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Qualche malinteso

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Intervista a FRANÇOIS MASPERO - di FELIX BOGGIO EWANJE-EPEE e STELLA MAGLIANI-BELKACEM (PERIODE)

Pubblichiamo la traduzione di una bella intervista a François Maspero uscita un paio di settimane fa sulla rivista on-line Période. Come scritto nel cappello introduttivo all’intervista, Maspero è stato uno dei grandi traghettatori in Francia del pensiero e dell’eredità comunista e anticolonialista del dopoguerra. Le edizioni Maspero risultano pertanto ancora oggi un riferimento fondamentale per l’edizione critica. Sono state il teatro di dibattiti importanti nella sinistra radicale degli anni ‘60-‘70 e hanno svolto un ruolo pionieristico su molti piani. Maspero è colui che ha pubblicato Fanon, gli scritti politici di Baldwin, Malcolm X, il Che, delle antologie di classici del movimento operaio, la collezione “Teoria” di Althusser, la rivista “Partigiani” e molto altro ancora. Nell’intervista seguente Maspero viene interrogato sul suo progetto e sulle sue ambizioni editoriali. Sebbene, come recita il titolo, le domande poste derivino da qualche malinteso, il suo “tentativo di risposta” restituisce comunque l’immagine di un momento storico, di un’attività e di un uomo particolarmente interessanti.

Mi pare che le questioni che mi ponete riposino su qualche malinteso.

Il primo risiede nell’impiego ripetuto delle parole “teoria” e “teorico”.

Voi siete una rivista marxista; cosa che chiaramente rispetto: si tratta infatti di una griglia di lettura che ha fornito ampi risultati. Ciò detto, bisogna capire che io non sono veramente stato marxista – e ancora meno che ho una formazione teorica. Nella lettura di Marx, non mi sono mai spinto oltre il Manifesto. Ho cominciato la mia attività a 21 anni, lavorando alla realizzazione di un dizionario tecnico anglo-francese per le edizioni Gauthier-Villars, una volta ottenuta la maturità, dopo quattro tentativi falliti di fila, e dopo una preparazione in etnologia al Musée de l’Homme. La mia concezione della storia, della società e della vita è soprattutto di tipo affettivo, probabilmente grazie al fatto che ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza in una famiglia di resistenti. Questa concezione, a partire da ciò che ho vissuto della guerra – e di tutte quelle che l’hanno seguita – è piuttosto shakespeariana. Per parafrasare sommariamente Macbeth: “una storia piena di rumore e di furore, scritta da un folle e raccontata da un’idiota”. Diciamo pure che devo molto a Sartre a proposito della concezione della libertà, e che non ho mai rinnegato Camus.

Dopodiché, non avete voluto prestare molta attenzione – per indulgenza o per incredulità? – a ciò che vi ho scritto: “sono sempre rimasto ai margini delle loro strade [degli autori], un po’ come una spugna, a malapena capace di assorbire e di rigurgitare. Se proprio era il caso, di dare forma, ma nulla più”.

Insisto su questo punto. Pierre Vidal-Naquet [storico radicale, specialista della Grecia antica] un giorno mi ha definito un “intellettuale organico”, spiegandomi che si trattava di un termine impiegato da Gramsci. Gli ho prestato fede.

Mi chiedete di “soffermarmi sui legami che si sono intrecciati tra la libreria La joie de lire, l’attività editoriale e il mondo militante nell’avventura delle edizioni Maspero”. Di fatto, dopo aver vissuto molto male e dopo avere sopportato ancora più a fatica l’insegnamento dell’etnologia per come si svolgeva all’epoca, ho avuto, nella mia prima libreria, in via Monsieur-le-Prince, l’occasione di incontrare dei lettori di “Presenza Africana”, dei militanti delle colonie portoghesi, tra cui Mario de Andrade, Amilcar Cabral, e, più in generale, degli anticolonialisti e dei visitatori molto diversi tra loro come Césaire (all’epoca deputato), Senghor (all’epoca senatore) e L. G. Damas. Grazie a Mario de Andrade sono entrato in contatto con Fanon al fine di pubblicare L’anno V della rivoluzione algerina, chiaramente rifiutato da tutti gli altri editori. È anche il periodo dei miei legami con Peuple et Culture. Dalla fine del 1955 alla fine del 1956, sull’onda del “Disgelo”, ho aderito al partito comunista, da cui sono stato escluso per aver protestato simultaneamente contro Budapest e contro le reticenze del PCF nell’impegnarsi realmente contro la guerra d’Algeria: André Tollet (membro del comitato centrale) mi ha rimproverato di “vomitare sul partito”. Un’esperienza estremamente benefica.

