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L’autonomia dell’intelletto generale: ecco il problema

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Intervista a FRANCO BIFO BERARDI - di COMMONWARE

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Rispetto alla tua recente esperienza in Corea hai evidenziato la tendenza a una disiscrizione dall’università, da cui anche l’estremo interesse che hanno esperienze come quella di ricerca e formazione indipendente di Sujonomo. Una tendenza per certi versi analoga può essere riscontrata anche in Italia, seppur in forme decisamente ridotte: i dati del Cun sui 50.000 immatricolati in meno negli ultimi dieci anni parlano di una dimensione non più espansiva dell’università. Questa parziale tendenza alla crescita della disiscrizione non deriva esclusivamente da questioni economiche, che pure ovviamente contano (rispetto alla Corea e agli Stati Uniti in Italia le tasse universitarie sono ancora relativamente basse), ma probabilmente ha a che fare anche con una perdita di senso complessiva dell’università e dell’esperienza formativa che lì si può fare. Se questo è il trend (per quanto contraddittorio e con forme e tempi estremamente differenziati), come si può agire dentro questa tendenza?

A Seul ho partecipato a più iniziative: una di queste è stata una conferenza in una facoltà umanistica, cui prendevano parte rappresentanze studentesche di diverse università cittadine. Veniva fuori come in Corea il modello americano (così come lì è chiamato) tenda a diventare quello prevalente, l’università pubblica tende a essere svalutata a favore di quella privata. Il titolo di studio pubblico perde sempre più valore a favore di quello privato, e naturalmente privatizzazione vuol dire aumento di costi e tutto quello che sappiamo. In alcune situazioni universitarie c’è un movimento contro questo processo, ma contemporaneamente succede che un numero consistente di persone alla domanda “cosa fai nella vita?” risponda “il ricercatore indipendente”.

All’inizio pensavo che chiunque di noi può definirsi un ricercatore indipendente, invece in Corea è proprio una scelta di autodefinizione che ha un significato preciso. Andare all’università costa sempre di più e serve sempre di meno dal punto di vista professionale lavorativo, ma serve sempre di meno anche rispetto alla qualità e all’interesse dell’esperienza formativa. Sono andato a pranzo con un gruppo di persone capitanato da un professore che mi ha dichiarato la sua decisione di abbandonare il posto di lavoro: lo pagavano sempre di meno (c’è da dire che i salari degli insegnanti in Corea, a tutti i livelli, sono piuttosto alti), si lamentava di essere trattato sempre peggio, il rapporto con gli studenti era diventato intollerabile nelle condizioni che si stanno determinando, allora aveva deciso di costituire un gruppo di ricercatori indipendenti.

Sujonomo è appunto un gruppo di ricercatori indipendenti, alcuni di loro insegnano o studiano all’università, altri fanno il benzinaio o il prete. La composizione del gruppo è molto eterogenea, ma il carattere essenziale è proprio quello di un’istituzione della ricerca indipendente: è il fenomeno più interessante con cui sono entrato in contatto nella mia esperienza coreana.

Tradurlo nella situazione europea è forse un modo per collegarsi a una tendenza che già esiste. É evidente che la gente ragiona su molte cose: in primo luogo sul fatto che la laurea, nella maggioranza dei casi, ti serve sempre di meno; in secondo luogo, non sono mica tutti imbecilli, qualcuno pensa che andare all’università sia ormai un’esperienza priva di qualsiasi fascino e interesse intellettuale.

Una tendenza del genere dovrebbe essere presentata in maniera meno dura possibile: il problema non è la scelta morale o politica di abbandonare l’università, ma poiché è probabile che si manifesti anche qui una tendenza di questo genere interpretiamola, diamole consapevolezza e realismo. É difficile, perché realismo vuole dire anche questioni come il futuro professionale. Insomma vale la pena di chiedersi: per quali ragioni studiamo? Uno, perché abbiamo bisogno di un salario domani, e la questione è molto complicata in quanto non dipende solo dal titolo di studio; due, perché ci piace nella vita non essere coglioni. Ma l’università nell’epoca attuale serve sempre meno per avere un salario, e serve sempre di più per diventare coglioni.

