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L'ombra dei due Stati

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di GIUDITTA BRATTINI

Era marzo 2009 quando alla conferenza  internazionale di Sharm el Sheikh si annunciava l’ammontare stanziato per la ricostruzione a Gaza, collegando l’azione  alla ripresa del processo di pace. Quasi 4,5 miliardi di dollari la somma raccolta alla conferenza. Un impegno concreto  chiarito dagli 87 tra Paesi e organizzazioni finanziarie presenti al vertice. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton affermava  “La risposta alla crisi di Gaza non può essere disgiunta dai più ampi sforzi per arrivare a una pace complessiva e l'amministrazione Obama è decisa a impegnarsi con forza perché israeliani e palestinesi riescano a convivere pacificamente sul principio due popoli, due Stati”. Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi  prometteva stanziamenti per  cento milioni di dollari, spalmati in quattro anni per la sola ricostruzione di Gaza. Il premier sottolineava la necesistà di creare due Stati, quello palestinese accanto a quello israeliano, che vivano in pace e sicurezza con dei governi di unità nazionale. “Gli israeliani – dichiarava – si diano un governo capace di volere la pace e di assumersi i sacrifici che la pace comporta”.  Sarkozy invitava  i palestinesi a mettere in piedi un governo di unità nazionale sotto il presidente Abu Mazen e incoraggiava le parti a stabilire un calendario per arrivare entro la fine dell’anno alla firma di un accordo e alla creazione di uno Stato palestinese percorribile, democratico, moderno, che vive accanto a quello di Israele.

L’aggressione israeliana “Piombo fuso” (tra il dicembre del 2008 e il gennaio del 2009) non si è mai conclusa, così come non  ha  mai preso avvio la ricostruzione, se tale si possa definire, e i buoni propositi si sono materializzati con continue aggressioni sioniste contro i civili palestinesi. Le più drammatiche in termini di vite umane sono state l’aggressione del novembre 2012 e quella tra luglio e agosto del 2014. A distruzione si è aggiunta altra distruzione e altri costi per la collettività internazionale.

Mentre gli occhi dei vari soggetti interessati agli interventi umanitari ed economici sono ancora una volta diretti sulla striscia di Gaza – attenti a come impegnare e spendere i miliardi di dollari per la ricostruzione dopo l’ultima aggressione: “margine protettivo” ma interessatamente meno attenti a promuovere politiche volte a rimuovere le ragioni delle continue aggressioni ed attacchi nella Westbank e a Gaza – sul piano politico internazionale la proposta del riconoscimento dello Stato di Palestina muove i suoi passi in sabbie mobili e mortali per i palestinesi. Contemporaneamente si fa avanti la proposta di Israele “Stato della nazione ebraica”, progetto di legge approvato, con  15 voti favorevoli e 7 contrari,  dal consiglio dei ministri, che proclama il diritto reli­gioso ebraico come fonte di legge pri­ma­ria, supe­riore anche ai prin­cipi della demo­cra­zia. In sostanza leggi e sentenze  si ispireranno ai valori ebraici, sarà soste­nuta l’educazione ebraica, mentre i non ebrei, dovranno sviluppare autonomamente i propri  valori e la propria cultura. Uno stato di Israele non per tutti i cittadini.

A Gerusalemme, centinaia di persone hanno manifestato  contro il disegno di legge che rischia, sostengono i manifestanti,  di cancellare per sempre la denominazione “democratica” di Israele. Fa effetto sentire parlare di  attentato alla democrazia: è agli anni ’20 del secolo scorso che per lo stato di Israele si è dato corso allo smantellamento di qualsiasi forma di democrazia, libertà,  uguglianza  in Palestina attraverso la deportazione e lo sterminio di migliaria di palestinesi, per sostenere l’immigrazione “standardizzata” di ebrei. Oggi  scegliere di vivere in Israele significa sostenere e contribuire a continuare nella pulizia etnica del popolo palestinese.

Un ministro della democratica israeliana come Avigdor Lieberman, anche lui un immigrato standardizzato, è arrivato a proporre di dare incentivi finanziari ai cittadini  palestinesi rimasti nei confine del 1948, affinchè si trasferiscano nei territori occupati per diventare cittadini di un futuro Stato palestinese.