Dopodiché mi sono indebitato per acquistare La joie de lire, e tutto ha funzionato molto bene fino al 1968 (una volta conclusisi, durante la guerra d’Algeria, gli attacchi, le serrate a ripetizione, molto costose, e le accuse per aver attentato alla sicurezza di Stato, per aver incitato i militari alla disobbedienza e alla diserzione, etc. etc.). Vi lavoravamo in sette, e mai e poi mai mi sarei dovuto indebitare di nuovo per raddoppiare la superficie e passare così a una trentina di lavoratori (rifiutavano il termine di “impiegati”). A partire dal quel momento, per me è stato un inferno. Ci tenevo troppo allora a una direzione collettiva, e uno dei membri principali, Emile Copfermann, il cui apporto è stato del resto inestimabile, soprattutto sul piano dell’educazione, della psichiatria e del teatro, sosteneva che bisognasse pubblicare tutto ciò che “contribuisce al dibattito”, e per un momento mi ha anche convinto. Da cui le brochure provenienti sia dai gruppi maoisti che dal gruppo Rivoluzione!, dal Fronte solidarietà Indocina, da Scuola emancipata e da altri di cui ho dimenticato il nome, e, effettivamente, dalla Liga comunista. A causa della pubblicazione della rivista vietata Tricontinental e di diversi libri sulle dittature africane, sono stato perseguitato da tutta una serie di processi e condanne (di cui una per aver insultato un grande amico della Francia, Mobutu: “pubblicazione di opere straniere”, “ingiurie a capi di Stato straniero”) a versare delle somme enormi, alla privazione dei miei diritti civili e anche a tre mesi di prigione (che non ho fatto grazie alla morte di Pompidou, in quanto Giscard ebbe l’ottima idea di dichiarare un’amnistia per le piccole pene). Al contempo, una parte considerevole dei gruppi stessi di cui pubblicavo le brochure spronavano il furto (“ruba da Masp”), perché si trattava di un gesto rivoluzionario. La stragrande maggioranza dei “lavoratori” della libreria lasciava fare, argomentando che non erano di certo stati assunti per giocare agli sbirri. Aggiungo che non potevo fare appello alla polizia, in quanto, dopo averne discusso con il commissario di quartiere, ero stato messo in guardia: vista l’affluenza alla libreria, se fossero sorti dei problemi in caso di arresti, ciò avrebbe fornito alla prefettura – sicuramente molto felice per l’occasione – un valido motivo per chiudere baracca e burattini.

Dopodiché ho aderito alla Liga comunista, nel 1970, soprattutto per reagire contro i membri della direzione collettiva che si proclamavano militanti, mentre non l’erano per nulla (il più terribile [cauchemardesque] dei collaboratori di Partisans era un certo Boris Fraenkel [divenuto poi consigliere fidato di Lionel Jospin]). Questa adesione la devo soprattutto al mio caro amico – che tale è rimasto fino alla fine – Daniel Bensaïd. Poi ebbi un incidente in moto, una grave depressione e infine un tentativo di suicidio che mi costò parecchi giorni di coma e che, naturalmente, ci è si ben premurati nel definire fasullo. Nel 1973, ho smesso di pubblicare le brochure e le riviste Partisans e Tricontinental: quest’ultima, a causa della mia stupida ostinazione nel prolungarne le uscite, quando, in un primo momento, scrissi ai responsabili cubani che non corrispondeva più alle speranze che vi aveva riposto il Che, mandò in rovina la casa editrice. Dopo essermi rimesso a fatica, non ho più aderito alla nuova rifrittura della LCR, né ho mai più pubblicato nulla che rimandasse a essa.

A quell’epoca, devo ammettere che molti autori si sono mobilizzati in un grande movimento di solidarietà per fronteggiare le difficoltà della casa editrice, cosa piuttosto rara. Ho allora deciso di vendere la Joie de lire, unica soluzione siccome una grande parte dei “lavoratori” era divenuta via via più incontrollabile (gli autori stessi, scoraggiati dalle discussioni con loro, decisero di difendere solamente la casa editrice [e non la libreria]), in quanto i nuovi acquirenti si impegnarono a non licenziare il personale. Anche se, poi, si sono immediatamente spicciati nel dichiararsi in liquidazione dopo aver pescato a fondo nelle casse, cosa che è valsa loro un processo e una condanna in tribunale, ma ciò è un’altra storia.