Commonware parte ovviamente da una storia e una piattaforma teorica largamente definite, al contempo dovrebbero crearsi le condizioni per progetti di ricerca e autoformazione più ampi. C’è per esempio l’esperienza di Public School, piattaforma online lanciata a Berlino e New York che consiste di gruppi di studenti o altre persone che comunicano al sito di voler studiare il pensiero di Newton, o chissà cosa d’altro. Cercano un esperto stabiliscono la location fisica oppure, se gli studenti sono in luoghi distanti fra loro, il sito mette a disposizione uno spazio per il virtual learning. Mi dicono che a Berlino e a New York ora ci sono proprio delle classi organizzate fisicamente in luoghi definiti e poi c’è un’attività in rete. Public School ovviamente è avviata da gente che viene dal movimento, ma non è un progetto di ricerca finalizzato o prestrutturato, è semplicemente una struttura di servizio. Questa potrebbe essere una delle possibili evoluzioni di Commonware.

Hai più volte sostenuto che la lotta è tra neuro-totalitarismo e autorganizzazione dell’intelletto generale. Cosa significa e quali conseguenze politiche pone?

Il tema del neuro-totalitarismo è un tema su cui sto lavorando, raccolgo informazioni e scrivo, ma forse si potrebbe pensare a un’iniziativa di tipo seminariale a partire da alcune questioni di grande attualità, tipo google glass, georeferenzialità o Prism.

Cosa significano questi dati dell’evoluzione tecnologica attuale dal punto di vista della soggettività futura?

Pensiamo al grande scandalo che è sorto intorno a Prism dopo le rivelazioni fatte da Edward Snowden. A mio parere non si tratta di un problema di privacy, infatti la privacy non esiste più, è una parola per gli allocchi; il problema è la precostituzione di strutture di controllo sulle capacità di lavoro e di consumo della mente umana. Questo è il punto, il processo è già largamente attivo: non occorre che l’Nsa o la Cia si mettano a frugare nella tua mail, le strutture di rintracciamento del potenziale comportamento produttivo, economico e consumativo sono già tutte in atto, la questione è analizzarle e anche – questo è un nodo puramente politico, addirittura etico – chiedersi se l’atteggiamento tradizionale dei movimenti sia ancora efficace in una situazione di questo tipo. Puoi pensare di opporti a google glass? Naturalmente no, non vuole dire niente, devi elaborare strategie che abbiano un piano di consistenza totalmente diverso da quello dell’opposizione politica. I piani di elaborazione sono quindi molteplici: c’è il piano di analisi dei fenomeni in atto, c’è quello della comprensione del loro significato politico presente, c’è quello dell’elaborazione di possibili modulazioni della soggettività.

Da un lato, tu metti in evidenza come le classiche forme della resistenza oggi siano delle armi spuntate, tendano a girare a vuoto o abbiano difficoltà a uscire da una posizione testimoniale; dall’altro, resta il problema di come coniugare il processo di autorganizzazione del lavoro cognitivo con i punti di rottura di quello che tu definisci “neuro-totalitarismo” – che, per restare al piano della formazione e della ricerca, si situano all’interno o sui bordi dell’università.

Una cosa è individuare un problema, altra cosa è articolarne la soluzione. Secondo me è urgente uno spostamento dell’ottica. Detta così, l’autorganizzazione del general intellect è una formula che non si sa come sviluppare: probabilmente è l’argomento del prossimo ventennio o trentennio, quindi il nostro compito è aprire una questione. La centralità delle tematiche del general intellect ci è nota almeno da quando è stato pubblicato il Frammento sulle macchine, però ecco un altro argomento che vale la pena di affrontare: storia della lettura politica del Frammento sulle macchine, in Italia e non solo.

Noi l’abbiamo letto come appendice della storia della lotta operaia, e questo era un buon modo di impostare la questione: gli operai vinceranno, dopo di che consegneranno ai lavoratori tecnico-scientifici il compito di liberarli dallo sfruttamento e dalla fatica. Questo è lo schemino che si poteva avere in mente nel 1969. Le cose però non stanno così per una serie di ragioni, innanzitutto perché gli operai non hanno vinto.

