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Corporate open source – Proprietà intellettuale e lotta sul valore

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di CHRISTOPHER NEWFIELD

Ho iniziato a preoccuparmi per il destino dell’open source quando il mondo del business ha smesso di guardarlo con sospetto e ha imparato ad amarlo. Nella mia storia il punto di svolta è stato nel 2003, a una festa organizzata a Parigi dalla moglie di un manager e pubblicitario americano di base in città. Anzitutto è bene chiarire alcuni particolari della festa e del luogo in cui è avvenuta, perché può già far cogliere il momento in cui i sistemi d’innovazione aziendali hanno catturato l’open source dando adito alle battaglie per una sua alternativa.

Nel 1998, non ero per nulla preoccupato del futuro dei software open source (OSS), in quanto si potevano tracciare delle linee molto chiare tra progetti diversi quali lo GNU Project di Richard Stallman e la versione open source di Apache, da una parte, e, dall’altra, gli interessi aziendali che hanno facilitato in quello stesso anno l’implementazione del Digital Millenium Copyright Act (DMCA) e il Copyright Term Extension Act. Questi ultimi – pensavo – erano degli imponenti movimenti nelle retroguardie, finanziati da monopolisti interessati a raccogliere rendite sia dalle creazioni del passato, sia al fine di riscuotere in futuro le imposte pagate dai creatori di oggi e di domani. Nonostante abbiano vinto quelle battaglie, stanno per perdere la guerra.

Infatti le sconfitte politiche per l’open source e il software libero hanno ispirato teorie e azioni nuove. Gli Halloween Documents di Microsoft sull’open source, il primo dei quali è stato rilasciato nell’ottobre del 1998, erano un tributo alla minaccia che l’open source poneva al software commerciale. Lì si dichiarava che Microsoft non avrebbe potuto mai raggiungere la potenzialità creativa della collaborazione tra commons.

Fu così che l’interesse verso l’open source crebbe e nuovi sviluppi infiammarono la creazione dell’Open Source Development Lab (2002), aiutando il supporto a Linux, la fondazione del Creative Commons Project (2001), il movimento Free Culture di Lawrence Lessig, il boom nelle azioni legali (e non) condotte dalla Electronic Frontier Foundation, e altri aspetti del rinascimento del pensiero e dell’organizzazione dell’open source incoraggiato da questi assalti legislativi.

Attorno al 2000, un “soffio di glasnost” arrivò persino dai campus delle università americane, infiltrandosi nei loro uffici di trasferimento (OTT) o di patenti tecnologiche (OTL) – meglio conosciuti nel Regno Unito sotto il nome di “trasferimenti tecnologici”, o Office of Intellecutal Property and Industry Alliance con base a Berkeley, California. Inizialmente, l’era forte dei diritti di proprietà intellettuale (IPR) avvolse il mondo no-profit delle università nella legislazione sui brevetti conosciuto come Bayh-Dole Act del 1980 (con relativa legislazione e ordini esecutivi sul punto di apparire qualche anno dopo). La maggior parte delle università ha (sovra)interpretato questa legislazione circa il dovere di imporre la proprietà istituzionale sulle invenzioni di tutti i propri impiegati, brevettando e autorizzando il maggior numero possibile di licenze in grado di generare profitti da diritto d’autore (royalty revenues). Fu così che un numero esiguo di brevetti profittevoli ispirò tutta l’accademia a entrare – negli ottanta e oltre – dentro questa spirale, usando il volume di brevetti e di profitti d’autore come indicatori del successo dei propri dipartimenti tecnologici, e finendo così per valutare la qualità della ricerca solo sulla base delle facoltà scientifiche. Tuttavia, solo una parte dei brevetti stava macinando tutti i quattrini, mentre i profitti d’autore costituivano una piccola frazione di tutti gli introiti in gioco. L’università della California, per esempio, uno dei più grossi brevettatori su scala nazionale, ricevette il 67 per centro delle royalties unicamentedai suoi top-5 brevetti e l’85 per cento dai primi 25. Le università americane di maggior successo ricevono in genere tra lo 0.5 e il 3 per cento dei loro introiti lordi di ricerca sotto forma di entrate addizionali sui profitti d’autore, mentre i dividendi vanno agli investitori, e i budget per la ricerca rimangono ben più ristretti di questi.[1]

