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Classe, razza e iperincarcerazione nell’America revanchista

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di LOÏC WACQUANT

La singola trasformazione politica più significativa dell’era post-diritti civili in America è rappresentata dal congiunto arretramento del misero stato sociale esistente e dall’avanzamento di un gigantesco stato penale – un processo che ha riconfigurato la stratificazione sociale, il tessuto urbano e la cultura civica del paese, e che sta ridefinendo lo stesso significato di “blackness”. Insieme, queste due spinte concorrenti e convergenti hanno di fatto ridisegnato il perimetro, gli obiettivi e le modalità d’azione dei poteri pubblici nella gestione delle popolazioni povere e stigmatizzate confinate al fondo della gerarchia etnica e di classe nel contesto urbano. La concomitanza tra ridimensionamento del settore sociale e accrescimento del settore penale dello stato americano non deriva da mutamenti della povertà o della criminalità, ma è alimentata da una politica del risentimento nei confronti di categorie sociali considerate immeritevoli e indisciplinate, prime fra tutte quelle dei beneficiari di assistenza pubblica e dei criminali di strada – rappresentate come diaboliche immagini-simbolo di quell’underclass nera che ha dominato i dibattiti giornalistici, accademici e politici sulla povertà urbana in America (Katz 1995; O’Connor 2002) durante i decenni della revanche che hanno assorbito i disordini civili degli anni Sessanta e la stagflazione dei Settanta assistendo alla più grande esplosione carceraria della storia mondiale[1].

In questo capitolo dimostro che la straordinaria espansione e intensificazione delle attività della polizia, delle corti di giustizia, e delle prigioni americane nel corso degli ultimi trent’anni, è stata attentamente calibrata – prima di tutto in termini di classe, poi razziali e infine spaziali – portando non all’incarcerazione di massa, ma all’iperincarcerazione di maschi (sotto)proletari neri del ghetto in distruzione. Questa triplice selettività rivela che la costruzione dello stato penale iperattivo e ipertrofico che ha reso gli Stati Uniti campioni mondiali dell’incarcerazione rappresenta tanto una reazione a scoppio ritardato al movimento per i diritti civili e alle rivolte nei ghetti della metà degli anni Sessanta (Wacquant 2012), quanto uno strumento disciplinare sfoderato per sostenere la rivoluzione neoliberale contribuendo a imporre l’impiego precario quale orizzonte di lavoro normale per le componenti dequalificate della classe operaia postindustriale (Wacquant 2006). Il duplice accoppiamento della prigione con l’iper-ghetto in rovina da una parte, e con il workfare disciplinare dall’altra, non costituisce un dilemma morale – come ha di recente sostenuto Glenn Loury (2008) nella sua Tanner Lecture – ma un dilemma politico che richiede un’analisi più ampia del nesso tra disuguaglianza di classe, stigma etnico e stato nell’era dell’insicurezza sociale. Il tentativo di fermare la criminalizzazione razzializzata della povertà nell’inner city in dissoluzione invoca risposte politiche diverse da quelle che richiederebbe l’incarcerazione di massa, e presuppone un’analisi degli ostacoli politici a tali risposte – un’analisi che deve spingersi al di là di una riforma penale con “effetti a cascata”, per includere invece il ruolo molteplice dello stato nella produzione e nel consolidamento della marginalità.

L’espansione dello stato penale

Il racconto dell’imprevedibile crescita esponenziale del sistema carcerario nel corso degli ultimi tre decenni in America, dopo mezzo secolo di stabilità penale, è stato riproposto più volte. Ma la crescita complessiva della popolazione carceraria, da circa 380.000 detenuti nel 1975 a 2 milioni nel 2000, fino a circa 2,4 milioni oggi (includendo i minori e i soggetti in stato di fermo di polizia, non computati nelle statistiche carcerarie ufficiali) costituisce solo un versante della sfaccettata espansione dello stato penale (Wacquant 2006, capp. 4 e 5). Vorrei evidenziare qui quattro dimensioni distinte (ma sommerse) della svolta punitiva americana che ha fatto seguito alla conclusione dell’era fordista, come sfondo per l’analisi del dispiegamento dei tentacoli disciplinari dello stato nei confronti dei poveri.

In primo luogo, questa crescita fenomenale si distingue per il fatto di essere stata alimentata non, come in precedenti periodi di inflazione carceraria, dall’allungamento della media delle sentenze, ma prima di tutto dall’impennata delle nuove ammissioni in carcere. Così il numero delle persone condannate all’incarcerazione in penitenziari statali e federali è passata da 159.000 nel 1980 a 665.000 nel 1997 (contribuendo all’80 per cento della crescita della popolazione carceraria durante quel periodo), prima di stabilizzarsi intorno al mezzo milione ogni anno dopo il 2002. Questa circostanza differenzia significativamente gli Stati Uniti dai paesi dall’Europa occidentale, molti dei quali hanno a loro volta sperimentato un aumento costante – anche se comparativamente modesto – dell’incarcerazione nel corso degli ultimi due decenni, ma senza che l’aumento del numero complessivo fosse dovuto a un allargamento del flusso in entrata (Dünkel e Snaacken 2005). Un contributo fondamentale a questa crescita “verticale” del sistema carcerario è costituito dal notevole aumento del volume delle persone arrestate dalla polizia e dal ruolo estremamente ampio assunto dalle prigioni di contea quali argini di prima linea contro i disordini sociali della città. Questo iperattivismo poliziesco è stato sproporzionato e indipendente rispetto alle tendenze della criminalità. Un esempio importante: a New York, durante la campagna di “zero tolleranza” promossa dal sindaco Giuliani, il numero degli arresti è aumentato del 40 per cento tra il 1993 e il 1998 raggiungendo la cifra di 376.000, mentre i reati sono diminuiti del 54 per cento scendendo a 323.000 – il che significa che in quel periodo la polizia ha arrestato più persone di quanti reati non abbia registrato (mentre all’inizio del periodo il rapporto tra arresti e reati registrati era di 1 a 2)[2]. Per quanto un numero crescente di tali arresti fosse ingiustificato e non abbia portato alla formulazione di capi d’imputazione, gli ingressi in prigione sono aumentati di un quarto, determinando un terribile sovraffollamento e un caos endemico nelle istituzioni detentive (Wacquant 2006, 256-257 e 123-127).

Come risultato dell’intensificazione delle attività di polizia associate a una crescente propensione a confinare i devianti, le prigioni locali americane sono diventate gigantesche strutture che a livello nazionale smaltiscono una decina di milioni di corpi ogni anno, oltre a rappresentare istituzioni centrali nella vita del (sotto) proletariato delle grandi città e a pesare enormemente sui budget delle contee[3]. In effetti, poiché si occupano di un numero di persone molto più esteso di quello gestito dalle prigioni statali o federali – e in condizioni più caotiche a causa dell’elevato turnover, del sovraffollamento cronico, dell’eterogeneità della popolazione e della svolta amministrativa managerialista (le due principali priorità delle guardie carcerarie sono il controllo degli incidenti violenti e la riduzione degli straordinari) – le prigioni di contea generano conseguenze sociali e familiari più distruttive, al fondo dell’ordine sociale urbano, di quanto non facciano le prigioni statali. Tuttavia, esse sono rimaste ampiamente fuori dall’obbiettivo tanto degli studiosi quanto degli analisti politici[4].

