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Come organizzarsi nell’età dell’odio?

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di COMMONWARE

1. “Dopo anni passati a stupirci che la crisi non producesse conflittualità sociale, ora lo scenario è cambiato”. Così domenica 23 novembre ha scritto Aldo Cazzullo in un editoriale sul Corriere della Sera dal titolo emblematico: “L’età dell’odio che va fermata”. La cacciata dei leader politici, l’assalto alle sedi dei partiti o le occupazioni di case, così come sull’altro versante quello che è successo a Tor Sapienza, ne sono il segnale. Con il realismo del reazionario, Cazzullo non si rifugia nell’autorassicurazione tipica della sinistra, secondo cui si tratterebbe di piccoli gruppi criminali, isolati dal contesto sociale. L’editorialista del Corriere è anzi estremamente preoccupato del contrario: si tratta di iniziative che, indipendentemente da chi siano fatte, colgono delle corde che affondano le proprie radici nel contesto sociale. Non sono i gruppi a comporre l’età dell’odio: sono i giovani, i disoccupati, i ceti medi impoveriti e i migranti a covare un odio profondo. A essere isolata è la “politica”, ovvero le istituzioni politiche – il crollo verticale dei votanti in Emilia Romagna, roccaforte del Pci-Pd, è solo l’ultima, lampante, dimostrazione. Perfino le strutture intermedie e le corporazioni (che hanno fin qui contribuito a tenere a bada la conflittualità sociale) rischiano di saltare del tutto e in modo violento. Da qui l’ovvia conclusione per lui: ripristinare la legalità, con ogni mezzo necessario. Consapevole però – questo è l’implicito – che questa legalità è definitivamente sganciata dalla legittimità sociale, anzi vi si deve contrapporre per conservare e riprodurre il sistema esistente. Rinunciando a qualsiasi funzione o perfino retorica della rappresentanza, le istituzioni devono governare in modo separato rispetto alle dinamiche sociali. Renzi l’ha capito fin troppo bene ed è lì per questo.

Per anni, anche all’interno dei movimenti, ci si è lasciati spesso avvolgere da una lettura lineare del rapporto tra crisi e lotte, come se all’intensificarsi dell’una fosse immediatamente immaginabile una generalizzazione delle altre. Da ciò ne è derivato un andamento ciclotimico nelle aspettative di conflitto: all’apparire dei primi movimenti nella crisi (dalle insurrezioni arabe fino ad arrivare a Occupy, passando per le acampadas e piazza Syntagma) ci si è illusi dell’irreversibilità del processo di generalizzazione, per poi ai primi rinculi e all’esaurirsi di questo “ciclo” cedere allo sconforto, che per qualcuno ha significato l’arretramento su posizioni difensive e frontiste, o meglio ha consentito di giustificarle. A un polo e all’altro degli sbalzi di umore si è prestata poca o nulla attenzione alle condizioni specifiche dei movimenti nella crisi, ai contesti in cui sono emersi e a quelli in cui non sono emersi, ai tratti comuni e alle peculiarità delle loro composizioni sociali e di classe, a quello che c’era prima e a quello che c’è stato dopo. Ora è necessario correggere il tiro e ripensare quel rapporto.