Dunque, come stanno le cose? Da un po’ di anni io sto ragionando sul tema della sofferenza psichica come motore dell’autorganizzazione dei lavoratori cognitivi. So che si tratta di una impostazione debole perché la sofferenza psichica qualche volta può aprire degli orizzonti, ma molto spesso li chiude. Non penso che il suicidio sia un comportamento da consigliare, però credo che sia la fenomenologia di un comportamento emergente.

Siamo di fronte a un problema: aprire il cantiere “autorganizzazione del lavoro cognitivo” vuole dire squadernare l’insieme delle dimensioni del sapere umano, se ne devono occupare insieme gli informatici, gli ingegneri, i medici, nessuno può surrogare il lavoro specifico di ricerca disciplinare. Quel che noi possiamo fare è chiederci: qual è il lavoro politico o filosofico o metodologico che va in quella direzione? Io direi la creazione di una piattaforma tecnica d’interscambio fra saperi in formazione. Quando è nata la mailing list Rekombinant, un anno dopo Seattle e dopo il No-Ocse a Bologna, l’idea era questa: RK non vuole essere un sito di discussione politica o d’informazione, ma uno spazio in cui si lavora alla creazione di una piattaforma tecnica per l’autorganizzazione del lavoro cognitivo. Era un progetto più grande di noi, ma la questione resta quella. Qualche volta ci si agita per fare cose più grandi di noi, poi arriva qualcuno che è grande il giusto e le fa...

Affrontiamo la questione europea. É evidente che nel quadro attuale un discorso sull’Europa, che resta per noi un indispensabile piano su cui agire, va ripensato; lo spazio europeo stesso va evidentemente ricostruito lungo nuove coordinate, pena l’evocazione di un’Europa ideale che non tiene conto di ciò che è oggi l’Europa reale. Proprio per contrastare ogni tentazione neosovranista e qualsiasi ripiegamento reazionario, è necessario porsi il problema del livello su cui agire la critica di un’Europa diventata un mostro. Allora, quali sono secondo te questi livelli dell’azione politica transazionale, facendo anche i conti con le difficoltà che i movimenti hanno avuto in questi anni nella costruzione di reti europee efficaci e durature?

Io non condivido quello che ha recentemente scritto Frédéric Lordon, cioè l’idea secondo cui l’unica forma di autogoverno possibile consista nella sovranità e la sovranità è necessariamente nazionale: se è così, che vada in malora la sovranità perché l’abbiamo già conosciuta! Mi pare, dunque, che la questione vada spostata rispetto a quanto dice Lordon: il problema non è qual è il luogo vero della democrazia (parola che suggerirei di dimenticare), a rigore direi che non è più nemmeno un problema della politica, è proprio un problema di forza produttiva e innanzitutto della forza produttiva cognitiva. Ciò detto, la questione dell’Europa rischia di caderci in una maniera o nell’altra sulla testa, cioè o nella maniera della Banca centrale europea, oppure nella maniera di un ritorno disperato del sovranismo – Lordon è da questo punto di vista realistico, sostiene che comunque sarà un periodo deprimente. Allora io direi che la questione europea resta al centro del discorso ma non più dell’iniziativa politica. L’iniziativa politica deve spostarsi su un tema del tutto deterritorializzato, ovvero senza territorio istituzionale: è il tema dell’autorganizzazione del lavoro cognitivo, è questo il problema del secolo.

L’Europa vada a farsi fottere, è questa l’Europa che volete? Tenetevela! É vero che, nel modo in cui l’abbiamo posto nel decennio passato, quello dell’Europa non era un problema territoriale, bensì una metafora per dire una cosa più complessa. Sciogliamo allora la metafora, se continuiamo a usarla ci fraintendiamo: lasciamola perdere, l’Europa è un disastro e – semmai lo siamo stati – oggi non possiamo essere europeisti. Mi piace l’idea di fare tutti richiesta per votare in Germania, però è appunto una delle tante azioni di demistificazione che si possono fare. Invece nel 2011 abbiamo pensato che potesse esserci un movimento capace di aprire la metafora Europa e farne venire fuori un processo di autorganizzazione sociale: questo non è avvenuto, forse perché l’Europa è questo tipo di scatola. Non credo che valga la pena di gridare niente in piazza a proposito dell’Europa, per il momento non s’intravedono le condizioni per un processo d’insurrezione europea; parliamo invece del contenuto sociale e autorganizzativo, poi se la forma sarà l’Europa bene.