In secondo luogo, la crescita verticale del sistema penale è stata surclassata dalla sua diffusione “orizzontale”: le fila di coloro che sono trattenuti nel lungo cono d’ombra della prigione attraverso la semilibertà (probation) o la libertà condizionale (parole) si sono ingrossate ancora più della popolazione dietro le sbarre, raggiungendo rispettivamente la cifra di quattro milioni e un milione. Di conseguenza, la popolazione complessivamente sottoposta a supervisione penale si è gonfiata da 1,8 milioni nel 1980 a 6,4 milioni nel 2000, fino a 7,4 milioni nel 2007. La probation e la parole dovrebbero essere incluse nel dibattito sullo stato penale, non solo perché coinvolgono una popolazione ben più ampia di quella dei detenuti (nel 1998 ben undici stati americani contavano oltre 100.000 individui in semilibertà, più della Francia con i suoi 87.000), ma anche perché nella maggioranza dei casi entrambe si risolvono in un rientro in carcere: tra i detenuti rilasciati nel 1997, due soggetti su cinque in stato di semilibertà e sei su dieci in libertà condizionale hanno fatto ritorno in carcere entro tre anni – per aver commesso un nuovo reato o per aver violato una delle condizioni amministrative del loro rilascio (aver fallito un test alcolimetrico, aver perso il lavoro, aver mancato un appuntamento con l’agente della parole, aver viaggiato senza permesso al di fuori della propria contea di assegnazione ecc.). Lo scopo e il funzionamento della parole sono radicalmente mutati nel corso degli ultimi trent’anni, trasformandola da trampolino di lancio verso il reinserimento sociale in una trappola penale, con la conseguenza che ora essa è pensata come un’estensione del sistema carcerario piuttosto che come un’alternativa a questo (Petersilia 2003).

Il raggio d’azione delle autorità penali è stato anche drasticamente ampliato al di là della probation e della parole dalla crescita esponenziale delle dimensioni, degli obiettivi e degli usi dei database penali – qualcosa come 60 milioni di file su 35 milioni di individui stimati. Le nuove misure panottiche includono la diffusione di dati ufficiali sui precedenti penali tramite internet, la routinizzazione dei “controlli sui precedenti” da parte di datori di lavoro e agenti immobiliari, la proliferazione di leggi che impongono la notificazione al pubblico (e altre leggi simili, volte a espurgare dal corpo sociale specifiche categorie di ex detenuti, come gli autori di reati sessuali), così come il passaggio dalle impronte digitali e dalle foto segnaletiche vecchio stile ai registri del DNA coordinati dall’FBI[5]. Questi tentacoli istituzionali – e le pratiche normalizzate di profiling, sorveglianza e confinamento a distanza che essi permettono – limitano gravemente le chance di vita degli ex detenuti e delle loro famiglie, estendendo gli effetti dello stigma giudiziario tanto al mercato del lavoro, dell’alloggio e matrimoniale, quanto alla vita quotidiana (Pager 2007; Thacher 2008; Tewksbury e Lees 2006)[6]. I legislatori hanno ulteriormente ampliato queste sanzioni aggiungendo una serie di restrizioni nell’accesso degli ex detenuti a servizi pubblici e a privilegi e benefici – dall’edilizia popolare agli impieghi nel settore pubblico, dalle borse di studio universitarie ai diritti genitoriali e di voto (Olivares et al. 1996).

In terzo luogo, l’avvento del “Big Government” penale è stato reso possibile da sconcertanti aumenti di budget e di personale. La spesa pubblica per prigioni e carceri locali negli Stati Uniti è passata da 7 miliardi di dollari nel 1980 a 57 miliardi nel 2000, fino a superare i 70 miliardi nel 2007, sebbene la criminalità fosse dapprima stagnante e poi stabilmente in calo dopo il 1993 (nel frattempo la spesa totale per il sistema di giustizia penale è settuplicata, passando da 33 miliardi a 216 miliardi). Questo boom budgetario del 660 per cento – un vero e proprio Piano Marshall carcerario in un periodo in cui tutte le amministrazioni proclamavano di voler contenere la spesa pubblica – ha finanziato l’aggiunta di un altro milione di personale nel sistema penale, elevando il sistema correzionale al rango di terzo principale datore di lavoro della nazione, secondo solo a Manpower Inc. e Wal-Mart, con un libro-paga annuale di 2,4 miliardi. L’ampliamento della funzione carceraria del governo è stato rigorosamente proporzionale al ridimensionamento della sua funzione sociale. Nel 1980 il paese spendeva per i due principali programmi di assistenza (11 miliardi per l’AFDC e 10 miliardi per i food stamps) tre volte di più che per il sistema carcerario (7 miliardi). Nel 1996, quando la “riforma del welfare” sostituì il diritto all’assistenza con l’obbligo di accettare impieghi precari come condizione per ricevere il sostegno, il budget carcerario era arrivato a doppiare le somme allocate all’AFDC o ai food stamps (54 miliardi a fronte di 20 miliardi e 27 miliardi rispettivamente). Analogamente, solo durante gli anni Ottanta Washington ha tagliato di 17 miliardi i fondi per l’alloggio (meno 61 percento) mentre alimentava il sistema carcerario con 19 miliardi (più 171 percento), trasformando di fatto la costruzione di prigioni nel principale programma di alloggio per i poveri.

In quarto luogo, la costruzione del colossale stato penale americano è l’esito di un impegno nazionale e bipartisan. Molti studiosi hanno correttamente evidenziato che gli Stati Uniti non possiedono un unico sistema di giustizia penale, ma un incerto mosaico di giurisdizioni indipendenti affette da una frammentazione amministrativa e una dispersione programmatica che confinano con l’incoerenza (Zimring e Hawkins 1991; Tonry 2000). Alla luce di notevoli variazioni regionali e statali, altri hanno sottolineato il ruolo della “cultura politica locale” e delle forme di “partecipazione civica” nel determinare la composizione e l’intensità delle sanzioni penali (Barker 2009), e hanno rilevato che fattori quali la presenza di un governatore repubblicano, di una larga popolazione urbana afroamericana, o la “cultura religiosa e politica di ciascuno stato” esercitano un’influenza significativa sui tassi di incarcerazione (Greenberg e West 2001; Jacobs e Carmichael 2001; ma si veda anche Smith 2004). Tuttavia, nonostante queste e altre differenze e peculiarità geografiche, rimane il fatto che nel corso degli ultimi trent’anni l’escalation penale non ha risparmiato nessun angolo del paese, e ha portato a un’unificazione de facto del sistema sotto l’egida di un uso aggressivo della penalità: a parte il Maine e il Kansas, tutti gli stati dell’Unione hanno visto le proprie cifre penitenziarie aumentare di oltre il 50 per cento tra il 1985 e il 1995, all’apice del boom carcerario. Ovunque, l’ideale della riabilitazione è stato abbandonato o drasticamente ridimensionato, facendo del castigo e della neutralizzazione i principali obbiettivi dell’incarcerazione.