Parlando di crisi globale, infatti, si è talora scivolati nel dipingere una sorta di omogeneità indifferenziata, troppo simile a quel mondo piatto decantato dai retori del trionfo del capitale dopo l’89, o meglio dopo la sconfitta dei cicli di lotta internazionali degli anni Sessanta e Settanta. Non è così: la crisi, proprio perché è globale, produce e anzi moltiplica i suoi effetti di differenziazione e segmentazione territoriale. La crisi è cioè un dispositivo di divisione e non solo elemento di unificazione. Non vi è dubbio, per esempio, che la composizione che è insorta in Nord Africa abbia dei tratti comuni con quella che negli ultimi anni si è battuta contro le politiche di austerity sulla sponda del Mediterraneo popolata dai “pigs”; al contempo, però, ci sono elementi di differenziazione che, rifuggendo da qualsiasi determinismo, vanno interpretati come diversificazione delle condizioni di possibilità e dunque delle necessità organizzative. In Italia, per esempio, a fronte della difficoltà di emersione di movimenti con caratteristiche di espansione simile a quelli del ciclo globale, abbiamo parlato dell’esistenza di “tappi”, ovvero di strutture di mediazione sociale (dalle istituzioni alla famiglia, passando per la Chiesa e fino ad allungare le proprie articolazioni dentro gli spazi di movimento) che, seppur in crisi, hanno finora trattenuto il salto in avanti delle lotte su un terreno comune. Non è vero che l’Italia non sia stata percorsa da conflitti sociali; questi, però, hanno faticato a generalizzarsi e costituirsi in “modelli” per le lotte a venire. Ha inciso anche la struttura generazionale, rovesciata rispetto a quella del Nord Africa, dove i due terzi della popolazione è composta di under 35. Non si tratta di ribellismo giovanilista, quanto invece di cogliere la dimensione materialista della questione generazionale. Essere giovani, oggi, corrisponde a essere precari di prima o di seconda generazione, dunque in un rapporto con quello che c’è da perdere o da difendere (poco o nulla) ben diverso da quello delle generazioni precedenti.

2. In questo quadro, c’è un punto centrale che probabilmente è stato finora troppo poco considerato: nella crisi e nella sua accelerazione si sono cioè abbassate le aspettative e si sono alzati i livelli di accettazione. Storicamente le lotte hanno creato crisi più che nascere dalla crisi; hanno cioè maggiori facilità di generalizzazione in un contesto espansivo, di aspettative crescenti, per cui è chiara la percezione di poter avere tutto e quindi l’insoddisfazione per qualsiasi mediazione al ribasso (“se offri dieci vogliamo cento, se offri cento mille noi vogliamo”). Le lotte degli ultimi anni nei luoghi più duramente colpiti dalla crisi, per esempio nell’Europa meridionale (seppur alla luce di differenze e specificità territoriali), si muovono invece in un quadro per molti versi opposto: la percezione è che anche il “dieci” non è più garantito, quindi già avere “cinque” sarebbe un risultato di cui accontentarsi. Tutto sommato, il Jobs Act di Renzi & Poletti non si inventa nulla dal punto di vista delle forme di precarietà del lavoro; ciò che tenta di istituzionalizzare è esattamente questo processo di aspettative decrescenti e accettazione crescente. È il modello Expo, già sperimentato alle Olimpiadi di Torino e qua e là ampiamente diffuso (per esempio nelle università): al lavoro non corrisponde più necessariamente una retribuzione, può perfino essere gratuito o volontario, quindi un salario di qualche centinaio di euro al mese deve essere accettato con soddisfazione. Non è un caso che Poletti sia stato presidente di Legacoop, perché proprio nelle cooperative questo processo fatto di smantellamento dei diritti conquistati, volontariato, abbassamento del salario reale e compensazione con un salario psicologico (la supposta utilità sociale) è diventato un sistema consolidato. Non è un caso che nell’ultimo paio di anni si siano avute importanti lotte contro il sistema delle cooperative, come quelle dei facchini della logistica di distribuzione e dei lavoratori dei servizi pubblici appaltati. Questa situazione nell’Europa meridionale è per certi versi speculare a quella in cui si sono sviluppati i movimenti in Brasile, che hanno agito dentro un contesto espansivo di aspettative crescenti frustrate e di potenzialità concretamente esistenti ma bloccate dalla controparte – benché il quadro sia mutato nell’ultimo anno e mezzo, e ora gli effetti della crisi cominciano a mordere anche nelle locomotive dei Brics. Queste “lotte allo specchio” mostrano, nelle pratiche e nei comportamenti soggettivi, importanti tratti comuni, attraverso cui forse possiamo individuare delle tendenze comuni su cui agire. Al contempo, gli elementi di divisione non possono essere superati con un semplice appello alla solidarietà internazionale. Per questo europeismo a prescindere e anti-europeismo nazionalista sono per certi versi due facce della stessa medaglia, e l’ideologia del primo rischia di lasciare il terreno alla pericolosità del secondo.

