Stampa

La vera storia del declino di Detroit

on .

di FRANK JOYCE

Nello status di residente di Detroit da ormai una vita  – tanto in città che nella cintura extraurbana  – sono rimasto affascinato dalla frenesia dei media circa il suo fallimento. Alla stregua della maggior parte dei grandi temi d’attualità, Detroit è diventata lo schermo su cui depositare personalissimi immaginari politici.

Prima di tutto, varrebbe la pena di considerare perché questo caso catalizzi a tal punto l’attenzione. C’è davvero così tanto da dire? Dopo tutto, come per ogni istanza di fallimento, sarebbe solo una controversia tra soggetti determinati su una quantità di denaro (o beni immobili, opere d’arte ed altro genere di risorse).

Nel settore privato, le compagnie che dichiarano bancarotta pressoché quotidianamente agiscono senza destare particolare  – quando nessun  – clamore mediatico. E perché mai dovrebbe essere altrimenti? La bancarotta non è che un dispositivo del capitale per gestire l’insolvenza. L’ortodossia capitalista evoca a sé che il dissesto  – ad una determinata scala  – sia tanto inevitabile quanto generatore d’opportunità (è definita “distruzione creativa”). Non appaia quindi strano che il capitalismo disponga procedure in tal senso.

Al culmine della débâcle, il Congresso ha introdotto un nuovo dispositivo  – il Capitolo 9  – al codice di curatela fallimentare atto a disciplinare la bancarotta di enti governativi locali. Per quanto risulti ovvio che estendere ad un apparato  – in questo caso ad una città  – la condizione di fallimento sia cosa assai diversa che se la medesima procedura si intenda riferita ad un’azienda, le istanze fondamentali circa il ‘chi’ possa definirsi insolvente e in che misura sono le stesse.

Indubbiamente, una bancarotta pubblica non è un fenomeno comune al pari del fallimento di un soggetto di diritto privato (non ancora, perlomeno). Quindi, in sintesi, lo scenario che si apre ha ragionevolmente del “ehi,ehi, guarda: c’è un uomo che sta mordendo un cane!” inoltre, poiché le municipalità sono istituzioni elettoralmente espresse, è comprensibile una diversa percezione della posta in gioco.

In tale contesto, ciò che i media mainstream mancano di mettere a fuoco è che la bancarotta non è che l’ultimo gradino di un processo incrementale di lungo periodo nell’erosione delle istanze democratiche per la popolazione afro-americana. Mentre scrivo più del 55% della popolazione afro-americana del Michigan vive in comunità che soggiacciono a forme di commissariamento straordinario. Questo significa che il governo statale ha già sollevato d’autorità le istituzioni nate dalla consultazione elettorale. La dichiarazione dello stato d’insolvenza pertanto esercita una sottrazione di competenze, trasferendole ad una scala federale.

Ciò fa notizia tuttavia perché diversamente da quanto sancisce la normativa relativa ai commissariamenti di enti pubblici, il già citato Capitolo 9 per la gestione fallimentare delle istituzioni federali espone al rischio istituti bancari, obbligazionisti, assicuratori obbligazionari e speculatori che abbiano a vario titolo finanziato il debito municipale. Evenienza sul cui arginamento il governatore del Michigan Rick Snyder si è dato molto da fare. Già nel giugno del 2011 aveva garantito a Wall Street: «[…] “Detroit non è in bancarotta”, ha riferito un raggiante Snyder ai giornalisti lunedì all’uscita da un confronto con tre accreditate agenzie di rating di New York»[1].

Come prevedibile, quello che più eccita e occupa i media mainstream è la ‘gara’ all’attribuzione delle responsabilità: “…sono stati i progressisti, o gli stessi neri!”  – gridano i conservatori. “Sono i razzisti e le destre”, è la replica dei liberali. Lo scenario fin qui delineato può risultare senza uscita. Quanto segue mi auguro possa dare una visione più calcolata di cosa intendere per “bancarotta” nel caso di Detroit.