L’accresciuta centralità della questione criminale e la diffusa sfiducia nei confronti del governo hanno spinto diverse giurisdizioni non solo a una maggiore punitività (Zimring e Johnson 2006), ma anche il controllo delle politiche in materia penale è migrato verso il livello federale, dove a partire dalla metà degli anni Settanta è diventato sempre più simbolico e meno sostanziale (Marion e Oliver 2009). In effetti, questa angolazione nazionale costituisce una delle cause specifiche dell’intensità della svolta punitiva che colpisce le zone urbane povere e a maggioranza non bianca (Miller 2008). E questa traiettoria nazionale non è stata interrotta da cambiamenti nelle maggioranze politiche delle assemblee legislative statali, del Congresso, o della Casa Bianca, dal momento che entrambi i partiti hanno simmetricamente sostenuto l’attivismo penale e l’espansione dell’incarcerazione[7]. I repubblicani proclameranno anche di essere “più duri contro la criminalità”, ma sono state le maggioranze democratiche a tenere le redini dell’espansione penale in California, Illinois, Michigan e New York. È stato un presidente democratico, Jimmy Carter (ex governatore della Georgia, uno degli stati più repressivi del paese) a dare avvio al “grande balzo” carcerario statunitense. E un altro presidente democratico (ed ex governatore di un altro stato ultra-punitivo come l’Arkansas) come Bill Clinton, a sostenere la più costosa legislazione penale nella storia mondiale (il Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994) e ad assistere alla più vasta espansione dell’incarcerazione che si sia mai registrata negli annali delle società democratiche (un incremento di 465.000 detenuti per un costo aggiuntivo di 15 miliardi, a confronto di un aumento di 288.000 a un costo di 8 miliardi durante l’amministrazione Reagan).

Dall’incarcerazione di massa all’iperincarcerazione

Quanto descritto finora dimostra che l’impronta dello stato penale sul corpo della nazione è molto più estesa e marcata di quanto non si tenda ad affermare. Al contempo, essa è anche significativamente più selettiva di quanto non suggerisca il dibattito corrente. Tra gli attivisti, i giornalisti e gli analisti della scena carceraria statunitense è invalsa la consuetudine di descrivere l’espansione senza pari e senza precedenti del sistema correzionale americano alla fine del XX secolo come “incarcerazione di massa” (si vedano per esempio Dyer 1999; Wright e Herivel 2003; Jacobson 2005; Gottschalk 2006; Clear 2007). Il termine fu (re)introdotto nel dibattito nazionale sulle prigioni verso la fine degli anni Novanta – fino a quel momento era stato utilizzato in relazione all’internamento dei nippo-americani nei campi di detenzione durante la Seconda guerra mondiale – e fu presto codificato da David Garland (2001) nel contesto di una conferenza internazionale su “Incarcerazione di massa: cause e conseguenze” tenutasi alla New York University nel 2000, che ha rinvigorito la ricerca sul tema[8]. L’appellativo “di massa” è intuitivamente efficace perché permette di evidenziare la situazione eccezionale degli Stati Uniti nello scenario mondiale, nonché di drammatizzare la situazione attuale e attirare dunque l’attenzione pubblica e scientifica sul tema. Ma per quanto sia stata utile a mobilitare risorse intellettuali e civiche, tale definizione mistifica alcune caratteristiche fondamentali del fenomeno.

L’incarcerazione di massa è una descrizione fuorviante di un fenomeno che sarebbe meglio definire come iperincarcerazione. Non si tratta di una semplice questione terminologica, poiché questo cambiamento semantico rimanda a una diversa descrizione della svolta punitiva, il che conduce a sua volta a un diverso modello causale e infine a ricette politiche diverse. L’incarcerazione di massa suggerisce che la detenzione riguardi ampi settori della cittadinanza (come nel caso dei mass-media, della cultura di massa, della disoccupazione di massa ecc.), implicando che la rete penale sia stata gettata in lungo e in largo attraverso lo spazio fisico e sociale. Questa caratterizzazione è imprecisa sotto tre diversi punti di vista. Primo, l’incidenza dell’incarcerazione negli Stati Uniti, sebbene estrema rispetto agli standard internazionali, non riguarda decisamente “le masse”: un tasso complessivo del 0,75 per cento è tutto sommato meno drammatico dell’incidenza di mali quali l’infezione latente da tubercolosi (4,2 per cento) o la dipendenza grave da alcol (3,81 per cento) – fenomeni che nessuno definirebbe seriamente come “di massa” negli Stati Uniti. In secondo luogo, l’espansione e l’intensificazione delle attività della polizia, delle corti e delle prigioni nel corso dell’ultimo quarto di secolo sono state tutt’altro che indiscriminate[9]. Esse sono state anzi attentamente mirate, prima di tutto in termini di classe, poi in base a quella forma mistificata di etnicità chiamata razza, e infine in senso geografico. Questa selettività cumulativa ha condotto all’iperincarcerazione di una particolare categoria di persone, i maschi afroamericani di classe povera intrappolati nel ghetto in via di dissoluzione, mentre ha lasciato praticamente intatto il resto della società – compresi, in modo alquanto sorprendente, gli afroamericani di classe media ed elevata. Infine, e in modo ancora più significativo, questa triplice selettività rappresenta una caratteristica costitutiva del fenomeno: se lo stato penale si fosse dispiegato in modo indiscriminato attraverso politiche finalizzate alla detenzione di un vasto numero di bianchi e cittadini benestanti, con l’effetto di destrutturarne le famiglie d’origine e decimarne i quartieri di residenza, come è stato per gli afroamericani dell’inner city, la sua crescita sarebbe stata presto controllata e infine arrestata da contromisure politiche. L’incarcerazione “di massa” è socialmente tollerabile e quindi plausibile come politica pubblica solo nella misura in cui non si estende alle masse: si tratta di una figura retorica che nasconde i molteplici filtri che agiscono per direzionare l’arma penale[10].

La classe, e non la razza, costituisce il primo filtro selettivo per l’incarcerazione. L’attenzione al rapporto tra razza, criminalità e pena che ha dominato il dibattito sul boom carcerario ha trascurato il fatto che i detenuti sono prima di tutto gente povera. In effetti, questo univoco reclutamento di classe rappresenta una costante della storia penale sin dall’invenzione delle case di correzione nel tardo XVI secolo (Spierenburg 1991) nonché un fatto assodato negli annali dell’incarcerazione statunitense (Rothman 1971; Christianson 1998)[11]. Si consideri il profilo sociale della clientela delle prigioni di contea (jail) della nazione – la porta d’ingresso nell’arcipelago carcerario americano. Questa clientela è tratta in misura sproporzionata dalle frazioni più precarie della classe operaia urbana (Wacquant 2006, cap. 2): meno della metà dei detenuti aveva un lavoro a tempo pieno al momento del rinvio a giudizio, e due terzi provengono da nuclei familiari con un reddito annuale corrispondente a meno della metà della “soglia di povertà”; solo il 13 percento possiede un’istruzione post-secondaria (a fronte di un tasso nazionale di oltre la metà); il 60 per cento non è stato allevato da entrambi i genitori, compreso un 14 per cento cresciuto tra case famiglia e orfanotrofi; e un detenuto su due ha un altro familiare dietro le sbarre. I clienti abituali delle prigioni locali americane non soffrono soltanto di profonda insicurezza materiale, deprivazione culturale, e privazione sociale – solo il 16 per cento è sposato, a fronte di un 58 per cento degli uomini nella stessa fascia d’età a livello nazionale. Essi includono anche un numero sproporzionato di homeless, individui affetti da patologie mentali, tossicodipendenti da alcol e da altre sostanze, portatori di gravi handicap: quasi uno su quattro soffre di una patologia fisica, psichica o emotiva sufficientemente grave da pregiudicarne l’abilità al lavoro. E provengono in gran parte da quartieri poveri e stigmatizzati, devastati dal duplice ritiro del mercato del lavoro e dello stato sociale dai centri urbani (Wilson 1996; Wacquant 2008a). Al contrario, di norma un numero molto limitato di membri delle classi medie e superiori soggiorna presso l’“hotel con le sbarre”, specialmente per aver commesso atti di criminalità piccola e media dai quali deriva la maggioranza delle condanne detentive (nel 1997, l’11 percento delle nuove condanne alla detenzione in penitenziari statali riguardava reati contro l’ordine pubblico, il 30 per cento reati legati agli stupefacenti, e il 28 per cento reati contro la proprietà). Martha Stewart e Bernie Madoff non sono altro che spettacolari eccezioni che confermano ulteriormente questa rigida discriminante di classe.