Insomma, piaccia o non piaccia, l’“età dell’odio” è un dato di realtà. Lo diciamo senza alcun affidamento spontaneista nella rabbia sociale, perché sappiamo che questa può assumere direzioni molto differenti e spesso contrapposte. Lo diciamo invece con sano realismo, appunto, perché sappiamo bene che in un quadro di radicale polarizzazione sociale a essere asciugati sono i terreni intermedi. E ogni campo lasciato libero o immaginato come ontologicamente di destra, produce una profezia che ai autoavvera, lasciando molti dei soggetti colpiti dalla crisi, soprattutto quelli giovanili, nella disarmante alternativa tra status quo e guerra tra poveri, tra accettazione della propria condizione e nichilismo. È dall’assenza della lotta di classe che si genera Tor Sapienza, la “guerra tra poveri” nasce dalla mancanza di una “guerra ai ricchi”. La crisi produce e moltiplica odio: se quell’odio non si indirizza verticalmente, esplode orizzontalmente. Diviene cioè uso capitalistico della crisi, come arma di divisione e governo. Possiamo non accettare questo dato di realtà, rifugiarci nelle nostre piccole certezze o nei nostri spazi di riconoscimento di linguaggi e comportamenti, arretrare nel frontismo oppure nell’autoreferenzialità identitaria: il risultato sarà probabilmente quello di essere spinti nella marginalità politica e sociale. Di accettare cioè un quadro di aspettative decrescenti anche dal punto di vista politico, ricevendo in cambio un salario psicologico di riproduzione delle nostre strutture, seguendo così la stessa triste parabola della sinistra. Lo scollamento radicale dalle istituzioni politiche ufficiali rischia di diventare anche scollamento rispetto alle nostre istituzioni di movimento. Oppure possiamo assumere la sfida lanciata dagli aggressivi governanti dello status quo, da Renzi al Partito di Repubblica, passando per il Corriere: a partire dalla comprensione della nostra insufficienza attuale, per immaginare collettivamente delle scommesse in avanti, organizzandoci nell’“età dell’odio” per costruire nuove aspettative comuni. Ciò significa anche sapersi situare e muovere in partibus infidelium, tra lessici pericolosi da un lato e occasioni di massa involontariamente create da chi ha scopi contrapposti ai nostri dall’altro (leggi lo sciopero generale della Cgil, che ha come unico obiettivo la difesa e riproduzione della struttura funzionariale del sindacato: del resto, il tanto terrorizzante 9 dicembre 2013 era per alcuni aspetti meno ambiguo del 12 dicembre 2014, entrambi però sono popolati da pezzi di composizione sociale da non regalare ad altri). Non per assecondarli in modo subalterno, ma per trasformarli e rovesciarli in modo radicale. Dentro e contro, ancora una volta; perché fuori e altrove rischia oggi di essere sinonimo di ghetto. Rompere i livelli di accettazione prodotti dalla crisi significa capire dove e come è possibile farlo, perché almeno in parte ciò può non avvenire nei luoghi, nelle forme e con i soggetti che abbiamo immaginato. Le aspettative da costruire devono infatti essere fondate non sulla compatibilità con un sistema che strutturalmente punta a riprodurre odio in modo orizzontale, ma sulle lotte e sulla rottura con l’esistente e le sue istituzioni. Se conservatori e reazionari hanno paura un buon motivo ci sarà, per quanto probabilmente dipenda troppo poco da noi. Il nostro compito è capire collettivamente come inverare e dare direzione a questa loro paura.