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Postfazione di "Banche e crisi" – Crisi e intelligenza della merce

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di GIAN ENZO DUCI

L’attuale crisi economica e finanziaria del capitalismo mondiale, forse la più estesa e complessa di sempre, ha avuto il merito di suscitare il riemergere del pensiero critico sopito in tempi in cui si era arrivati anche a sostenere che la storia fosse finita.

Non è il caso di Sergio Bologna, che non ha mai smesso di esercitare questo ruolo magistrale nella sua lunga carriera di militante, studioso e consulente del passato e del presente della società industriale e del movimento operaio.

Con un merito in più, di essere stato tra i primi e tra i pochi (secondo me: il primo e il più autorevole) che ha sdoganato e fatto conoscere al pubblico della Sinistra e non solo (sic!) il settore dei trasporti, introducendo la dimensione della circolazione della merce nell’analisi delle strutture, dei processi, dei meccanismi e delle contraddizioni del sistema di produzione del plusvalore.

Basti citare l’inchiesta sui camionisti di Bruno Zanatta ospitata da Bologna nella rivista «Primo Maggio» da lui fondata e diretta a metà degli anni Settanta, quando, per la Sinistra, i lavoratori dell’autotrasporto erano coloro che con i loro scioperi «corporativi» avevano aperto la strada ai golpisti cileni che avevano ucciso Salvador Allende e fatto cadere il suo governo socialista.

Per non parlare dell’articolo di Franco Bortolini ospitato nello stesso periodo sulla rivista e dedicato alla storia del container, il «cassone» che avrebbe cambiato il mondo: un’analisi straordinariamente acuta e tuttora pregnante fatta in un’epoca in cui quei ragionamenti appartenevano solo alla componente portuale del movimento operaio se non addirittura solo ai giovani camalli genovesi riuniti nel Collettivo autonomo di cui Bologna fu subito naturale compagno.

Oltre ad avere trattato per quarant’anni con specifica competenza il tema del trasporto e poi della sua estensione e articolazione organizzativa nella logistica, Bologna ha avuto l’ulteriore merito di non separarlo dal quadro generale dell’economia e della politica. Ma soprattutto, grazie alla sua matrice ideologica sempre dichiarata, di storicizzarlo sistematicamente.

La questione teorica e politica della ciclicità storica delle crisi capitalistiche ha una sua declinazione, seppur non sempre coincidente, con l’analoga ciclicità dei mercati del trasporto via mare. In particolare, le crisi che caratterizzano l’economia moderna mostrano alcuni segni premonitori nell’inarcamento verso il basso delle curve che descrivono i cosiddetti «shipping market cycles»: Martin Stopford, nel suo fondamentale Maritime Economics, ne ha contati 22 in 266 anni, tra il 1741 e il 2007. Questo è dovuto alla natura «derivata» della domanda di trasporto marittimo, tendenzialmente anelastica rispetto al suo prezzo (il nolo), e che in ultima analisi dipende dalla domanda finale dei beni che devono essere trasportati. Per cui, a cominciare dalle materie prime per finire ai beni di largo consumo, la recessione nei settori primari e secondari, e infine nei consumi, viene anticipata dal declino della domanda e dei relativi flussi di merce, che si realizzano peraltro sempre di più via mare nell’economia globalizzata.

Da parte degli armatori, dei broker e in generale del mondo marittimo, si potrebbe avere l’impressione che i cicli siano considerati alla stregua dei fenomeni atmosferici: si è preparati a una certa «stagionalità» degli eventi e si crede, per l’esperienza, che a ogni inverno, per quanto rigido, segua la primavera della rinascita e l’estate dei frutti maturi. Tuttavia, per gli operatori che resistono sul mercato dello shipping, quasi ogni risveglio quotidiano è un motivo di attesa per sapere le rate dei noli di trasporto delle merci e dei valori industriali e commerciali delle navi. Ma la crisi permane e se, come scrive Bologna nella prefazione, gli scritti di Marx «sono linee di lettura della realtà che permettono di capirla, di capire cosa ci sta sotto», sostituita la parola «Europa» con «il settore dell’armamento», dovrebbe far preoccupare la frase che compare nell’ultimo dei quattro articoli sulla crisi: «Quanto più dura la crisi, tanto peggiore la resa dei conti. Il settore dell’armamento si trova oggi nella situazione di un uomo sull’orlo della bancarotta, il quale si trova costretto a continuare tutte le intraprese che lo hanno portato alla rovina, e a far ricorso a tutti i mezzi disperati possibili con cui spera di poter differire e impedire l’estremo terribile crack».