La razza arriva per seconda. Ma la trasformazione etnica delle prigioni americane è stata contemporaneamente più drammatica e singolare di quanto non si riconosca di solito. Per iniziare, la composizione etnorazziale dei detenuti si è completamente ribaltata nel giro di quarant’anni, passando da un 70 per cento di bianchi e un 30 per cento di “altri” alla fine della Seconda guerra mondiale a un 70 per cento di afroamericani e latini e un 30 per cento di bianchi alla fine del secolo. Questa inversione, che ha avuto inizio dopo la metà degli anni Settanta, è ancor più sconvolgente alla luce del fatto che la popolazione criminale si è ridotta ed è diventata più bianca in quel periodo: la proporzione di afroamericani tra gli arrestati dalla polizia per i quattro reati violenti più gravi (omicidio, stupro, rapina, lesioni gravi) è passata dal 51 per cento nel 1973 al 43 per cento nel 1996 (Tonry 1995, 17), e ha continuato a diminuire stabilmente per ciascuno di tali reati almeno fino al 1996 (Tonry e Malewski 2008, 18).

Infine, il rapido “annerimento” della popolazione carceraria pur a fronte di un “imbianchimento” della criminalità grave, è dovuto esclusivamente all’aumento astronomico dei tassi di incarcerazione tra gli afroamericani poveri. Nel suo libro Punishment and Inequality in America, Bruce Western (2006, 27) offre una statistica sconcertante: mentre il rischio complessivo di incarcerazione per i maschi afroamericani privi di un diploma di scuola superiore si è triplicato tra il 1979 e il 1999, raggiungendo il tasso inconcepibile del 59 per cento, la probabilità di scontare periodi di incarcerazione nel corso della loro vita è diminuita dal 6 al 5 per cento tra i maschi neri in possesso di un’istruzione universitaria. Ancora una volta, il melodramma mediatico sull’arresto per errore del noto professore afroamericano di Harvard Henry Louis Gates nell’estate del 2009 ha offuscato il fatto che gli afroamericani di classe media e superiore vivono in condizioni migliori sotto il presente regime penale che non trent’anni fa. Tale regime ha alimentato l’ossessione nazionale per il dualismo bianco-nero, il quale nasconde il fatto che la sproporzione di classe all’interno di ciascuna categoria etnica è più forte della sproporzione razziale tra queste: gli uomini afroamericani hanno probabilità otto volte superiori di soggiornare dietro le sbarre rispetto agli uomini di discendenza europea (il 7,9 per cento contro l’1 per cento nel 2000), ma la probabilità complessiva di trascorrere periodi in prigione per i maschi che non abbiano completato l’istruzione secondaria è pari a dodici volte quello degli afroamericani che hanno frequentato il college (il 58,9 per cento contro il 4,9 per cento), mentre il differenziale di classe tra i maschi bianchi si attesta su un fattore di 16 (l’11,2 per cento contro lo 0,7 per cento; si veda Western 2006, 17, 27). Il fatto che queste proporzioni fossero significativamente più basse vent’anni fa, tanto per i neri quanto per i bianchi (nell’ordine di 1 a 3 e 1 a 8 rispettivamente), conferma che l’espansione dell’incarcerazione ha colpito in modo selettivo in base alla classe all’interno della razza, il che confuta ancora una volta la diagnosi di un fenomeno di “di massa”.

L’espansione penale come risposta all’implosione del ghetto

Ma com’è stato possibile conseguire questa selettività duplice e cumulativa? Com’è possibile che norme penali ipoteticamente redatte in modo tale da prevenire discriminazioni razziali e di classe possano portare a rinchiudere dietro le sbarre così tanti maschi afroamericani (sotto)proletari, e non altri maschi neri?[12] Il gradiente di classe nell’incarcerazione razzializzata è stato ottenuto concentrandosi su un luogo particolare: le macerie del ghetto nero. Insisto qui sul termine “macerie” perché il vecchio ghetto che conteneva in sé una comunità nera unita, per quanto stratificata, non esiste più. La Black Belt comunitaria dell’era fordista, descritta da una lunga sequenza di illustri sociologi afroamericani – da W.E.B. Du Bois a E. Franklin Frazier, da Drake e Cayton a Kenneth Clark – è implosa negli anni Sessanta, per lasciare il posto a una struttura di segregazione duale e decentrata, costituita da una parte da un iperghetto degradato e doppiamente segregato in termini razziali e di classe, e dall’altra dalle zone-satellite della classe media afroamericana proliferate nelle aree limitrofe al ghetto, lasciate libere dall’esodo di massa dei bianchi verso i sobborghi (Wacquant 2008a, 117-118).

Ma per individuare lo stretto legame tra il ghetto in decadenza e la prigione in espansione è necessario operare due spostamenti analitici. In primo luogo è necessario fuoriuscire dai ristretti confini del paradigma di “criminalità e pena” che continua a paralizzare il dibattito accademico e politico nonostante la sua palese inadeguatezza. Una semplice proporzione è sufficiente a dimostrare che la criminalità non può essere la causa dell’iper-inflazione carceraria: il numero di clienti delle prigioni statali e federali è esploso, passando da 21 detenuti per ogni mille index crimes[13] commessi nel 1975 a 125 per mille nel 2005. In altri termini, tenendo costante il tasso di criminalità si scopre che lo stato penale americano è sei volte più punitivo oggi di quanto non fosse trent’anni fa[14]. Invece di farsi fuorviare da analisi sulla (s)connessione tra crimine e pena, è dunque necessario riconoscere che la prigione non costituisce un semplice strumento tecnico di governo volto ad arginare la criminalità, ma una fondamentale risorsa statale predisposta per gestire popolazioni spossessate e stigmatizzate. Tornando agli albori della prigione nel lungo XVI secolo si scopre facilmente che la schiavitù penale si è consolidata non per contrastare la criminalità, ma per simboleggiare l’autorità dei governanti e per reprimere l’inattività e imporre la moralità tra vagabondi, mendicanti, e varie altre categorie lasciate alla deriva dall’ascesa del capitalismo (Rusche e Kirchheimer 1939; Lis e Soly 1979; Spierenburg 1991). L’invenzione della prigione era parte integrante della costruzione dello stato moderno, con la funzione di disciplinare il proletariato urbano emergente e di mettere in scena la sovranità a beneficio della nascente cittadinanza. Lo stesso è vero a quattro secoli di distanza per la metropoli duale del capitalismo neoliberale (Wacquant 2010).