Di tutto ciò conservo due ricordi opposti: da un lato, la formidabile mobilitazione degli autori; dall’altra, al contrario, una visita di Alain Geismar [dal 1986 importante uomo politico del PS] e di Serge July [co-fondatore e direttore, fino al 2006, di Libération], venuti a propormi il loro libro Verso la guerra civile e che, dopo il mio rifiuto, mi abbaiarono contro, dicendomi che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui avrei dovuto restituire tutta la lana che avevo tosato sulla schiena della rivoluzione…

Nelle domande che mi avete inviato parlate di “progetto politico”, di “attività teorica”, di “imperativi politici e teorici”. Non vedo le cose in questi termini. Dico semplicemente che sono sempre stato molto sensibile alle lotte dei popoli per la libertà e che mi sono sempre sentito molto coinvolto da questo assioma: “un popolo che ne opprime un altro non può essere un popolo libero”. Pierre Vidal-Naquet ha posto delle sottili distinzioni tra gli oppositori al colonialismo e al neocolonialismo: eredità dreyfusarda, eredità della resistenza, morale giudeo-cristiana (cito a memoria). Francamente, non so a quale di queste categorie appartenga. In ogni caso, ho sostenuto la lotta del popolo algerino, insieme alla federazione francese dell’FLN. Ho assistito molto in fretta alla confisca di questa lotta a tutto beneficio di una nuova oligarchia. Ho riposto molte speranze negli inizi della rivoluzione cubana, da cui ho preso le distanze dopo la morte del Che, essendo andato io stesso due volte in Bolivia. La militarizzazione della società cubana e l’allineamento sull’Unione Sovietica hanno fatto il resto. Ma non ho mai rinunciato a sostenere tutto ciò che mi appariva carico di speranza. Ripenso sovente a questa frase de L’incrinatura di Scott Fitzgerald che Jorge Semprun amava citare: “bisogna sapere che le cose sono senza speranza e tuttavia essere determinati a cambiarle”.

Aggiungo che ho sempre avuto come principio, dal momento in cui pubblicavo un autore, di sostenerlo in caso di necessità: è così che, per esempio, mi sono fatto espellere dalla Bolivia, poi dalla Spagna, per essere andato a testimoniare in favore dell’autore di una biografia di Franco, e che sono andato a manifestare in Israele, nel 1971, in solidarietà a un autore palestinese internato in un campo. Dal momento che si pubblica, si è responsabili fino alla fine.

Permettetemi ancora di dirvi che non sono capace di rispondere a questa vostra domanda: “Secondo quali imperativi politici o teorici ha favorito ‘l’importazione’ nello spazio francese di scritti e di dibattiti strategici che hanno tratto…?”. Ho solamente fatto ciò che, all’epoca, a torto o a ragione, mi sembrava giusto, e nient’altro. So che durante il Maggio ’68 si sentiva spesso ripetere: “la morale, ce ne fottiamo”. Tuttavia rimango convinto che esista una morale rivoluzionaria (di cui Trotsky ha detto che esige, in confronto a quella borghese, “un coraggio di ben altro calibro”). A parte qualche altra nota stonata (la pubblicazione, sempre per “partecipare al dibattito”, di Albania, terra dell’uomo nuovo, di Gilbert Mury, o di testi di Enver Hodja e della collezione “Yenan” di Alain Badiou… di cui non cesso di pentirmi), penso di non essermela poi cavata tanto male.

Volete sapere come sono giunto all’idea di pubblicare le traduzione del “pensiero nero americano”: proprio come ho detto poc’anzi, nulla più: un minimo di interesse per ciò che succede nel mondo – un minimo senza il quale non si dovrebbe nemmeno meritare la qualità di essere umano. Ciò, del resto, non è accaduto “a partire dalla fine degli anni ‘50”, diciamolo pure: sono arrivato un attimo in ritardo. Ho mancato la pubblicazione di altri libri (o non avuto i mezzi per farlo), come per esempio quelli di Du Bois, di cui tuttavia mi aveva parlato il mio amico Abdou Moumouni.

Alla stessa maniera, ho pubblicato i testi della Rote Armee Fraktion tedesca, precisando, in questo caso, in una piccola prefazione, sia l’importanza che li si doveva accordare e perché essi ci riguardavano, sia le impasse nelle quali mi pareva ci potessero condurre.