Il Governo è in bancarotta. Non Detroit.

Nel contesto di Detroit è possibile riconoscere quattro sistemi produttivi.

Uno di questi è il tradizionale, preindustriale ed industriale. Obsoleto, per buona parte connesso al mercato dell’automobile. Più che mai oggi il capitale è estremamente mobile e non ha alcuna propensione alla ‘fedeltà’ verso una qualsiasi entità geografica. Se non è vincolato ad un’istituzione-nazione meno ancora potrà mostrarsi tale verso una città. Così, il vecchio denaro ha guidato la fuga che ha dismesso buona parte degli asset economici che davano a Detroit uno status di prosperità secondo un ordine di discorso datato metà del XX secolo. Molto prima che il capitale residente a Detroit venisse ri-localizzato in Cina e Messico, si era già spostato dalla centro alla cintura periferica.

Il nome che ho attribuito al secondo scenario economico è “pizza economy” [sic, n.d.t], che qualcun altro potrebbe diversamente definire “economia dell’intrattenimento”. Mentre l’industria migrava altrove, la ”pizza economy” le subentrava, nella persona di Mike Illitch, patron della catena Little Ceasar’s Pizza.

Illitch ha acquistato i Detroit Tigers, i Detroit Red Wings ed una sala concerti di pregio e strategicamente localizzata, il Fox Theater. Per menzionare solo alcuni degli investimenti. Buona parte di queste operazioni risultano sostenute da denaro pubblico, nella forma di sussidi tanto municipali quanto statali o federali. Anche adesso, nonostante l’insolvibilità pubblica, Mr Illitch è in predicato di ricevere 650 milioni in dollari di sovvenzioni provenienti dal gettito fiscale della municipalità di Detroit per il progetto di un nuovo stadio da hockey. Tre casinò si aggiungono poi all’offerta d’intrattenimento sull’area urbana. La visione alla base era sostanzialmente che pur non potendo persuadere la popolazione bianca a risiedere in centro, si sarebbe potuta comunque costruire economia intorno alla permanenza finalizzata al consumo di beni e servizi nel tempo libero. Cogliendo il fermento nel cuore della città, anche il fantamillionario Dan Gilbert  – con interessi nella terna F.I.R.E. [acronimo per “finanza, assicurazioni, beni immobiliari” , n.d.t] e Quicken Loans, tra le attività di cui è titolare  – si è da poco buttato nella mischia ed attualmente possiede diciannove immobili nella downtown di Detroit e chissà che non stia concludendo un’altra transazione al momento in cui starete leggendo queste righe…

Dunque, arriviamo alla “SLOWS BarBQ economy”, il sistema numero tre. Il proprietario di SLOWS, Phil Cooley, incarna quel tipo di pioniere capace di intuire le opportunità tra le macerie. Così come Jackie Victor e Anne Perrault, fondatrici della Avalon Bakery, attività con una spiccata propensione alla equity nata nel 1997.

Cooley ha poi arricchito di un incubatore d’imprese il pool dei propri interessi in città.

Avalon di suo ha recentemente acquisito un immobile industriale abbandonato a downtown per annetterlo al businnes in crescita. Ci sono ulteriori rumors circa la prossima presenza di Shinola (produzione di orologi e biciclette di fascia alta) in centro. Ancora, in questi ultimi mesi, Whole Foods e la catena di superstore Meijer hanno aperto punti vendita nella cintura urbana di Detroit.

L’economia numero quattro abbraccia tutto il resto. Entreremo nel merito più in là.

Al momento mi limito a quanto segue: ciascuno si costruisce un’idea di quale debba essere il modo di operare di una città. Ebbene, Detroit non si uniforma a un tale modello da almeno 40 anni. Ma dal momento in cui il venir meno degli investimenti l’ha privata dell’ordinaria offerta di asset  – scuole pubbliche di qualità, legalità, tutele sindacali, introiti da imposte patrimoniali gravanti su una middle class in buona salute  – quello che è sopravvissuto è un differente tipo di economia.