Ma un secondo spostamento analitico è necessario per svelare il nesso causale tra l’iper-ghettizzazione e l’iper-incarcerazione: la consapevolezza del fatto che il ghetto non rappresenta semplicemente un’area segregata, un quartiere povero o un distretto urbano sfigurato da abitazioni derelitte, violenza, vizio o stigma, bensì uno strumento di controllo etnorazziale nella città. Un ulteriore sguardo alla storia sociale dimostra come il ghetto sia un meccanismo socio-spaziale per mezzo del quale una categoria etnica dominante confina un gruppo subordinato e ne riduce le chance di vita con il duplice obiettivo di sfruttarlo ed escluderlo dalla sfera vitale dei dominanti. Come il ghetto ebraico nell’Europa rinascimentale, la Black Belt della metropoli americana nell’era fordista combinava quattro diversi elementi – stigma, costrizione, segregazione spaziale, e irreggimentazione istituzionale – per permettere lo sfruttamento economico e l’ostracismo sociale nei confronti di una popolazione ritenuta congenitamente inferiore, contaminata e contaminante in virtù della sua discendenza diretta dalla schiavitù. Sostituendosi alla schiavitù e al regime segregazionista Jim Crow, il ghetto era la terza “istituzione peculiare” incaricata di definire, confinare e controllare gli afroamericani nell’ordine industriale urbano (Wacquant 2001).

L’espansione penale iniziata a metà degli anni Settanta costituisce una risposta politica al crollo del ghetto. Ma perché è crollato il ghetto? Tre serie di cause hanno concorso a destrutturare la “città nera dentro quella bianca” incaricata di confinare gli afroamericani tra gli anni Venti e gli anni Sessanta. La prima è la transizione economica postindustriale, che ha spostato l’impiego dal settore manifatturiero a quello dei servizi, dal centro delle città ai sobborghi, dalla Rust Belt alla Sun Belt[15] e i paesi stranieri con manodopera a basso costo. Assieme alla recente immigrazione, questa trasformazione ha reso superflua la forza lavoro afroamericana, ridimensionando il ruolo del ghetto come riserva di forza lavoro dequalificata. La seconda causa è lo spostamento politico determinato dalla “grande migrazione bianca” verso i sobborghi: tra gli anni Cinquanta e Settanta, milioni di famiglie bianche hanno abbandonato la metropoli in risposta all’afflusso di afroamericani provenienti dal Sud rurale. Questo rivolgimento demografico, sussidiato dal governo federale e rafforzato dalle corti di giustizia, ha ridimensionato l’influenza delle città all’interno del sistema elettorale nazionale, riducendo il peso politico degli afroamericani. La terza forza dietro il crollo del ghetto come contenitore etnorazziale è la protesta nera, alimentata dall’accumulazione di capitale sociale e simbolico correlato alla ghettizzazione e culminata nella legislazione sui diritti civili, la nascita dell’attivismo politico del Black Power, e l’esplosione delle rivolte urbane che hanno colpito il paese tra il 1964 e il 1968.

A differenza del regime Jim Crow, dunque, il ghetto non è stato smantellato per mezzo di un intervento governativo dall’alto. Piuttosto, si è lasciato che crollasse da sé, intrappolando gli afroamericani di classe povera in un vortice di disoccupazione, povertà e criminalità intensificato dalla crisi simultanea del mercato del lavoro salariato e del welfare, mentre la classe media afroamericana conseguiva una relativa separazione sociale e spaziale attraverso la colonizzazione dei distretti adiacenti alla storica Black Belt (Wilson 1996; Pattillo-McCoy 1998). Poiché il ghetto perdeva la sua funzione economica di estrazione di lavoro e si rivelava incapace di funzionare come strumento di confinamento etnorazziale, la prigione fu chiamata in causa affinché contribuisse a contenere una popolazione stigmatizzata e largamente percepita come deviante, disperata, e pericolosa. Questo accoppiamento ha avuto luogo perché, come si è detto prima, il ghetto e la prigione appartengono alla medesima categoria istituzionale – quella delle istituzioni di confinamento forzato: il ghetto è una sorta di prigione etnorazziale nella città, mentre la prigione funziona come un “ghetto giudiziario”. Entrambe sono incaricate di confinare una categoria stigmatizzata in modo da limitare la minaccia materiale o simbolica che essa rappresenta per la società dalla quale è stata estromessa.

Certo, il rapporto di omologia strutturale e surrogazione funzionale tra ghetto e prigione non implica necessariamente che il primo sia sostituito dalla seconda, o che si associ a questa. Affinché questo si verificasse è stato necessario effettuare, sviluppare e sostenere specifiche scelte politiche. Tale supporto è derivato dall’allarmata reazione dei bianchi alle rivolte urbane e alle connesse rivolte razziali degli anni Sessanta, oltre che dal crescente risentimento politico suscitato dall’impotenza del governo a far fronte alla stagflazione degli anni Settanta e alla conseguente diffusione dell’insicurezza sociale, lungo tre direttrici. In primo luogo, il ceto medio bianco ha accelerato il proprio esodo dalle città in subbuglio, il che ha consentito al governo federale di smantellare programmi pubblici essenziali per il sostentamento dei residenti dell’inner city. In secondo luogo, i bianchi di classe operaia si sono uniti ai loro pari di classe media nell’opporsi allo stato sociale e invocare tagli ai sussidi sociali – portando nel 1996 alla “fine del welfare come lo conosciamo”. E infine, la medesima alleanza ha offerto un ardente sostegno politico alle misure di “legge e ordine” che hanno messo in moto la macchina penale agganciandola all’iper-ghetto. Luogo d’incontro e teatro di queste tre forze politiche è stata la “città revanchista” (Smith 1996), al cui interno la disuguaglianza crescente, la precarietà sociale endemica e la marginalità cronicizzata alimentavano il rancore dei cittadini nei confronti tanto della presunta eccessiva generosità del welfare quanto della tolleranza del sistema penale nei confronti degli afroamericani poveri.

Due serie di trasformazioni convergenti hanno poi consolidato l’intreccio tra l’iper-ghetto e la prigione in una trama carceraria che intrappola una popolazione di neri poveri espulsi dal mercato del lavoro deregolato e dalla decadenza delle istituzioni pubbliche dell’inner city (Wacquant 2010). Da una parte, il ghetto è stato “carcerizzato”, nella misura in cui la sua composizione di classe è diventata univocamente povera, le sue relazioni sociali interne si sono sviluppate nel segno della sfiducia e della paura e le sue organizzazioni indigene sono svanite per lasciare il posto alle istituzioni di controllo sociale dello stato. Dall’altra parte, la prigione è stata “ghettizzata”, nella misura in cui una rigida partizione razziale ha iniziato a pervadere le istituzioni detentive, la cultura predatoria della strada ha sostituito il “codice carcerario” che aveva tradizionalmente regolato la “società dei detenuti” (Sykes 1958), la riabilitazione è stata abbandonata a favore della neutralizzazione, e lo stigma dell’incarcerazione si è approfondito e diffuso in modi che lo rendono simile al disonore razziale. La risultante simbiosi tra iper-ghetto e prigione perpetua la marginalità socioeconomica e la contaminazione simbolica del sottoproletariato nero, alimentando la crescita incontrollata del sistema carcerario. Ma essa gioca anche un ruolo fondamentale nella ristrutturazione della “razza”, associando la blackness alla violenza endemica e alla pericolosità (Wacquant 2005), nella ridefinizione della cittadinanza attraverso la produzione di una cultura pubblica razzializzata di disprezzo verso i criminali, e nella costruzione di uno stato post-keynesiano che sostituisce il trattamento sociale della povertà con il suo contenimento penale.