Così, nel decennio a doppio zero, dopo alcuni anni passati a osservare ritorni assai modesti e ad ascoltare muti le proteste contro l’inserimento dell’analisi dati commerciali nel progresso scientifico, una parte del personale iniziò a invocare un uso maggiore delle licenze del tipo NERF (non esclusive e prive di diritti) che avrebbero avuto come obiettivo quello di supportare le piattaforme di sviluppo e la ricerca comunitaria, minimizzando allo stesso tempo la ricerca del brevetto delle meraviglie. Prima del party parigino del 2003, sono stato coinvolto in numerosi comitati universitari e per alcuni anni nelle delibere sul giusto bilancio tra apertura e chiusura da attribuire ai regimi di proprietà intellettuale (IP).

Il relativismo della proprietà intellettuale

Uno dei miei amici lavorava a contratto come avvocato per Microsoft, sbrigando tutte le questioni che coinvolgevano i partner commerciali in suolo francese. Mi aspettavo che guardasse con sospetto al fatto che io, invece, stavo favorendo la trasmissione dell’open source. Sorprendentemente accadde il contrario. “L’open source è incredibile”, dichiarava entusiasta, “sto giusto lavorando alla compilazione di un report a proposito, identificando tutte le varietà presenti in Europa”. “Ma scusa, Microsoft non vuole opporsi a tutto ciò?”, domandai. “Non esattamente”, fu la replica. “Microsoft sta diventando una società open source”.

Una volta rientrato il mio stupore, discutemmo a fondo sul cambio di strategia messo in opera da Microsoft, passando da un uso “esclusivo” a uno “inclusivo” delle proprietà intellettuali. A quel tempo non ne ero a conoscenza ma Microsoft stava ricalibrando la sua politica di rivendicazione militante nei confronti dei suoi competitori e dei suoi simili. Qualche mese prima della nostra conversazione, Microsoft aveva assunto il leggendario dirigente IBM e avvocato Marshall Phelps che negli anni novanta prese il controllo del gigantesco portafoglio societario trasformando i brevetti in uno dei pezzi più importanti della macchina da profitti IBM – 1.9 miliardi di dollari per l’anno 2000.[2] Il mantra di Phelps era la “collaborazione imperativa” nonostante alcune società stessero usando i brevetti per bloccare, escludere o intralciare i propri rivali; era da tempo, infatti, che persino una compagnia come IBM non riuscisse a fare o vender nulla senza il rilascio o l’acquisto di centinaia di licenze e autorizzazioni. Nel 1993 la squadra guidata da Phelps dimostrò tutto ciò al nuovo direttore IBM ponendo piccole bandierine sui componenti non IBM di un laptop prodotto in casa. Dovettero smettere a 150, una volta raggiunto il limite fisico a loro diposizione per le bandierine. Gli anni novanta rappresentarono per Phelps il periodo delle pratiche legali e dell’inseguimento strategico della realtà manifatturiera, trattando le IP non più come armi per contrastare le altre compagnie ma come bene finanziario in grado di veicolare la collaborazione con altre compagnie.[3]

Certo è che né Phelps, né tantomeno Microsoft, IBM o il mio amico dei cocktails parigini si stavano convertendo all’open source. La continua corsa al brevetto organizzata da Apple è una chiara prova che né l’America aiendale né il capitalismo nel suo insieme hanno deciso di dischiudere gli intellectual commons. Compagnie e avvocati stavano ciononostante riconoscendo una vera e propria sovrapposizione tra forme societarie di tipo open con quelle chiuse, che fino agli anni ottanta e novanta erano state collocate ai due poli opposti della prospettiva politica dominante secondo cui “condividere è rubare”.[4] Queste grandi imprese stavano concentrandosi sempre più sulla collaborazione se non addirittura sui commons. Il loro uso del concetto di un “ecosistema” innovativo era abitualmente legato al nome di una compagnia, ad esempio “l’ecosistema Microsoft”, che incrementerebbe il valore della maternità intellettuale nell’includere più compagnie che costruiscono Microsoft nei loro prodotti piuttosto che escludendole. Il mio interrogativo, dopo quel party a Parigi come un veterano di trasferimenti tecnologici e comitati di vigilanza sui conflitti d’interesse, era il seguente: come era possibile ricevere più apprezzamenti dagli avvocati di Microsoft che non dai miei colleghi universitari sul potere dei software open source?