La ‘quarta economia’ è guidata dall’assunto che un aiuto ‘dall’alto’ non sia di la da venire.

Centinaia di migliaia di persone, per lo più afro-americani, vivono tuttora a Detroit. Sopravvivono. Fanno economia a tutti gli effetti. In alcuni aspetti strettamente connessa agli altri modelli, enumerati dall’uno al tre.

In molti altri no. Nonostante la provata capacità di disporre di risorse alternative, le economie più sopra illustrate considerano le attività economiche degli afro-americani una criticità e non un’effettiva opportunità.

Tornando alla bancarotta. Quanto è stato motivo di ripetuto stupore ai miei occhi è che ognuno dei ‘modelli’ abbia continuato ad investire in città, nella città. Molto. Capitali d’ogni genere sono confluiti a Detroit. Un recente numero di “Crain’s Detroit Businnes” riferisce che 24 nuove attività imprenditoriali hanno aperto in downtown nello scorso anno. L’allocazione tipica è in pieno centro e nei distretti contigui. Le fondazioni (ossia la creazine di presunti benefici per i poveri con l’incremento della ricchezza per i ricchi dell’economia designata come ‘numero uno’) hanno speso qualcosa come due miliardi di dollari a Detroit in anni recenti.

Dan Gilbert ormai chiude gli uffici nella cintura per portare le attività in centro città; in alcune zone le rendite fondiarie sono in rapida ascesa.

Ma se Detroit è ormai in bancarotta ed economicamente disfunzionale, com’è possibile tutto questo?

Istituzioni? Pare che qui non s’abbia bisogno di alcun soggetto di governo, per quanto dotato di capitali.

Nessuno dei modelli enunciati ne ha. Questa è la lezione da accogliere osservando i comportamenti, in contrasto con molte delle preoccupazioni dai più dichiarate. Volete vedere in dettaglio il sogno condiviso di Karl Marx e Grover Norquist? Venite a Dove, dove lo Stato si è dissolto o risucchiato da un gorgo. Come preferite. Perlomeno, quel genere di governamentalità tradizionale, attraverso cui gli abitanti di Detroit avevano inteso esprimere le proprie preferenze politiche. La verità è che Detroit è stata amministrata nel tempo da un vertiginoso succedersi di commissari straordinari ed altre ‘formule’ di ingerenza statale, partenariati pubblico/privato, aziendalizzazioni dei servizi: per la sicurezza, la gestione rifiuti, la formazione professionale e numerose altre attività in precedenza in carico a enti esito di consultazioni pubbliche ed autorità territoriali di vario profilo. Per tacere di organizzazioni sostenute da soggetti di diritto privato, quali appunto fondazioni (il reporter del Detroit Free Press John Gallagher ne fornisce una buona mappatura in due testi a stampa, Reimagining Detroit e Revolution Detroit, in cui censisce inoltre molti progetti di iniziativa popolare.)

L’eccezione  – come ovvio  – conferma la regola: i rumors circa la possibile cessione di opere d’arte dalla collezione del Detroit Institute of Art (DIA) sono un esempio di come intorno ad un siffatto rischio per un patrimonio civico, a dispetto del diffuso cordoglio, le suburbarbanities [l’espressione della popolazione delle gated communities fuori cintura, bianca e con alta propensione al consumo, n.d.t] non abbiano attuato alcuna politica di conservazione ovvero azione di trasferimento.

Questa crisi fa di Detroit la terra promessa? Tutt’altro. Per molti dei residenti la quotidianità è dura, a dir poco.

Prova ne sia  – ad esempio  – l’impatto di quattordici anni di controllo sulle scuole pubbliche di Detroit da parte del governo statale di Lansing. Il risultato è stato disastroso, nonostante lo sforzo continuo del corpo insegnante nel dare nuovo senso al termine ‘agenzia educativa pubblica’.