Il nesso tra workfare e prisonfare

Tuttavia, il legame sempre più stretto tra iper-ghetto e prigione non racconta l’intera storia della frenetica espansione del sistema penale in America dopo la rivoluzione dei diritti civili. In Punire i poveri (2006) dimostro che la crescita incontrollata di un vorace apparato carcerario dopo la metà degli anni Settanta rientra in un più ampio processo di ristrutturazione dello stato, orientata a criminalizzare la povertà e le sue conseguenze come strumento per imporre l’impiego precario e sottopagato quale condizione lavorativa normale per i settori dequalificati del proletariato postindustriale. L’improvvisa ipertrofia dello stato penale è stata così accompagnata e integrata da un’atrofizzazione pianificata dello stato sociale, culminata con la legge di riforma del 1996 (PRWORA: Personal Responsibility and Work Opportunity Reconciliation Act) che ha sostituito i diritti del “welfare” con gli obblighi del “workfare”. Ciascuno a proprio modo, il workfare e il prisonfare rispondono non soltanto alla crisi del ghetto quale strumento di segregazione socio-spaziale degli afroamericani, ma anche al ripudio del paradigma lavoro-salario fordista e del compromesso keynesiano del secondo dopoguerra. Insieme, essi intrappolano le popolazioni marginali della metropoli in una rete carceraria-assistenziale designata a sospingerli verso l’impiego deregolato attraverso il condizionamento morale e la pressione materiale, e – qualora si dimostrino eccessivamente recalcitranti e indisciplinati – a confinarli nelle devastate zone centrali della Black Belt urbana e nei penitenziari che di quella sono divenuti satelliti diretti anche se distanti.

La rivoluzione del workfare e l’esplosione penale costituiscono due facce della stessa medaglia storica, due aspetti della riorganizzazione e mascolinizzazione dello stato in direzione del consolidamento di un nuovo regime politico che potrebbe essere definito come liberal-paternalista: esso pratica il laissez-faire verso l’alto, nei confronti delle corporation e delle classi privilegiate, ma è invadente e disciplinare verso il basso, quando si tratta di gestire le conseguenze del disinvestimento sociale e della deregolazione economica tra le classi subordinate e i loro territori. E proprio come lo stigma razziale è stato fondamentale per la congiunzione tra iper-ghetto e prigione, l’onta della blackness è stata centrale per la ristrutturazione restrittiva e punitiva del welfare alla fine del XX secolo. Sullo sfondo delle rivolte dei ghetti degli anni Sessanta, la diffusione di immagini razzializzate della criminalità ha alimentato una crescente ostilità nei confronti dei criminali e ha intensificato il sostegno (bianco) a politiche carcerarie espansive, selettivamente improntate a una penalità neutralizzante e retributiva (Irwin 1980). Durante gli stessi anni, la diffusione di immagini altrettanto razzializzate di povertà urbana e dipendenza dal welfare ha a sua volta alimentato un crescente risentimento verso l’assistenza pubblica, rafforzando il sostegno (bianco) a misure di welfare restrittive improntate alla deterrenza e alla coercizione (Gilens 1999; Schram et al. 2003). La razza emerge come perno simbolico intorno al quale ha ruotato la sinergica trasformazione di questi due settori della politica pubblica verso i poveri[16].

Ancora una volta, come la congiunzione tra iper-ghetto e prigione, questo secondo accoppiamento istituzionale che alimenta la crescita carceraria può essere meglio compreso se si pone attenzione alle somiglianze strutturali, funzionali e culturali tra il workfare e il prisonfare quali “organizzazioni per il trattamento di persone” (Hasenfeld 1972) focalizzate su popolazioni e aree urbane problematiche. Tale accoppiamento è stato rinsaldato dalla trasformazione del welfare in senso punitivo e dall’espansione del sistema penale per poter “trattare” una parte sempre più ampia della tradizionale clientela del welfare. Entrambi questi programmi di intervento statale sono selettivamente orientati al fondo della gerarchia etnica e di classe; entrambi partono dal presupposto che i loro destinatari siano “colpevoli fino a prova contraria” e che la loro condotta debba essere rigorosamente controllata e corretta mediante misure restrittive e coercitive; ed entrambi ricorrono alla deterrenza e allo stigma per produrre un cambiamento comportamentale.

Nell’era del capitale iper-mobile e del lavoro salariato frammentato, la sorveglianza dei segmenti più precari della classe operaia non è più esercitata esclusivamente dal braccio sociale “materno” del welfare, come descritto da Piven e Cloward (1971) nel loro classico studio Regulating the Poor. Essa comporta invece una duplice regolazione attraverso il braccio virile del workfare e del prisonfare che agiscono all’unisono. Questo accoppiamento dinamico tra politica sociale e penale alla base della struttura etnica e di classe opera mediante una consueta divisione del lavoro tra i sessi: la burocrazia dell’assistenza pubblica, riconvertita in un trampolino verso l’impiego per salari da povertà, si assume il compito di inculcare l’imperativo del lavoro nelle donne povere (e indirettamente nei loro figli), mentre il quartetto penale formato dalla polizia, dalle corti, dalla prigione e dagli agenti di parole e probation si fa carico di controllare i loro uomini – vale a dire i fidanzati, mariti, fratelli e figli di quelle donne. Il welfare e la giustizia penale sono animati dalla medesima filosofia paternalista e punitiva che sottolinea la “responsabilità individuale” dell’“utente”; entrambi si basano sul controllo e la sorveglianza burocratica, la deterrenza, lo stigma e sanzioni graduate volte a modificare il comportamento per imporre l’adesione al lavoro e alle regole; ed entrambi raggiungono popolazioni di dimensioni paragonabili: nel 2001, 2,1 milioni di famiglie hanno ricevuto il sussidio TANF (Temporary Assistance to Needy Families) per un totale di circa 6 milioni di beneficiari, mentre la popolazione carceraria ha raggiunto i 2,1 milioni e lo stock complessivo di popolazione sotto supervisione del sistema penale ha superato i 6,5 milioni di individui.

Inoltre, i beneficiari di welfare e i detenuti presentano un profilo sociale quasi identico, oltre a estesi rapporti di parentela o consanguineità che confermano che si tratta delle due componenti di genere della stessa popolazione. Entrambe le categorie vivono sotto il 50 per cento della soglia di povertà (questo è vero rispettivamente per metà e due terzi di esse); entrambe sono in misura sproporzionata afroamericane e ispaniche (37 per cento e 18 per cento per la prima, 41 per cento e 19 per cento per la seconda); la maggioranza non ha completato la scuola superiore e molti soffrono di gravi disabilità fisiche e mentali che ne limitano la partecipazione al lavoro (il 44 per cento delle madri assistite e il 37 per cento dei detenuti). Infine, queste popolazioni sono strettamente connesse tra loro da legami familiari, coniugali e sociali, e affrontano i medesimi magri orizzonti di vita. Tutto questo significa che non possiamo sbrogliare la matassa di classe, razza e incarcerazione – e quindi spiegare l’iperincarcerazione – se non riconnettiamo prisonfare e workfare, il che a sua volta significa che dobbiamo ricondurre all’interno del nostro sguardo analitico e politico il settore sociale dello stato con le sue trasformazioni.