La risposta semplice consta di tre parti. La prima è che gli avvocati concordavano con i teorici del business management, in particolare nella figura di Henry Chesbrough e del suo libro Open Innovation del 2003, che la conoscenza passava da essere “scarsa” ad “abbondante” e nessuna società avrebbe potuto controllare questo processo. Una diretta conseguenza fu l’ambiente iper-competitivo in cui le compagnie hi-tech si trovavano ad operare, e che quasi aveva distrutto IBM o altri giganti come Xerox, Polaroid, Kodak e altri ancora. L’unica soluzione era imparare a gestire l’innovazione, non a contrastarla. In secondo luogo, essi riconobbero la qualità assoluta dei codici in scrittura su queste nuove piattaforme, in un processo tipicamente “bottom-up”, non gerarchico, di reti decentralizzate fatte di persone che non pensavano al puro ritorno economico.[5] In terzo luogo, in questo modo essi avrebbero potuto tracciare il confine tra IP libere e private. Le compagnie, ha spiegato in dettaglio Chesbrough, dovettero definire questo confine attraverso l’interpretazione dei prodotti e degli ambienti in cui emergevano. Un’invenzione che ha aiutato a definire uno standard, una piattaforma o un “ecosistema” di settore, sarebbe finita per essere di dominio pubblico. Un’invenzione, invece, che aggiungerebbe un valore esclusivo alla linea di prodotti aziendale si sarebbe dovuta assicurare in modo tradizionale. L’azienda ha dovuto imparare a leggere il mercato e il singolo valore legato alla compagnia, scandagliando caso per caso tutta l’offerta messa a disposizione dai vari regimi di proprietà a disposizione. Un buon IP manager era un bravo relativista in quanto a valore. Sapeva distinguere quando costruire ponti tra le parti, o quando, invece, era il momento di cacciare o querelare qualcuno.

Ecosistemi aziendali

Uno dei sintomi maggiori di questo salto può essere individuato nelle clausole sull’IP dell’attuale generazione di fornitori di corsi online. Non c’era niente di immediatamente cangiante, pedagogicamente, sul lato della tecnologia disponibile negli anni novanta, fino a che un numero maggiore di università americane offrì corsi online gratuiti (uno degli esempi maggiori fu l’OpenCourseWare Consortium del MIT), o si impadronì di società che erano sul punto di fare profitti.

Le esperienze delle imprese commerciali online (ventures) attrassero il supporto ufficiale dei capitali finanziari ad un buon numero di università: New York University, University of British Columbia, University of Maryland, Temple University, Columbia University, e la loro sussidiaria, la Columbia Digital Knowledge Ventures, crearono assieme la più famosa di queste compagnie, Fathom, per entrare dentro la potenzialità gigantesca del mercato dell’ “apprendimento permanente” presumibilmente pronto ad avvalersi dell’istruzione a distanza. Tutti i nomi appena citati fallirono.

L’autopsia indicò tra le cause pesanti perdite finanziarie, che furono effettivamente considerevoli.[6] L’attenta analisi di David F. Noble sul fallimento della UCLA di lanciare la propria versione chiamata Home Education Network suggerisce che i conflitti sulla proprietà intellettuale giocarono un ruolo centrale.[7] Nel suo tentativo di lanciare i propri corsi, la UCLA insistette nel voler assicurare che tutti i contenuti eventualmente prodotti sarebbero stati di sua proprietà. Gli insegnanti che in un primo momento avevano espresso interesse per l’iniziativa finirono per rifiutare queste clausole. I manager non facevano che applicare gli approcci standard alla questione richiedendo che fosse garantita la proprietà aziendale della produzione dei suoi impiegati, pratica assai comune e ortodossa nel knowledge management. Ma la facoltà fece resistenza. La combinazione di una domanda debole da parte dei clienti e la lotta per la paternità delle IP condannò la UCLA ad un’uscita, fatto che può aver avuto un impatto negativo nella scomparsa di altre aziende online.