La rovina del sistema urbano atterrisce. Molto di quanto è dato apprendere dagli auto-proclamatisi detrattori di Detroit  – da una parte  – e dai paladini  – dall’altra  – è piuttosto spietato nell’analisi: il debito accumulato dal rapace aiuto di Wall Street nel corso dei decenni è sconcertante. Le ondate di licenziamenti nel pubblico impiego hanno drasticamente ridotto i servizi, anche quelli di base.

Corruzione e insipienza dei funzionari espressi dalle consultazioni pubbliche hanno in tutta evidenza giocato un ruolo. Hanno aggravato situazioni già compromesse. Risorse importanti sono state differite nella lotta alla corruzione dall’originaria destinazione d’uso.

Un’occasione per la cittadinanza bianca a cui piace sostenere che questa sia la prova che Detroit non sappia istruire da sé il potere esecutivo.

L’ex sindaco  – attualmente detenuto  – Kwarme Kilpatrick [afro-americano, n.d.t] è in assoluto il migliore e più noto bersaglio. Ma ciò che i bianchi non sanno, o non intendono ammettere, è che costui fosse prossimo ad incassare una sconfitta nella corsa alla rielezione fino a quando un gruppo di imprenditori  – bianchi  – con ingenti interessi in città sono piombati nell’agone last minute con centinaia di migliaia di dollari a sostegno della sua campagna elettorale.

Nessuno dei problemi di Detroit si è palesato ex abrupto; da una prospettiva di lungo periodo i contorni di questo fallimento appaiono meno vaghi. Un po’ come nel caso nella campagna reganiana contro i controllori di volo sindacalizzati PATCO o della ratifica di legittimità, da parte della Corte Suprema, dell’ingerenza politica della Citizen’s United, in forza della propria capacità finanziaria.

Insomma, la bancarotta di Detroit non è che l’effetto della ormai perduta autorità dell’istituzione democratica  – non la causa. La progressione di un processo pluridecennale. Semplicemente.

E ‘sì’, il fattore razziale è una variabile. Tre sono le contee che compongono il mosaico economico del sud-est del Michigan. Wayne County include Detroit ed altri estesi centri della fascia suburbana come Dearborn, Livonia (la più isolata città della contea, con un numero di residenti pari a circa 200.000 unità) e buona parte della facoltosa Grosse Pointes. Oakland County  – subito a nord di Detroit  – è la quarta in ordine per reddito pro capite tra la contee di pari dimensioni degli Stati Uniti. La contigua Macomb County è per lo più composta da quella working class che ha espresso i cosiddetti “Reagan Democrats”.

“Può Detroit governare se stessa?”

Molti analisti made in Detroit ignorano le questioni etniche, concentrandosi piuttosto nell’analisi della caduta del mercato automobilistico nazionale o di trend macroeconomici. Quando l’etnia trova spazio nelle liste di ‘fattori di declino di Detroit’, viene descritta con espressioni quantomeno scivolose come “tensioni razziali” oppure “racial divide”. Insensato: ciò che è sempre stato e tale resta, è razzismo bianco puro e semplice. Maître à penserpoco qualificati amano parlare dell’insostenibile eredità del costo delle pensioni per il pubblico impiego. Non parlano mai dei costi ereditati dalle politiche di segregazione.

Dal 1980, gli afro-americani hanno superato in numero i bianchi all’interno dei confini di Detroit. Ebbene, il capitale ha cominciato a lasciare la città negli anni ’40, ma il continuato disinvestimento nella popolazione è altrettanto significativo. È cruciale fugare ogni errore in proposito. L’emarginazione su base razziale che ha caratterizzato a lungo il sud-est del Michigan è tutto fuorché un dato accidentale.