Quando si parla di insurrezione europea sono in un leggero imbarazzo perché hanno tradotto in America il mio libro “La sollevazione”, ora mi chiedono di andarlo a presentare, a breve sarò a Vancouver per presentarlo. Adesso potrei arrampicarmi sugli specchi e dire che sostenevo una cosa diversa, ma in realtà in quel libro – scritto tra il 2010 e il 2011 – la mia tesi era che l’insurrezione europea era imminente. Ora devo andare in giro a dire che l’insurrezione europea non c’è stata, oppure che c’è stata, così come c’è stata l’insurrezione egiziana, ma dove sono andate a finire? L’esperienza mediorientale è una lezione sulla quale bisogna ragionare, non possiamo far finta che non sia successo niente, anche perché forse fra poco non parleremo più d’Europa, ci occuperemo della guerra euro-mediterranea, è questo il prossimo argomento.

Insomma, a Vancouver non parlerò de “La sollevazione” ma di neuro-plasticità, e spiegherò perché la neuro-plasticità è l’unica cosa riuscita.

In Turchia e, forse ancor di più, in Brasile le lotte che hanno animato l’ultimo periodo hanno preso avvio in una situazione non di recessione ma di espansione economica. Nel tuo ultimo viaggio in Corea sei entrato in contatto con una società che come ci racconti, nel solo spazio di due generazioni, è passata dall’esperienza della povertà e della miseria largamente diffuse a un altissimo livello di ricchezza e di consumo, pari ai paesi più avanzati dell’Occidente. L’ultima generazione sta tuttavia iniziando a scontare la diffusione della precarietà, la privatizzazione e l’alto costo dell’educazione, l’indebitamento. Di contro, la resistenza sociale appare frammentaria, individualizzata, per lo più caratterizzata da azioni dimostrative e simboliche. Accanto a queste forme di resistenza che non riescono a organizzarsi in modo incisivo, prendono corpo esperienze come Sujonomo, ovvero centri autonomi per l’autorganizzazione del lavoro cognitivo. Siamo dinanzi dunque a processi di aggregazione sociale diversi in paesi accomunati da una situazione di crescita economica: da un lato la Turchia e il Brasile praticano l’occupazione degli spazi metropolitani e forme d’insorgenza di massa, dall’altro la Corea sviluppa esperienze che puntano all’autorganizzazione del general intellect praticando azioni politiche differenti. Se le lotte in questi paesi ci dimostrano evidentemente la crisi di un modello di sviluppo e l’esaurimento delle promesse capitalistiche di progresso sociale, quale valutazione fai delle differenti forme di resistenza elaborate e messe in atto? È possibile estrapolare una riflessione che possa servirci da orientamento per le lotte future?