Nel 2012, quando i Massive Open Online Courses (MOOC)invasero il mondo dell’istruzione, gli arrangiamenti con i punti di riferimento di ciascuna facoltà riflettevano il salto verso l’open source nel mondo del for-profit. I docenti partecipanti non possono concentrarsi su dei tornaconti personali in termini di IP, in quanto posseggono ben poco, se non niente, di quel reddito personale. Il compenso di 10,000 o 20,000 dollari che Coursera, attuale leader del settore, generalmente rilascia all’istruttore è uno stipendio che verrà usato interamente nell’assistenza alla produzione.[8] Al contrario, il loro corso è usato con il fine di creare collaborazioni che gli sponsor aziendali definiscono come sforzo verso la trasformazione sociale. In tale prospettiva, un contratto Courserache ho ottenuto con un’importante università di ricerca suggerisce che gli accordi sulle IP saranno aperti – come sulla scia del caso Microsoft. [9]

Il contratto riposa sul principio della “non-esclusività”, in cui Coursera e l’università contraente possono rispettivamente “ospitare, distribuire o rendere altrimenti disponibile” “i suoi contenuti” o quelli di una terza parte. “L’università concede alla Società una licenza non esclusiva, valida in tutto il mondo per riprodurre, distribuire” il suo contenuto (sottolineatura aggiunta). Nella clausola etichettata 'Proprietà intellettuale', il paragrafo sui 'Contenuti' recita:

Tutti i diritti, titoli e interessi che si riferiscono ai contenuti creati da docenti o università e forniti alla Società ai sensi del presente accordo e tutti i diritti di proprietà intellettuale ad esso relative rimarranno con il docente e l'università del caso, tranne che tutti i diritti, titoli e interessi relativi ai miglioramenti apportati dalla Società al contenuto sotto forma di traduzioni, adattamenti, sottotitoli, codifica, le trascrizioni o annotazioni video di prodotti in risposta alle richieste di accessibilità ("miglioramenti del contenuto") saranno di proprietà esclusiva della Società.[10]

In contrasto con la pratica delle IP online di 10-15 anni fa, il docente manterrà la proprietà della sua maternità intellettuale (sempre che possa strapparla dalla sua università, che è un altro discorso). Non vi è alcuna appropriazione del contenuto di un autore al di fuori di questa società. Coursera non sventola le classiche bandiere rosse impossessandosi delle IP del docente.

La seconda parte della frase è altrettanto importante. Tutti i contributi di Coursera sono di proprietà di Coursera. A prima vista sembra essere tutto nella norma: “a ciascuno secondo il suo contributo”, che è uno standard comune nei contratti aziendali. Ma dal momento che il prodotto è un MOOC, che dipende da “adattamenti, sottotitoli, codifica, trascrizioni" e "annotazioni video”, il docente che ha creato il corso non può effettivamente utilizzare il suo contenuto nonostante la partnership con Coursera. La ritenzione individuale del contenuto come tale ha scarso valore pratico. Il valore commerciale della singola proprietà intellettuale esiste solo nel contesto dell’ecosistema business Coursera. Questo è considerato normale in un'economia della conoscenza.

Questo problema diventa ancor più evidente nel paragrafo successivo sulla piattaforma:

Tutti i diritti, titoli e interessi relativi alla piattaforma, la relativa documentazione, il Sito della Società e di tutti gli aggiornamenti, modifiche, miglioramenti, miglioramenti, aggiornamenti o correzioni loro e qualsiasi funzione di valutazione tali allegati, e tutti i diritti di proprietà intellettuale relativi saranno esclusivamente di proprietà della Società.

Nonostante l'Università manterrà la proprietà esclusiva di “qualsiasi software, interfacce o le funzioni di valutazione creati o sviluppati esclusivamente dall’Università o da un docente, e dei diritti di proprietà intellettuale a essi", il paragrafo continua concedendo a Coursera una “licenza non esclusiva e priva di diritto d’autore” di utilizzare una qualsiasi di queste università o elementi docente-autore. Tu hai la tua proprietà, ma noi, Coursera, possiamo utilizzarlo gratuitamente. Coursera ha istituito in corso d’opera delle IP come se fosse non-rivale, in piena moda open source. Commercializzerà questa IP nel proprio interesse finanziario.