In tal senso appare quasi vichiano il caso della città di Amburgo: se nel 1857 Marx evidenziava come lo Stato rimborsasse con «il denaro della comunità le perdite dei privati», l’accesso al fondo di garanzia del Land di HSH Nordbank descritto nel Crack che viene da mare sembra un filo rosso che unisce i due saggi nella negazione della historia magistra vitae.

Allo stesso modo la lettera del 15 novembre 1852 di James Rotschild ha contenuti che visti oggi sembrano essere l’analisi del rapporto di potere tra banche e armatori. Per quanto non completamente appropriato, infatti, non è difficile riscontrare analogie tra le garanzie «mutevoli, dubbie e incerte» su cui si fondano i dubbi espressi dal banchiere francese sui valori di credito emessi dal Crédit Mobilier dei fratelli Péreire e le ipoteche navali rilasciate a garanzia del credito navale erogato al picco del più recente ciclo espansivo dello shipping, il cosiddetto supercycle dell’industria mondiale delle costruzioni e dei noli marittimi tra il 2003 e il 2007.

Insomma la preoccupazione di Bologna sul possibile scollegamento tra i saggi qui pubblicati, almeno per un lettore proveniente dal mondo dell’economia marittima e dei trasporti, non ha ragione di esistere. Però, come di consueto, Bologna va oltre e, nel prendere il lettore per il braccio e chiedergli marxianamente di alzare gli occhi, cerca di far vedere, non per forza di fare credere, qualcosa di più.

Prendiamo per brevità solo due esempi, su cui Bologna insiste criticamente: l’inarrestabile crescita dell’offerta navale e lo sviluppo esponenziale delle dimensioni delle navi (gigantismo) insieme alle sue relazioni con l’analogo sviluppo delle infrastrutture portuali.

Dietro entrambi i fenomeni c’è il crescente intervento del mondo finanziario nel mondo dello shipping, in parte condizionato o talora vincolato dai suoi precedenti impegni nel frattempo svalutati dalla crisi. Considerato che ogni investimento navale misura la sua redditività guardando agli indicatori, collegati e parimenti altalenanti, relativi al suo impiego commerciale (i noli) e al suo valore patrimoniale-finanziario (l’asset play), Bologna non perde occasione per mettere sull’avviso rispetto all’errore classico di guardare alle navi come ai fattori primi del business dello shipping, invece che alle merci. Egli invita spesso a comprendere il trasporto marittimo volgendo lo sguardo verso la terra, cioè verso l’origine e la destinazione delle merci trasportate, piuttosto che verso il mare attraverso cui esse si limitano a transitare. Sembra echeggiare quel «la merce, la Regina» con cui il romanziere Maurizio Maggiani ha saputo cogliere lo spirito del porto di Genova: «che ne sai di quello che s’inventerà la Merce tanto per far vedere quanto è immenso e potente il suo impero?».

I due fenomeni infatti, pure nei limiti della loro specificità, attengono all’idea delle «sproporzioni» che, come Bologna puntualmente rileva, nell’analisi di Marx costituiscono i motivi centrali delle crisi: distorsioni, ad esempio, nella giusta proporzione tra capitale fisso e capitale variabile, generate dalle operazioni del credito e della finanza che si trascinano dietro nelle loro trame speculative sempre più capitali, sottraendoli alla produzione, sino a quelli sovrani e quindi, alla fine, alla vita dei cittadini. Entrambi i fenomeni appaiono mosse contraddittorie rispetto alla recessione, addirittura controproducenti sino al suicidio per alcuni, salvo interpretarle come un pervicace atteggiamento di anticipazione della ripresa (forse una sorta di sindrome da «profezia che si autoavvera»). Ma sarebbe un’interpretazione troppo ingenua.

Emerge da questa rappresentazione una dimensione di gioco, per certi versi di scommessa, che si riflette perfettamente nella tradizionale caratteristica del mercato dello shipping, inteso già prima dell’era moderna come grande «torneo» mondiale dei traffici.