Coda: invertire il revanchismo

Il revanchismo come politica pubblica verso la marginalità sociale ha portato il paese in un vicolo cieco storico, poiché il duplice accoppiamento tra iper-ghettizzazione e iperincarcerazione da una parte, e tra workfare e prisonfare dall’altra, danneggiano tanto la società quanto lo stato. Per la società, la spirale dell’escalation penale è diventata un meccanismo autoalimentato e autodistruttivo: il moloch carcerario destabilizza i settori più precari del proletariato postindustriale su cui si concentra con tanto zelo, tronca le opportunità di vita dei suoi membri e impoverisce ulteriormente i quartieri dell’inner city, riproducendo così gli stessi disordini sociali, la stessa insicurezza materiale, e lo stesso stigma simbolico che esso è supposto alleviare. Di conseguenza, la popolazione dietro le sbarre ha continuato a crescere anche se il tasso di criminalità complessivo è calato precipitosamente per circa quindici anni, determinando una paradossale situazione di levitazione carceraria. Per lo stato la penalizzazione della povertà si rivela finanziariamente disastrosa, poiché essa compete con (e finisce per consumare) i fondi e le dotazioni di personale necessari a sostenere servizi pubblici essenziali come la scuola, il sistema sanitario, i trasporti e la protezione sociale. Inoltre, la logica punitiva e panottica che ispira il sistema penale infiltra ed erode le difese del settore sociale – per esempio, ridefinendo le pratiche dei servizi di assistenza all’infanzia in modo tale da trasformare tali servizi in succursali dell’apparato penale (Roberts 2000). Analogamente, tale logica compromette il settore dell’istruzione, nella misura in cui le fatiscenti scuole dell’inner city che servono una clientela travolta dalla disoccupazione di massa e dalla destrutturazione penale tendono a dare priorità alla disciplina degli studenti attraverso un ampio ventaglio di misure di controllo penale (Hirschfeld 2008). Infine, lo spauracchio di “legge e ordine” distoglie l’attenzione dei rappresentanti eletti e prosciuga le energie dei manager delle burocrazie incaricate di gestire le popolazioni e i territori problematici della città duale.

Se la diagnosi dell’ascesa dello stato penale americano tracciata qui è corretta, e l’iperincarcerazione che procede lungo rigide direttrici di classe, razziali, e spaziali (anziché l’incarcerazione di massa) rappresenta il germoglio di un nuovo governo dell’insicurezza sociale, innestato per assorbire lo shock del crollo del ghetto e normalizzare il lavoro salariato precario, allora le politiche orientate a ridurre lo stato carcerario devono essere capaci di invertire il revanchismo. Esse devono cioè andare ben oltre la riforma del sistema di giustizia penale per includere il vasto assortimento dei programmi governativi che nel loro insieme determinano le chance di vita dei poveri, e la cui simultanea inversione verso la disciplina e la coercizione dopo la metà degli anni Settanta ha accresciuto l’incidenza, l’intensità, e la durata della marginalità sociale alla base dell’ordine etnico e di classe (Wacquant 2008a, 69-91, 280-287).

Diverse proposte convincenti per ridurre l’eccessivo ricorso alla reclusione quale strumento per controllare le conseguenze della deprivazione e della stigmatizzazione urbana, sono state presentate sul fronte della politica penale nel corso dell’ultimo decennio (Tonry 2001b; Roberts 2005; Jacobson 2005; Gottschalk 2005; Mauer 2006; Austin e James 2007). Esse includono la reintroduzione delle sanzioni intermedie, la previsione di pene alternative al carcere per gli autori di reati minori legati agli stupefacenti, l’abolizione dei minimi di pena obbligatori e la riduzione generalizzata dei termini di incarcerazione, la riforma delle procedure di revoca della parole, l’incorporazione di valutazioni di impatto fiscale e sociale all’interno delle procedure giudiziarie, e la promozione della mediazione penale. Indipendentemente dai mezzi tecnici che si scelgono, il conseguimento di una reale deflazione penale richiederà un isolamento degli operatori del sistema giudiziario e correzionale rispetto alle pressioni convergenti dei mass media e dei politici, e un recupero della filosofia riabilitativa mediante una campagna pubblica capace di contrastare il mito conservatore secondo cui “niente funziona” quando si tratta di reinserire socialmente gli autori di reato[17].

Una profonda e ampia riforma della giustizia è urgente per ridurre i costi finanziari astronomici, le conseguenze sociali e amministrative asimmetriche e gli effetti criminogeni a catena dell’iper-incarcerazione. Ma misure generiche per ridurre le dimensioni e la portata della prigione lasceranno ampiamente intatto l’epicentro della crescita carceraria – il deserto urbano nel quale razza, classe e stato penale si incontrano e si intrecciano – a meno che non siano combinate con un attacco concertato alla degradazione del lavoro e alla desolazione sociale nell’iper-ghetto in decadenza. Affinché questo accada, il ridimensionamento del settore penale deve essere accompagnato dalla ricostruzione delle capacità economiche e sociali dello stato e dal loro attivo dispiegamento all’interno e nei dintorni dei distretti devastati della metropoli segregata. La fatiscenza programmata delle istituzioni pubbliche nell’inner city dev’essere contrastata attraverso un enorme investimento nelle scuole, nei servizi sociali, nell’assistenza sanitaria e nell’accesso incondizionato ai programmi di disintossicazione dalla droga e dall’alcol. Un programma di lavori pubblici in stile WPA[18] rivolto a quel che rimane della storica Black Belt contribuirebbe a ricostruirne la fatiscente infrastruttura, a migliorare le condizioni abitative al suo interno e a favorire l’integrazione civica dei suoi residenti[19].

In definitiva, la diagnosi dell’iper-incarcerazione significa che imporre un’inversione di rotta al gigantesco e vorace stato penale americano richiederà più che un impegno politico senza quartiere nella lotta alla disuguaglianza sociale e alla marginalità etnica, attraverso programmi di governo progressivi e inclusivi sul fronte economico, sociale e legale. Un tale progetto richiederà anche politiche spazialmente orientate, capaci di rompere il terribile nesso che oggi tiene insieme iper-ghettizazione, workfare restrittivo e prisonfare espansivo nel cuore della metropoli razzializzata.

 

* Capitolo del libro Iperincarcerazione. Neoliberismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti (ombre corte, 2013).

 


[1] Si veda Smith (1996, 42) per una stimolante discussione sul concetto di revanche nel senso di una “viscerale ed estesa reazione multiforme, all’interno del discorso pubblico, contro il liberalismo del periodo post-anni Sessanta, e di un attacco frontale alla struttura politico-sociale derivata dal New Deal e dal secondo dopoguerra”; si veda anche Flamm (2008) per un resoconto dettagliato del modo in cui la commistione tra tumulti razziali, protesta contro la guerra, disordini civili e criminalità di strada ha gettato le basi per la domanda politica di “legge e ordine” sullo sfondo delle turbolenze razziali e di classe degli anni Sessanta.

[2] Il tenore vendicativo e i caratteri marcatamente razzializzati della campagna di “pulizia di classe” nelle strade avviata da Giuliani, sono efficacemente descritti da Neil Smith (1998).

[3] In termini assoluti, le dimensioni del sistema carcerario locale americano collocano il paese in una categoria a sé. Nel 2000, le tre maggiori strutture detentive del mondo occidentale erano le prigioni di contea di Los Angeles (23.000 detenuti), New York (18.000) e Chicago (10.000). Per un confronto, si pensi che il più grande istituto penitenziario europeo – la prigione di Fleury-Merogis a sud di Parigi – ospita 3.900 detenuti ed è considerata grottescamente sovradimensionata per gli standard europei.

[4] L’ultimo studio da vicino del funzionamento quotidiano di una prigione metropolitana e del suo impatto sui poveri urbani – l’intensa etnografia della prigione di San Francisco scritta da John Irwin (1984) – risale ormai a trent’anni fa.

[5] Il database nazionale del DNA proveniente dalle scene del crimine, da persone “note alla polizia” e da (ex) detenuti, compilato dall’FBI grazie al programma Combined DNA Index System (CODIS) è più che raddoppiato solo negli ultimi cinque anni, raggiungendo la cifra di 8 milioni di profili genetici. La sua espansione verticale, alimentata dall’innovazione tecnologica e da imperativi organizzativi, sta dando origine a una nuova “rete razzializzata” gettata prima di tutto contro i maschi neri di classe inferiore a causa della loro drammatica sovra-rappresentazione tra le persone fermate dalla polizia (Duster 2010).