Il contratto Coursera è un ottimo esempio di ciò che nell’economia della conoscenza potremmo chiamare corporate open source nell’era dell’innovazione aperta. I singoli elementi possono essere di proprietà di partner commerciali, e molti altri contenuti nei contratti potrebbero rimanere nella non-esclusività della proprietà comune. Come fece IBM nel 2005, alcuni brevetti possono essere dati via liberamente per il fatto di essere i mattoni dell’ecosistema aziendale.[11] Ma queste forme “aperte” non impediscono la proprietà di altri elementi del prodotto finale. Essi sono una variante permissiva del tipo di concessioni free software, il cui miglior esempio è la famiglia di licenze BSD (Berkeley Software Distribution). In teoria si potrebbe prelevare un pezzo di “open code” e combinarlo con del materiale sotto proprietà per crearne un prodotto (a proprio credito). Per l’azienda quel che è importante è possedere gli elementi che permettono di creare il valore commerciale dei prodotti in un ambiente più ampio di quello in cui è stato concepito.

Nel caso di Coursera, il bene prezioso è la piattaforma e il suo brand internazionale che la società possiede, blocca, ritiene e conserva. Solo pochi professori o università cercheranno di andare contro una piattaforma-ecosistema tecnico che è già universalmente riconosciuto. Una volta che una società ha stabilito delle solide azioni di mercato, persino in perdita, nuovi fruitori seguiranno gli utenti esistenti nella piattaforma dominante. Possedere della proprietà intellettuale indipendentemente dalla piattaforma significa avere qualcosa tra le mani che non ha pressoché alcun valore di mercato. Allo stesso tempo, condividere delle IP con chi possiede la piattaforma evidenzia il rapporto di subordinazione in atto. È ciò che Microsoft ha fatto con la sua versione aperta o scambiabile di IP – un modo per imbrigliare tutti i potenziali competitori che avevano contribuito alla formazione dell’ecosistema Microsoft. Questo è il destino dell’open sourcenell’economia della conoscenza – essere progressivamente miscelati alla piattaforma di riferimento in cui la grande maggioranza dei giocatori non ha controllo.

Mind the Gap

Che tipo di risposte darsi a questo punto? Un riassunto grezzo della storia potrebbe suonare così, “Microsoft ha scoperto che Foucault trionfa su Marx”. Ma questa è una falsa opposizione. Il mondo delle imprese stava inavvertitamente prendendo a prestito dalla lettura di Marx che il capitalismo avanza solo socializzando la forza-lavoro, creando così nuovi porzioni di plusvalore che il capitale richiede di appropriarsene con violenza. La battaglia continua con chi decide come il “contenuto” acquisterà valore sociale e finanziario diventando pubblico. Molti degli interessi attuali sull’open sourcefanno riferimento alle tradizioni marxiste e autonome di Italia, Francia e non solo, per il fatto di aver lavorato per anni sui sistemi di lavoro post-industriale, concentrandosi in particolare su capitalismo cognitivo e lavoro immateriale.[12] Sulla scia di una frase di Michael Hardt, io condivido l’interesse di questa tradizione per la potenzialità implicita dei beni immateriali “di fuggire i confini della proprietà e diventare comune”. Hardt rilancia un aspetto centrale e comune delle interpretazioni marxiane e dell’open source sul valore:

Se hai un’idea, condividerla con me non ridurrà l’utilità che ne puoi ricavare, ma, al contrario, la accrescerai. Infatti, al fine di ottenerne la massima produttività, idee, immagini ed affetti devono essere comuni e condivisi.[13]

Come abbiamo visto, la cattura avviene nel campo di significato di “condividere”. Con l’espansione dell’open sourceaziendale, le idee possono essere scambiate e possedute, accreditate e appropriate, aperte e chiuse allo stesso tempo. Questa è una lezione importante per l’evoluzione delle economie post-industriali, delle tecnologie informazionali e della comunicazione, di Silicon Valley, dell’economia della conoscenza e del capitalismo cognitivo. C’è una coesistenza e una soluzione di discontinuità tra open sourcelibero e aziendale, tra il diritto di creare e usare, e il diritto di far pagare i diritti di proprietà attraverso la piattaforma. Gli sforzi per difendere o stabilire vari comuni dovranno confrontarsi, sistematicamente, con la simbiosi tra la forma proprietaria e l’apertura della piattaforma. L’“apertura” non può semplicemente essere sostenuta contro la proprietà che include. Un simile dilemma cui si trova di fronte il “diritto alla città”, o, nel mio campo di ricerca, quello che potremmo chiamare il “diritto all’università”. Nel lavorare entro questo sistema di proprietà intellettuale, in che modo la moltitudine creerà e controllerà questa piattaforma?