Non è chiaro a quale Stato di Palestina si riferisca la classe politica israeliana, stante che la Westbank è un territorio “spezzatino” delimitato dal  muro, dagli  insediamenti, e si estende tra demolizioni di case palestinesi e nuovi insediamenti; la striscia di Gaza è una prigione a cielo aperto, separata dal resto del mondo dalle chiusure di Rafah e Erez. Ma è anche poco chiaro a quale Stato per i  palestinesi si riferiscano i paesi europei e lo stesso parlamento europeo che ieri ha riconosciuto “in linea di principio” lo Stato di Palestina. La  risoluzione, approvata con 498 sì, 88 no e 111 astensioni, prevede che “tutti gli Stati membri U.E. riconoscano lo Stato di Palestina entro i confini del 1967 con Gerusalemme come capitale”. Una proposta, evidentemente, troppo avanzata per alcuni parlamentali europei che proponevano invece di  portare avanti quanto approvato dal Governo spagnolo ovvero il riconoscimento dello Stato di Palestina solo a seguito di negoziati/dialogo tra le parti. Anche il presidente dell’A.N.P. Mahmoud Abbas sostiene che  “sia venuto il momento di trovare la volontà politica per lavorare seriamente all’ottenimento dei diritti inalienabili del popolo palestinese, compresa l’indipendenza dello Stato entro i confini del 1967”. Tali confini, è necessario specificare, comprendono solo il 22% della terra della Palestina storica! Nè danno futuro al diritto al ritorno! Mentre, il diritto all'autodeterminazione per i palestinesi implicherebbe "il diritto inalienabile di tornare alle loro case e proprietà da cui sono stati sfollati e sradicati" e  quindi il diritto dei rifugiati palestinesi a ritornare alle loro case e alle terre da cui sono stati espulsi con la forza nel 1948.

A Gaza nei giorni scorsi si è svolto un evento pubblico del P.P.P. (Palestinian  Popular Party) dove è stata respressa la necessità di uno Stato palestinese e nel corso dell’iniziativa sono stati ringraziati i Paesi europei e non, che, ad oggi, hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. Non mi soffermo sulla partecipazione all’evento. Mi soffermo invece sulle opinioni dei palestinesi di Gaza sull’argomento. In molti si chiedono a quale Stato di Palestina si faccia riferimento, quali confini, quale terra? Sono veramente pochi coloro che ho sentito sostenere la proposta di uno stato di Palestina entro i confini del 1967, quelli risultanti dalla guerra dei 6 giorni, guerra che privò i Palestinesi di altra terra oltre a quella già sottratta nel 1948.

Mentre si discute sul futuro della Palestina, a Gaza i lavoratori del governo di Hamas, circa 40.000, continuano ad essere senza salario e si allontana sempre più la possibilità,  per questi, di essere assunti e stipendiati dall’A.N.P., come si era paventato nella prima fase della riconciliazione Fatah-Hamas. Un’idea della drammaticità non solo economica ma sopratturo di relazioni  sociali la colgo dalle parole del dott. N.Z. dello Shifa Hospital:

‘‘Nel 2007 ero dipendete dell’A.N.P., lavoravo allo Shifa hospital in qualità di medico.  Mi venne chiesto dal Ministero della Salute di Ramallah di lasciare il mio lavoro, in quanto non dovevo prestare alcuna attività per il Govero eletto di Hamas. In cambio mi veniva garantito il salario mensile. Ho deciso di continuare a lavorare pensando che fosse la cosa giusta; questa scelta ha comportato che sono entrato nella “black list“ dell’A.N.P. e mi è stato tolto il salario. Ancora oggi non è chiaro se, come lavoratore dell’A.N.P. di cui sono stato dipendente per 13 anni, sono sospeso o licenziato. Il Governo locale mi ha assunto con un salario leggermente inferiore a quello che percepivo, tuttavia non potevo eticamente e moralmente accettare di restare a casa con le braccia incrociate, stipendiato, magari con un secondo lavoro. Da ottobre dell’anno scorso ho avuto metà stipendio e da maggio di quest’anno non ricevo più il salario e come me tutti I dipendenti del Governo di Gaza. Un acconto sugli stipendi arretrati lo abbiamo avuto lo scorso mese di settembre, ma è chiaro che così non si vive e non si può andare avanti.  Mi sono chiesto cosa accadrebbe se durante le visite ai pazienti chiedessi loro se sono pro Governo Hamas o pro A.N.P. e sulla base della risposta prestassi il mio servizio. È  questa un’”eresia”, ma è veramente difficile convivere con le frustrazioni e gli abusi anche da parte dei palestinesi. Un’altra cosa veramente  spregevole di cui sono testimone è che mentre la carenza di medicinali, per malati di cancro, epatite C e altre gravi patologia, è cronica, dal Ministero della Salute a Ramallah arrivano al Central Medical Store confezioni di farmaci indirizzati a singole persone. Perchè questo? Il diritto alla salute e alla cura è di tutti e per tutti, perchè la richiesta di farmaci per gravi patologie resta inascoltata peri migliaia di palestinesi di Gaza e invece per alcuni l’accesso è facilitato e garantito?”.

Anche questa è Gaza!

 

* Giuditta Brattini è membro di “Gazzella onlus”.