Io ho l’impressione che le esplosioni di massa continueranno a esserci nei prossimi anni. Il problema è che dobbiamo chiederci non solo qual è la loro molla, la loro ragione, la loro spinta, da dove vengono, questo magari riusciamo a capirlo; dobbiamo capire a che cosa servono e in quale orizzonte strategico si collocano. L’esperienza della Turchia, come quella di tutta l’area, mi pare catastrofica: quello che si può definire come movimento moltitudinario – per usare un’espressione che non mi convince – non produce effetti duraturi di tipo positivo. Il caso brasiliano mi è abbastanza oscuro, lì mi pare che le cose siano in movimento, però è una questione continentale. Se ho capito bene Dilma Rousseff ha detto che i profitti dell’estrazione petrolifera nei prossimi anni saranno destinati alla scuola e ad altri servizi, saranno cioè socializzati; se è vero, è estremamente significativo, però appunto riguarda la situazione dell’intera America Latina. Io non riesco a vedere una valenza strategica nell’esplosione di massa, soprattutto dopo l’esperienza egiziana e anche siriana. In assenza di una prospettiva strategica dei movimenti quello che fai è semplicemente aprire la porta a facce diverse del potere. Fatico a dirlo perché non conosco abbastanza la situazione turca, ho seguito quello che è successo e mi sembra disperante, però chi lo sa cosa c’è dentro. Soprattutto, quello che mi fa impressione è che la Turchia è un paese con una crescita impetuosa: l’anno scorso ho partecipato a un seminario organizzato da urbanisti turchi, da quello che dicevano l’impressione era che la qualità della vita e della soggettività fosse in pieno rigoglio, che tutti fossero felici in Turchia. Non mi sembra che sia così, però non capisco dove va a parare una storia di questo genere. É un po’ come quello che dicevamo prima sull’Europa: le esplosioni di massa sono come una metafora che contiene la possibilità dell’autorganizzazione sociale, però su cosa vogliamo mettere l’accento, sull’esplosione di massa o sull’autorganizzazione sociale? Se poniamo l’accento sull’esplosione di massa rischiamo di infilarci in situazioni come quella che l’Egitto ci mostra, se invece mettiamo l’accento sull’autorganizzazione sociale certo l’esplosione di massa è un passaggio qualche volta necessario, però dobbiamo ragionarci in modo diverso. È la ragione per cui la parola “moltitudine” non mi ha mai convinto: il concetto di moltitudine vuol dire che il potere non può controllare la soggettività, va bene, però voglio sapere cosa c’è dentro la soggettività, come si esprimerà, ciò che sta all’interno. Se non riusciamo a capirlo, magari il potere non controlla, però alla fine è lui che incassa gli effetti; poi c’è sempre un eccesso, ma quell’eccesso non è mai sufficiente per trasformarsi in autonomia.

Prima hai tirato fuori una suggestione interessante, che potrebbe diventare tema di un seminario futuro: una storia della lettura politica del Frammento sulle macchine. Tu ti sei sempre definito un composizionista: allora, dentro a questa storia, come va oggi ripensata una politica composizionista a partire dal problema dell’autorganizzazione dell’intelletto generale?

Sono circa cinquant’anni che leggo Tronti, ma mai come in “Noi operaisti” mi sono reso conto di quanto sono realmente lontano da Tronti. Ti affascina, dice le cose così bene che è il caso di crederci, ma in questo libretto mi sono reso conto del fatto che – per quanto sia certamente un grande della letteratura italiana – sul piano politico Tronti è problematico. Sostiene che tra gli operai e i carri armati hanno ragione i carri armati, anche se i giovani intellettuali avevano simpatizzato con gli operai. Io penso l’esatto contrario, non solo perché mi stanno antipatici i carri armati, ma perché credo che la vera ragione della sconfitta degli operai nel XX secolo sia stata l’identificazione tra operai e Stato. Qui bisognerebbe ragionare proprio raccontandosi la storia del XX secolo, da quando Lenin ha avuto la malsana idea di scrivere il “Che fare?”. Sarebbe bello fare un seminario storico intitolato “E se la Rivoluzione d’Ottobre non ci fosse stata?”.

Tronti dice che l’operaismo arriva fino al 1968, perché il ’68 è una questione interna alla borghesia che deve decidere quale settore governerà la modernizzazione. In realtà Tronti già lo diceva allora. Non a caso dopo il ’68 sostiene che il problema è il PCI come autonomia del politico. I risultati li vediamo. Tronti mi resta molto simpatico, dice le cose in modo esplicito e spiritoso e ti dà una visione del secolo grandissima che però non condivido minimamente. Mi sono anche chiesto in che senso possiamo dirci operaisti, e la mia risposta è: solo nel senso del metodo, non dei contenuti. In altri termini, se entro nei contenuti divergo completamente, se mi riferisco al metodo sono d’accordo con Tronti su quella che chiamerei la precessione del soggettivo, sul fatto cioè che il soggettivo viene prima e la struttura viene dopo.