Mi chiedete se “le edizioni ‘impegnate’ possono intervenire nella ricomposizione politica della sinistra radicale”. In primo luogo mi rifiuto di applicare l’aggettivo “impegnata” all’edizione: l’autentico impegno richiede un’azione più direttamente concreta che il semplice fatto di pubblicare dei libri, altrimenti sarebbe troppo facile farla franca. Dopodiché, vi ricordo che i tempi sono cambiati profondamente: nel periodo in cui pubblicavo i primi testi, il libro era ancora un medium di primo piano, quasi allo stesso titolo dei giornali, della radio e della televisione (con un solo canale). La fotocopia era ancora allo stadio embrionale e Internet nemmeno lontanamente immaginabile. Sono cosciente che certi libri o brochure possono ancora oggi avere un effetto di massa: penso chiaramente a Indignatevi di Stéphane Hessel, anche se, malgrado tutta l’amicizia che ci ha legati, mi pare che la sola indignazione sia inoperante e insufficiente, e mi son ben guardato dal praticarla nei miei propri scritti.

Mi sembra che comunque all’epoca dell’individualismo a oltranza, del Web, dei social network e tutti quanti [in italiano], dev’essere difficile per la sola edizione che definite “impegnata” intervenire efficacemente nella ricomposizione politica della “sinistra radicale”, termine che sarebbe bene del resto precisare un po’, in quanto pare inglobare tutto e il contrario di tutto – cosa piuttosto inconsueta, se si ritiene di far “teoria”.

Volete che ritorni sul mio incontro con Louis Althusser e Charles Bettelheim. Quanto a Louis Althusser, i rapporti sono stati affettuosi (a parte il periodo di acutizzazione della crisi maniaca, in cui era insostenibile: fu così che un giorno mi sollecitò, dicendomi di farmi rimpiazzare nella direzione delle casa editrice da Etienne Balibar). Faceva un’eccellente spalla d’agnello alle pesche (o alle albicocche, non ricordo): ma con ogni evidenza tra di noi non si è trattato di filosofia che in via del tutto episodica; mi teneva al mio livello ed era bene così. A parte la libertà totale di cui godeva nel gestire la sua collezione, non ha svolto un’influenza decisiva sul resto della produzione. Era solito dire, con una certa condiscendenza, che ciò che pubblicavo apparteneva “all’ambito dell’ideologia”, termine eminentemente peggiorativo per lui, oppure che facevo uscire “dei pessimi libri” (non ha del tutto torto, del resto). Tuttavia, per ben tre volte ho dovuto pubblicare nei “Quaderni liberi” dei libri che aveva innanzitutto programmato nella sua collezione e per i quali avevo dunque firmato un contratto: il primo, Bangla Desh, nazionalismo nella rivoluzione, di Bernard-Herni Lévy; poi L’intelligenza al potere di Michèle Loi (sulle meraviglie della rivoluzione culturale, se ben ricordo); e soprattutto Lettere dall’interno del partito di M. A. Macciocchi: in questo caso, il libro doveva includere all’inizio le lettere di Macciocchi e le risposte di Althusser, poi però lui ha brutalmente rinunciato alle sue, in quanto sosteneva che non manifestassero più alcun interesse. Alla fine, però, le relazioni con Althusser, lo ripeto, sono state amicali. Lui sentiva sempre il bisogno di sedurre. Anche se ciò non gli ha affatto impedito di andare a creare un’altra collana – “Analisi” – da Hachette… Aggiungo che provavo molto affetto per sua moglie Hélène, anche se qui, di nuovo, si tratta di un’altra storia.

Quanto a Charles Bettelheim, è molto semplice: ho avuto molti pochi contatti con lui, tutto avveniva tramite il suo collaboratore, Jacques Charrière (direttore, del resto, del periodico L’Avant-Scène). Prendevo le consegne e obbedivo; non ho avuto che un problema, una volta, con un certo Duménil, il quale, tra l’altro, mi pare che abbia fatto parecchia strada. Non credo però che questa collana molto delimitata abbia avuto una qualche influenza sulle altre pubblicazioni, sia che si tratti della serie “sociologia” (Wright Mills) o “economia” (André Gunder Frank) o più tardi con Critica dell’economia politica.