 

* Pubblicato su Radical Philosophy. Traduzione di Alessio Kolioulis.



[1] Per il calcolo di campione, si veda Christopher Newfield, Unmaking the Public University: The Forty-Year Assault on the Middle Class, Harvard University Press, Cambridge MA, 2008, ch. 12. Per le più recenti statistiche riguardanti la University of California, si veda Technology Transfer Annual Report 2011, www.ucop.edu/ott/genresources/documents/IASRptFY11.pdf; accessed 15 July 2013.

[2] Marshall Phelps e David Kline, Burning the Ships Transforming Your Company’s Culture through Intellectual Property Strategy, John Wiley, Hoboken NJ, 2009.

[3] Ibid., ch. 1.

[4] L’uso quotidiano di questi due regimi proprietari è ben documentato. Cfr, per esempio, Mark A. Lemley e Ziv Shafir, ‘Who Chooses Open Source Software?’, 78 University of Chicago Law Review 139, 2011, http://lawreview.uchicago.edu/sites/lawreview.uchicago.edu/files/uploads/78.1/78-1-Open-Source%20Software-Lemley%20%26%20Shafir.pdf.

[5] Per un’accurata analisi della dimensione sociale della dimensione delle pratiche di sviulippo sull’open source, cfr. Steven Weber, The Success of Open Source, Harvard University Press, Cambridge MA, 2005.

[6] Si veda, ad esempio, Goldie Blumenstyk, ‘Temple U. Shuts Down For-Profit Distance-Education Company’, Chronicle of Higher Education, 20 July 2001, http://chronicle.com/article/Temple-U-Shuts-Down/23877; Scott Carlson, ‘After Losing Millions, Columbia U. Will Close Its Online-Learning Venture’, Chronicle of Higher Education, 7 January 2003, http://chronicle.com/article/After-Losing-Millions/110813.

[7] David F. Noble, Digital Diploma Mills: The Automation of Higher Education, Monthly Review Press, New York, 2001.

[8] Cathy N. Davidson, ‘Clearing Up Some Myths About MOOCs | HASTAC’, HASTAC, 11 giugno 2013, http://hastac.org/blogs/cathy-davidson/2013/06/11/clearing-some-myths-about-moocs.

[9] Il contratto di Coursera è simile al documento che Inside Higher Ed’s Ry Rivard ha ottenuto grazie ad un record di richieste: ‘Amendment to the Online Courses Hosting Agreement Between Georgia Tech Research Corporation and Udacity, Inc.’, https://s3.amazonaws.com/s3.documentcloud.org/documents/703593/udacity-gtrc-amendment-5-13-2013.pdf.

[10] ‘Online Course Hosting and Services Agreement’, documentato nel file dell’autore.

[11] Steve Lohr, ‘I.B.M. Hopes to Profit by Making Patents Available Free’, New York Times, 11 April 2005, www.nytimes.com/2005/04/11/technology/11ibm.html.

[12] Un trattamento particolarmente buono dell’argomento è apparso in un altro libro del 2003, André Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. Per una sintesi utile degli elementi principali della tradizione Italiana si rimanda a Gigi Roggero, ‘Five Theses on the Common’, Rethinking Marxism: A Journal of Economics, Culture & Society, vol. 22, no. 3, July 2010, pp. 357–73, e ad altri articoli nel numero speciale su ‘The Common and the Forms of the Commune’.

[13] Michael Hardt, ‘The Common in Communism’, Rethinking Marxism, vol. 22, no. 3, July 2010, pp. 346–56, www.informaworld.com.proxy.library.ucsb.edu:2048/smpp/section?content=a926294138&fulltext=713240928, accessed 16 September 2010.