Per decenni la politica della Federal Housing Administration è stata di negare mutui ad afro-americani interessati a comprare un immobile in un sobborgo residenziale. Ad oggi, se si acquistasse un immobile a destinazione residenziale nella cintura peri-urbana che non abbia avuto per lungo tempo passaggi di proprietà, l’atto potrebbe anche contenere una clausola restrittiva che proibisca esplicitamente la cessione a negri [si è preferito mantenere nella traduzione l’accezione ‘scorretta’ che si è inteso dare nel testo originario, n.d.t].

Non è tutto: si registrano ventitre istanze respinte  – su ventitre presentate  – finalizzate alla costituzione di un’authority del trasporto pubblico su scala regionale  – in un’area di tre contee  – al fine di aumentarne l’efficienza. Il governatore era un bianco. Quindi, non solo si è reso impossibile agli afro-americani acquistare case in luoghi in grado di offrire un mercato del lavoro vivace, ma altrettanto difficile ambire a posti di lavoro disponibili fuori dalla cintura urbana sorti a seguito dell’espansione.

Per aggiungere danno alla beffa, gli istituti di prestito che non concedono mutui agli afro-americani per acquistare un immobile in aree extraurbane non lo fanno in ogni caso per ristrutturazioni immobiliari in downtown. Di contro, le polizze assicurative su autovetture e case sono assai alte. Per quanti fossero troppo giovani per averne memoria, l’insieme di queste  – consolidate  – pratiche è definito “redlinig” ed è a tutt’oggi l’attitudine prevalente.

Un esempio drammatico dei costi del modello segregativo made in Detroit. è il seguente: Detroit percepisce un contributo da coloro che lavorano all’interno della città. L’imposta  – che si articola su due livelli  – è minore per chi lavora in città ma abita fuori cintura. Nell’applicazione della legge l’estensore assegna al datore di lavoro con sede urbana il compito di raccogliere l’imposta tramite detrazione sul salario come per le tasse federali ed altre voci di trattenuta. I datori di lavoro con sede legale fuori cintura non hanno per legge l’obbligo di trattenerla. La maggior parte quindi non lo fa. I proventi perduti annualmente si stima ammontino a 142 milioni di dollari.

Ampliando la scala degli eventi intercettati dalla nostra lente, il modello che ne definisce è un’incontrastata supremazia bianca. La reazione alla lotta sociale è il “sistema Jim Crow”: incarcerazioni di massa ed altre manifestazioni di discriminazione istituzionalizzata, che perpetuano e per certi versi intensificano il privilegio bianco. La storia di Detroit come laboratorio nazionale di segregazione declinata in politiche urbane  – ed annessi  – supporta ed alimenta l’odierna crisi di Detroit quanto quella di Flint, Pontiac, Benton, Harbor e Muskegon.

Gli osservatori tanto acuti da evincere che la maggioranza di conurbazioni ad etnia predominante afro-americana sia sotto una qualche forma di commissariamento, sembrano non porre altrettanta attenzione al perché, in primo luogo, esistano città a marcata prevalenza di popolazione nera.

Il fascino che risiede in questo dispositivo di “ignoranza selettiva” è per molti bianchi trovare nella lettura del declino stesso un alibi per perpetrare le iniquità che lo alimentano. È una storia vecchia. Il modello sociale basato sulla schiavitù si è dato con medesimi meccanismi. E i neri ad ogni buon conto erano dipinti come ontologicamente pigri, inetti. Per tradurre il meme in ambito contemporaneo, gli schiavi sono stati demonizzati fin tanto che la mitografia è stata ambito esclusivo dei padroni.

Se volessimo osservare questa costruzione di narrazione declinata all’oggi, basterebbe leggere i commenti – abusivi e nauseanti  – a piede di ogni notizia di cronaca locale o nazionale su l’affaire Detroit. Suggerisco in proposito il Detroit News  – l’organo ufficiale dell’ala bianca. In un passato neanche troppo lontano la politica editoriale della testata è stata di pubblicare quotidianamente in prima pagina una notizia riguardante crimini commessi da afro-americani.