Il solo che mi onorò di considerazioni altamente teoriche è stato Maurice Godelier, il quale voleva abbeverarmi per delle ore intere, sfortunatamente (o fortunatamente?) in modo del tutto incomprensibile per me. Gli sono comunque sia riconoscente per la pubblicazione di molti grandi classici dell’antropologia (Bisanzio nera, Del rifiuto), anche se quella dei Giardini del corallo di Malinowski non la devo a lui, ma a un vecchio sogno personale. Non gli devo nemmeno, del resto, un gran numero di pubblicazioni più o meno attinenti all’antropologia, come Il lungo viaggio delle genti del Fiume, I fiori del Congo, Il regno di Waalo, i libri di Basil Davidson, Claude Maillassoux, M. H. Dowidar, Pierre-Philippe Rey, Gérard Althabe, Mahjemout Diop, etc. (Mi ricordo ora che il terzo libro che ho pubblicato era Ai piedi del monte Kenya, tesi sul proprio popolo di Jomo Kenyatta, allora in prigione, con una prefazione di Georges Balandier).

In compenso, ho potuto approfittare di molti apporti e consigli, straripanti di generosità, e provenienti da autori come Christian Baudelot o altri come (in ordine sparso) Roger Gentis, Yves Benot, Abdou Moumouni, Albert Memmi, Yves Lacoste (prima della svolta della rivista Hérodote dalla geografia alla geopolitica avvenuta dopo la mia partenza), Jean Copans, Pierre Vidal-Naquet, Jean Maitron, Gérard Althabe (che ha animato il collettivo Luttes sociales), Elizabeth Roudinesco, Mouloud Mammeri (che mi ha fatto pubblicare Isfra di Si Mohand e la sua Grammatica berbera) Taos Amrouche, e un sacco di altri. Probabilmente, ho saputo restare in ascolto delle loro suggestioni, e ogni autore ha apportato le sue. Georges Haupt, a cui ho chiesto di dirigere la “Biblioteca socialista”, rappresentava un romanzo in carne ed ossa, le sue suggestioni sulla storia del movimento socialista scoppiettavano come un fuoco d’artificio. J. P. Vernant, oltre all’apporto inestimabile dei suoi libri, si è sempre comportato nei miei confronti come un fratello maggiore: era un uomo che, fino a poco prima della morte, infondeva una formidabile voglia di vivere. Grazie a lui e a P. Vidal-Naquet, ho potuto pubblicare una collana di studi greci e romani che ha segnato un’epoca. Infine, non potrei mai e poi mai dimenticare Chris Marker, senza il quale, molto semplicemente, non sarei mai potuto essere quel poco che sono stato. Tra le varie cose, mi ha fatto condividere l’ideale di ciò che era allora Peuple et culture, e molto altro ancora: tutta una visione del mondo in cui il sogno restava sempre nel cuore della realtà; senza il sogno (e contrariamente all’utopia), una vita non può essere che vegetativa. Gli devo, oltre a molto altro ancora, questa stessa voglia e questa stessa forza di vivere e di non rinunciare al mestiere.

Mi sono poi dedicato con estremo piacere a curare tre collane. Voix, affidata a Fanchita Gonzalez-Battle e consacrata alla poesia, con per esempio il successo de Settimo uomo di John Berger, dei poemi di Nâzim Hikmet e i primi libri di Tahar Ben Jelloun: Reintrodurre il poetico nel cuore del politico, come diceva Edouard Glilssant, di cui un tempo ho pubblicato la rivista Acoma. “Atti e memorie del popolo”, che ho diretto personalmente sotto lo pseudonimo di Louis Constant e il cui best-seller rimane sempre I diari di guerra di Louis Barthas, pubblicati grazie a Rémy Cazals. Poi La Découverte, fondata sui racconti di viaggi, non soltanto europei: l’Inca Garcilaso de la Vega, Ibn Batouta o Juan Pérez Jolote…

Un’altra caratteristica della casa editrice riguardava il mettersi al servizio di organizzazioni come la CFDT, l’“Unione generale dei lavoratori senegalesi” (il mio compagno e amico Sally N’Dongo), la “Scuola Emancipata”, il “Planning Famigliare”, il sindacato della magistratura, i “Contadini Lavoratori” (predecessori della “Confederazione Contadina”, con Bernard Lambert); e soprattutto il “Gruppo d’informazione e di sostegno degli immigrati”, per cui stampava a cifre modiche dei libri e dei quaderni di alfabetizzazione.