[6] Per un’analisi approfondita delle ramificazioni delle difficoltà degli ex detenuti al di fuori delle mura del carcere, si veda Comfort (2007).

[7] “La guerra alla criminalità – con il suo immaginario costitutivo, fondato sulla sovrapposizione tra le città in fiamme per i riot urbani degli anni Sessanta e la faccia di Willie Horton come emblema dell’uomo nero assassino e stupratore di donne bianche – ha dapprima ridisegnato le affiliazioni partitiche, e successivamente gli stessi partiti, nel momento in cui la guerra ha iniziato a essere appoggiata e promossa rumorosamente tanto dai Repubblicani quanto dai Democratici” (Frampton et al. 2008: 7).

[8] Ironicamente, il concetto è stato introdotto per la prima volta non nel dibattito statunitense sulle prigioni, bensì in Europa occidentale dallo studioso e operatore del sistema giudiziario Jean-Paul Jean (1995) nel contesto di una discussione sull’“incarcerazione di massa dei tossicodipendenti” nelle prigioni francesi. (A mia volta ho utilizzato il termine in diverse pubblicazioni tra il 1997 e il 2005; dunque, la revisione concettuale qui proposta costituisce in parte un’autocritica).

[9] Indubbiamente, Garland (2001) individua due “caratteristiche essenziali” che definiscono l’incarcerazione di massa: “i numeri assoluti” (vale a dire, “un tasso di incarcerazione e una dimensione della popolazione carceraria nettamente al di sopra della media storica e comparata per società di questo tipo”) e “la concentrazione sociale degli effetti dell’incarcerazione di massa, quando essa diventa l’incarcerazione di interi gruppi di popolazione”, in questo caso “giovani maschi neri residenti nei grandi centri urbani”. Ma non è chiaro perché il primo aspetto non sia sufficiente a caratterizzare il fenomeno, e cosa significhi “nettamente al di sopra”. Inoltre, esiste una contraddizione logica tra le due caratteristiche dell’estensione di massa e dell’impatto concentrato (nessun altro fenomeno di massa “beneficia” una popolazione ristretta e ben definita). Infine, Harcourt (2006) ha evidenziato che gli Stati Uniti esibivano tassi di detenzione superiori a 600 per 100.000 residenti tra il 1938 e il 1962, se si uniscono le statistiche penali e quelle sulle istituzioni psichiatriche. Questi problemi concettuali suggeriscono che la caratterizzazione di massa sia una designazione ad hoc elaborata induttivamente per adattarsi alle peculiarità delle tendenze carcerarie statunitensi alla fine del secolo (“un nuovo concetto per descrivere un fenomeno completamente nuovo”).

[10] La metafora marziale della “guerra alla criminalità” ha analogamente pregiudicato l’analisi delle trasformazioni e del funzionamento della politica criminale. Questa designazione guerresca – utilizzata tanto dai sostenitori quanto dai critici dell’espansione carceraria – è fuorviante sotto un triplice profilo: rappresenta misure civili rivolte ai cittadini come una campagna militare contro nemici stranieri; presuppone che si tratti di combattere “la criminalità” in generale, quando invece la campagna si rivolge a una ristretta tipologia di illegalità (reati di strada che avvengono nelle zone segregate e povere della città); astrae il sistema di giustizia penale dal più ampio processo di ridefinizione dello stato, che include la simultanea restrizione del welfare ed espansione del prisonfare.

[11] L’unica eccezione a questa regola di classe si verifica nei paesi (e nei periodi) in cui la prigione è utilizzata estensivamente come strumento di repressione politica (Neier 1995).

[12] Le donne nere di classe povera seguono immediatamente come categoria con la più rapida crescita dell’incarcerazione negli ultimi vent’anni, con la conseguenza che vi sono più donne afroamericane dietro le sbarre del numero totale di donne incarcerate nell’intera Europa occidentale. Ma la loro incarcerazione si profila in larga parte come effetto collaterale del dispiegamento aggressivo di politiche penali rivolte prima di tutto ai loro partner, familiari e vicini (gli uomini costituiscono il 94 percento di tutti i detenuti della nazione). In ogni caso, il numero di donne in carcere impallidisce a confronto dei milioni di fidanzate e mogli di detenuti che subiscono gli effetti della “carcerizzazione secondaria” generati dallo status legale del loro partner (Comfort 2008).

[13] “Index crimes” sono le otto fattispecie di reato (omicidio volontario, stupro, rapina, lesioni gravi, furto con scasso, furto oltre $50, furto d’auto, incendio doloso) utilizzate dall’FBI per compilare le proprie statistiche annuali sulla criminalità [N.d.T.]

[14] L’incremento di questo indice di punitività è del 299 percento per “crimini violenti” a fronte del 495 percento per gli “index crimes” (che uniscono reati violenti e le principali categorie di crimini contro la proprietà), il che conferma che lo stato penale è diventato più severo soprattutto contro i reati meno gravi, e confina in prigione un numero di delinquenti marginali molto più elevato che in passato.

[15] “Rust Belt” è un termine invalso negli anni Ottanta per descrivere un’area geografica del territorio statunitense che comprende gli stati del nord-est e del Midwest, le cui economie sono state tradizionalmente caratterizzate dalla presenza di un ampio settore manifatturiero-industriale. Il termine “Sun Belt” descrive invece le regioni del Sud e del sud-ovest degli Stati Uniti [N.d.T.]

[16] Nei dibattiti giornalistici e politici che hanno portato all’abolizione del welfare nel 1996, tre figure razzializzate hanno fornito incarnazioni sensazionalistiche della “cultura della dipendenza”: l’eccentrica e furba “welfare queen”, l’immatura e irresponsabile “madre-teenager”, e l’inconcludente e disoccupato “padre nullafacente”. Tutte e tre queste figure sono state utilizzate come descrizioni stereotipe di residenti afroamericani dell’inner city degradata.

[17] Contrariamente al senso comune diffuso, la ricerca ha ampiamente dimostrato la superiorità della riabilitazione rispetto alla retribuzione: “Nella migliore delle ipotesi, le sanzioni e la supervisione esibiscono modeste riduzioni nei tassi di recidiva, e in alcuni casi producono l’effetto opposto, aumentando i tassi di criminalità. Gli effetti sulla recidiva riscontrati negli studi sulla riabilitazione, al contrario, sono stabilmente positivi e relativamente significativi” (Lipsey e Cullen 2007, 297). La circostanza che anche i criminali incalliti possano trasformarsi e cambiare la propria esistenza è illustrata da Maruna (2007); il fatto che persino gli ergastolani detenuti per omicidio possano trovare la via della redenzione è dimostrato da Irwin (2009).

[18] La WPA (Works Project Administration) era la principale agenzia di lavori pubblici del New Deal, specializzata nella costruzione di infrastrutture pubbliche quali ponti e strade, e nella realizzazione di progetti di interesse pubblico nei settori dell’istruzione, della cultura, delle arti ecc. [N.d.T.].

[19] Si vedano le convincenti argomentazioni di Pattillo (2008) a favore di un immediato “investimento nei quartieri neri poveri qui e ora” invece di perseguire strategie a lungo termine di dispersione o commistione etnica, che sono inefficaci e dannose per i bisogni urgenti e gli interessi specifici delle minoranze povere urbane.