guerra.

Compagni che sono stati ad Atene hanno parlato di uno scarto radicale tra l’espressione dell’oxi e la grammatica delle proposte governative, di un rifiuto cioè non traducibile dal punto di vista della trattativa. Questo scarto assumerà la forma di lotta aperta, o resterà potenzialità inespressa? Questa è la partita che si gioca, quella vera, quella in cui dobbiamo essere giocatori e non spettatori. Ma a questo punto a essere interrogate sono le nostre capacità e le nostre insufficienze. Ed il problema del “noi” ritorna, in Grecia come qui, in tutta la sua urgente attualità.