Recentemente il redattore capo del Detroit News, Nolan Finley, che ha costruito la propria carriera sull’essere il sostenitore più saldo e acceso della mitopoiesi del “fardello dell’uomo bianco”, ha pubblicato un editoriale molto divulgato dal titolo “può Detroit governare se stessa?”[2]. Immaginate quale fosse la risposta.

Il suo codice linguistico è inequivocabile. Chiunque intuisce dove Finley intenda andare a parare: gli afro-americani sono in grado di governarsi? La mia risposta è “assolutamente sì, se tu e quell’uno percento dei tuoi amici sono stati in grado di avallare tutto questo”. Un passo del News nella giusta direzione sarebbe di pubblicare un articolo in grado di riflettere su come la restituzione mediatica della città e l’odio traboccante dalla sezione dei commenti siano l’humus di questo ‘avvitamento’.

La segregazione su base razziale com’è ovvio non agisce solo economicamente. Quanto più a Detroit la comunità afro-americana è diventata numericamente maggioritaria, tanto meno è stata in grado di creare pressione politica. Tra l’altro, i facili meccanismi di broglio hanno contribuito a consegnare ai repubblicani il controllo di tutti e tre i gradi di governo territoriale.

C’è molto di più in questa storia  – molto di più

Che ci crediate o no, quello che appare come peggiore degli scenari mostra un potenziale sorprendente.

Lo stato di esclusione di Detroit ha creato le condizioni perché quello che abbiamo definito “il modello economico numero quattro” costituisca di fatto un nuovo paradigma.

Si tratta di un sistema complesso e stratificato ed in qualche misura autonomo. È fatto di madri single che riescono faticosamente  – e ingegnosamente  – a creare risparmio dai programmi governativi di sostegno al reddito. Di auto-officine non autorizzate e cene di beneficenza parrocchiale organizzate per strada. Di doposcuola in nero. In sintesi, di ciò che la comunità afro-americana ha attuato per generazioni come economia di sussistenza priva di alternative. Di scrappers [chi ricicla rifiuti, n.d.t] che recuperano rame, legno vecchio ed altro genere di materiali ancora utilizzabile e abbandonato nell’esodo dalla città, lontano dalle vecchie case, negozi ed opifici.

Ok, è illegale. Quindi? L’illegalità d’altro canto è un sistema produttivo se può esserlo altrettanto per Wall Street il pignoramento immobiliare o per uno scippatore lo scegliere i pusher come bersaglio esclusivo perché «è lì che si fa la vera grana.»

Alcuni assistono alla dissoluzione materiale di Detroit e ne notano solo la ruggine. Ciò che a me salta agli occhi è piuttosto la sorprendente capacità  – da parte di chi rimane  – di produrre valore da uno scenario ostile.

L’urgenza è stimolo per la creatività e, in questo spirito, la cittadinanza di Detroit sta praticando una notevole riorganizzazione delle forme di produzione. Lo sviluppo di sistemi d’orticultura urbana altamente sofisticati ed una rete in espansione di agenzie educative autonome. Ancora, la risoluzione dei contenziosi ad una scala di vicinato, l’auto-costruzione d’impianti di illuminazione stradale ad energia solare, la messa in comune di tecnologia di ultima generazione per l’autoproduzione e sistemi di trasporto alternativi. Nuovi linguaggi, arte, musica e media. Banche del tempo, cooperazione ed altre forme di finanza creativa. Videoconferenze su skype ed incontri de visu con partner da tutto il mondo per immaginare nuove condizioni di lavoro, finanza e democrazia. È un uso inedito dei servizi sociali e degli spazi confessionali per creare open community labs e opportunità imprenditoriali per incentivare il ritorno in città. È quell’impegnativo lavoro sottotraccia della “tavola rotonda Detroit” e di altre pratiche per facilitarne la guarigione e praticare nuove alleanze tra la città e le aree fuori cintura. La vitale, pulsante nuova autorganizzazione attinge ad una consolidata tradizione di pensiero politico sui temi del welfare e giustizia sociale. In particolare all’attivismo e alle visionarie analisi di scenario dell’ultimo James Boggs e della 98enne Grace Lee Boggs.