Ora vengo alla vostra domanda sulla composizione. Quello che Tronti non vede nel ’68 è invece la sua cosa più importante: è infatti il primo momento nel quale il lavoro cognitivo diventa consapevole. Nel libro “From Counterculture to Cyberculture” il californiano Frederick Turner racconta il Free Speech Movement di Berkeley come non avevo mai letto, poi racconta la storia della cultura californiana e la nascita del neoliberismo, l’ambiguità della cybercultura fra libertarismo e liberismo, l’emergere del discorso di Newt Gingrich o della destra californiana dall’interno del movimento del ’68. Turner sposta il punto di vista in California e racconta la storia come non la vedi da nessuna parte del mondo. Sicuramente Mario Savio – l’attivista che parlò a Berkeley il 2 dicembre 1964 dando inizio al movimento che oggi chiamiamo ‘Sessantotto - non aveva letto il Frammento sulle macchine, ma è come se l’avesse letto. Turner racconta il movimento californiano come l’origine di tutto quello che è successo dopo, ed effettivamente è così. É inutile ricordare che la California è il luogo in cui nascono l’informatica e la rete; da quel punto di vista, com’è possibile oggi reimpostare un processo di autonomizzazione? Noi, la tradizione post-operaista – e questo è certamente il maggior titolo di merito di Negri – siamo stati gli unici a vedere la complanarità della storia dell’autonomia e della nascita del neoliberismo, quindi ad attribuire al neoliberismo una sorta di “nobiltà”. Qual è il punto in cui questa complanarità nuovamente si rompe? Oggi la risposta non c’è, probabilmente non è una risposta che possiamo dare in termini politici, dicendo che bisogna fare questo piuttosto che quello; affinché il lavoro cognitivo possa emanciparsi dalla sua destinazione capitalista e quindi affinché possa essere rimesso all’ordine del giorno il problema della liberazione dallo sfruttamento, occorre tutto il lavoro necessario perché i saperi si dispieghino in una condizione libera. Il problema è appunto la piattaforma tecnica per l’autorganizzazione. Se siamo disperati perché le nostre capacità d’invenzione limitate al campo della politica non sono in grado di impostare il problema, bisogna allora che trasferiamo i nostri bagagli su un altro territorio, quello dell’autorganizzazione epistemica dei contenuti del sapere. Non c’è escamotage che ci permetta di evitare questo processo, necessariamente lungo. Qui potrebbe esserci la domanda tragica: dal momento che è un processo lungo, cosa succede nel frattempo? Non lo sappiamo, però è così, la frittata è fatta, il XX secolo non si cancella, gli effetti di quello che è successo li vivremo tutti.

Più che porre in alternativa esplosione e autonomia, il problema ci sembra pensarne il rapporto. In altri termini, come possiamo riarticolare il problema dell’autorganizzazione del lavoro cognitivo a partire dalle trasformazioni delle soggettività che si danno dentro le insorgenze di massa? Qui dentro, infatti, il problema che apriamo viene collocato su un piano nuovo...

Questa non è una domanda, è una risposta che io condivido. É vero, l’esplosione di massa può porre le condizioni della trasformazione delle soggettività, però se nessuno si occupa dell’autorganizzazione sociale avviene solo l’esplosione di massa e va a finire generalmente male. Nel libro “La sollevazione” formulo l’ipotesi secondo cui l’insurrezione non è un’azione politica rivolta ad abbattere lo Stato, ma è semplicemente una convocazione della corporeità intelligente della società. Il punto è che bisogna che ci occupiamo specificamente di quello che accade nel cervello, si deve aprire la questione, non come un’allusione politica bensì come un compito che spetta alle forze fresche. Vorrei invitare i nostri giovani a pensare che nel corso della loro esistenza dovranno, oltre che trovare le condizioni per vivere una bella vita, trovare anche il modo i cui i loro saperi avranno una funzione socialmente alternativa a quella cui il capitale li destina, porlo come imperativo numero uno.

Parafrasando Tronti, allora, potremmo chiudere dicendo “la strategia all’autonomia, la tattica all’insurrezione”...