Ho amato moltissimo questo mestiere e, in particolare, tutta la parte attinente la concezione grafica, ma anche il lavoro con i tipografi, gli scambi con gli autori, formidabilmente stimolanti quando mi facevano la grazia di porsi al mio livello. Man mano che il tempo trascorreva, però, ho cominciato sempre più a detestare la professione. Al punto di apparentarla, ancora di recente, al prossenetismo. Presso molti “grandi” (e a volte meno grandi) editori, vi sono degli odiosi comportamenti possessivi. Semplicemente, io odio la possessione quanto il potere. E odiare il potere (sugli uomini come sulla scelta dei libri) è comunque fastidioso quando si è supposti di dover dirigere un’impresa (per quanto si pretenda intellettuale) – ciò che ho fatto, ahimè, per troppo a lungo…

Quando arrivò François Gèze alla fine del 1980, dirigeva già una collana del Cedetim (poi divenuto Centro di studi socialisti del terzo-mondo, poi Centro di studi anti-imperialisti e infine Centro di studi di iniziative e di solidarietà internazionale): stranamente la sola collana autenticamente legata a quel “terzomondismo” di cui mi ha accusato. Mi sono reso conto del mio errore troppo tardi: lui e il suo inseparabile Bruno Parmentier venivano dalle Grandes Ecoles, e quindi, logicamente, io non potevo contrappormi a loro. Mi ricordo che uno dei rimproveri che mi rivolgevano più sovente era di “confondere l’esperienza con le condizioni dell’esperienza”, cosa che per loro doveva costituire, suppongo, un crimine imperdonabile.

Prima della mia partenza, gli ultimi libri che ho pubblicato sono stati La France contre l’Afrique, versione tascabile, L’Odissea nella traduzione di Jaccottet e con una postfazione di François Hartog, i racconti di Kolyma di Varlam Chalamov, le memorie del capitano Dreyfus (con prefazione di Pierre Vidal-Naquet), i Poemi senza eroe di Anna Akhmatova. Me ne sono andato senza indennità, cedendo le mie parti a François Gèze per un solo, simbolico franco. Dopodiché, ho avuto la fortuna di fare dei reportage (fattuali, certo, ossia che non contenevano nulla di “teorico”), di lavorare alla radio e nella stampa: la Cina, Sarajevo, i Balcani, la Palestina, Gaza, i Caraibi, etc. Ho scritto dei romanzi e dei racconti, tradotti in diverse lingue. Sono andato incontro agli abitanti di questa terra – Les Passagers du Roissy-Express, Balkans-Transit – e ho tentato di riferire gli esordi della conquista dell’Algeria in L’Honneur de Saint-Arnaud. Ho fatto più di ottanta traduzioni, da tre lingue diverse, di cui qualcuna mi è rimasta impressa nel cuore: Conrad, Rigoni-Stern, César Vallejo, Alvaro Mutis… Tutte cose, queste, che mi hanno stimolato intellettualmente più dell’edizione, anche se capisco chiaramente che fuoriescano dal vostro campo di interessi.

Ho continuato per quattro anni la pubblicazione della rivista L’Alternative (per i diritti e le libertà nell’Europa dell’Est), alla quale ho dovuto per sfortuna porre fine perché, dopo diversi, eccellenti numeri, portatori di speranze nelle potenzialità dei paesi ancora sotto il dominio sovietico – speranze, ahinoi, tradite più tardi – il peso dei nazionalismi (rumeno, ucraino, dei paesi baltici) divenne insostenibile. A tal proposito ho avuto la fortuna di vivere in Polonia certi momenti stimolanti del “KOR” poi di “Solidarnosc”, e di conoscere, tra gli altri, degli amici come Jean-Yves Potel, o Adam Michnik e Jacek Kuron incontrati a Varsavia, Lev Kopelev o Efim Etkon, così come, a Praga, i militanti cechi della Carta 77: dei momenti intensi.

Insomma, sono cosciente di non aver saputo rispondere in modo soddisfacente alle vostre domande. Ma da parte mia, temo che abbiate commesso un errore sulla persona, immaginandovi un individuo che non sono e che non sono mai stato. Non ho mai avuto una griglia di lettura teorica dei testi che pubblicavo, ho semplicemente avuto la fortuna di vedere decine di autori e anche di lettori che provenivano da una molteplicità di direzioni, a seconda delle mie curiosità e di una certa visione della storia e delle società di cui erano portatori, e soprattutto di speranze che potevano più o  meno coincidere in profondità con le mie.

In fin dei conti, temo che tutto ciò non apporti granché a quanto già contenuto nel libro François Maspero et les paysages humains

* Traduzione del francese di Davide Gallo Lassere.