Abbastanza interessante, quella parte di new economy che compone questa quarta economia di Detroit è essa stessa catalizzatore di un ingente flusso di visitatori. Sono già numerosi i piani all’attivo per l’adattamento di strutture B&B anche per ospitalità di lungo periodo. Persone dall’intero paese, come dal resto del mondo, arrivano per imparare de visu tutto sul debutto di un nuovo paradigma di economia post-industriale.

Katrina o il canarino? Detroit e quel “NOI” made in USA

Quindi? Detroit è la tempesta perfetta, quella particolare sintesi di eventi che si abbattono su un luogo specifico  – come è stato per New Orleans, sebbene in un lasso di tempo più ampio? Ovvero si tratta del “canarino della miniera” in grado di prevedere la direzione a cui tende l’intero paese ed in un qualche modo l’intero scenario globale?

Ho speso parecchio tempo nel corso di questi ultimi anni a rifletterci su. Arrivando sempre alla stessa conclusione. Prima o poi, il quadro descritto sarà “nei cinema sotto casa vostra”. Ovvero aumenterà di scala, abbracciando l’intero paese. Dipendenza dal debito, paralisi politica che inibisce ogni processo che si stia dando mentre l’apparato nelle sue articolazioni si decompone, un sistema obsoleto di organizzazione del lavoro: non è esattamente ciò che Detroit ha incarnato negli ultimi quarant’anni? Aggiungiamo l’accelerazione di processi di collasso ambientale e quello che ci attende sarà trovarsi tutti uniti al grido di “Ich bein ein Detroiter”.

Tanto per non passare da falco del collasso sistemico premetto che non mi interessa che perfino a destra si possa condividere l’opinione che la nostra dipendenza dal debito sia insostenibile. Ciò detto, come soggettività  – singolarità in formazione, in particolare  – come istituzioni, come sistemi, stiamo tutti vivendo in una condizione debitoria, di denaro e tempo. Parlando di entità politiche, se i dispositivi ideati per valutare la necessità di commissariamento nel caso di Detroit o Flint venissero verificati sull’intero territorio nazionale  – migliaia di città, contee e stati non si qualificherebbero diversamente.

E indovinate un po’, altrettanto varrebbe per l’intero territorio degli Stati Uniti. Chissà, forse un giorno le Nazioni Unite o la Cina destituiranno di potere il Congresso ed il Presidente per sostituirlo con un commissario straordinario.

Qualunque sia l’esito del dramma della bancarotta della municipalità di Detroit, possiamo essere certi di una cosa: non dissolverà nessuno dei problemi soggiacenti di razzismo strutturale e disfunzione politico-economica. Per questo, dobbiamo contare su noi stessi. E lo stiamo facendo. Per coloro tra noi che ritengono che l’attuale ordine dominante non solo non funzioni ma sia una minaccia per la vita stessa, Detroit è esattamente dove vorremmo essere. Siamo grati ed orgogliosi di trovarci nel luogo e nel momento in cui avere una parte nella costruzione di un nuovo modello di mondo.

 

* Pubblicato il 2 settembre 2013 su AlterNet. Traduzione di Manuela Costa. Ringraziamo Richard Feldman per la segnalazione.



[1] http://www.freep.com/article/20110615/NEWS06/106150441/Bankruptcy-not-an-option-cities-Gov-Rick-Snyder-says

[2] http://www.detroitnews.com/article/20130822/OPINION01/308220014/1271/OPINION0305/Can-Detroiters-govern-their-own-city-