Sotto questo profilo, l’interpretazione marxiana delle crisi si focalizza invece nella rappresentazione, verso l’alto, della selezione e concentrazione delle imprese a seguito della concorrenza e della sovraproduzione e sovraspeculazione; verso il basso, della disoccupazione e immiserimento, che solo se tradotte in volontà e energie rivoluzionarie grazie all’azione di un partito della classe operaia, possono portare il proletariato a sostituire la propria dittatura a quella della borghesia realizzando prima il socialismo e infine il comunismo.

Invece, la teoria dei giochi sposta l’attenzione sull’interazione di mosse e contromosse, ossia sulle strategie messe in campo da ciascun competitore per il successo economico e la supremazia nei mercati all’interno di regole note. Queste interazioni nello shipping sono più evidenti che altrove, ma esse si applicano anche all’economia in generale, in specie nelle circostanze – come avviene oggi – in cui la dimensione finanziaria della crisi, ossia il ruolo «degenerato» del denaro come merce, tende a prevalere sulla produzione delle merci, dove il denaro svolge il suo «giusto» ruolo economico.

Bologna guarda a questi fenomeni perché ne teme coscientemente gli effetti di dispersione della ricchezza sociale e di umiliazione, in senso tanto morale che materiale, delle forze produttive, ma nell’osservare tutto questo non sembra volere arrivare alle estreme conseguenze del suo corretto ragionamento. Nel caso dello shipping, quando sono state affrontate esclusivamente sulla base del principio della concorrenza, le crisi si sono risolte attraverso la «distruzione creatrice» schumpeteriana che non è altro che la punizione per la organizzazione non ottimale delle risorse a disposizione. A un armatore se ne sostituisce un altro che acquisisce l’asset nave ai nuovi livelli di equilibrio di mercato: anzi, «un capitalista ne uccide molti altri», come amava dire lo stesso Marx. Il problema nasce invece da un sistema finanziario che appare paralizzato dagli errori precedenti e che invece di seppellire definitivamente i morti li tiene artificialmente in vita come gli «Shipping Zombies» evocati da David Osler sulle pagine di Lloyd’s List nel gennaio 2013.

Sia per le dimensioni delle navi, sia per le infrastrutture portuali, sia per la sopravvivenza delle stesse compagnie armatoriali che sia la merce a scegliere. Se la merce preferirà le navi grandi sarà il tempo a dircelo. C’è comunque nel recente passato un esempio significativo in tale senso: le superpetroliere costruite negli anni Settanta a seguito della chiusura del Canale di Suez. A Canale chiuso esse furono indispensabili e determinarono economie di scala nella circumnavigazione dell’Africa, la riapertura del Canale, che non consentiva il passaggio a pieno carico di questi mezzi , decretò la fine della loro epoca. L’impiego sistematico delle superpetroliere, giganti da oltre 300.000 dwt e 500 metri di lunghezza, dopo la metà degli anni Ottanta non fu più conveniente in quanto dovevano navigare con carico parziale o essere alleggerite del carico in più soluzioni con un conseguente aggravio di costi. È un peccato che il saggio di Bologna sulla crisi petrolifera negli anni Settanta non toccasse anche questo aspetto.

Allo stesso modo, per i porti non tutti saranno scelti da queste navi, ovvero dalle merci che esse trasportano, e se è vero che l’equilibrio di Nash porta tutti i porti a volersi adeguare a quelle navi (per il singolo porto, se non si adegua nessuno non va male, se si adegua uno e gli altri no, va molto bene per l’uno e malissimo per gli altri, se si adeguano tutti, va male per tutti) è pur vero che, in assenza di un nuovo benefattore privato come fu il Marchese De Ferrari (proprio quello del Crédit Mobilier), se si lascia la ricerca delle risorse alla capacità di ogni singolo porto di autofinanziarsi, senza cioè il ricorso a fondi pubblici, il processo che ne nasce sarà allora virtuoso.

L’alternativa per l’Italia, di fronte alla grandezza di questa crisi che è anche storicamente forse la più controversa perché tiene assieme Pil di segno contrario nella sua dimensione planetaria di redistribuzione della ricchezza, è la «Camoglizzazione»: anche Camogli, all’inizio dell’Ottocento, era una capitale dello shipping. Poi, un po’ per limiti geografici, un po’ per arretratezza culturale, ha rinunciato al suo ruolo. Ed è diventata una straordinaria località di villeggiatura.