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Infocontact Calabria. Perché gli operatori non si ribellano

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di CARLO CUCCOMARINO e FRANCESCO MARIA PEZZULLI

Gran parte degli operatori di call center, forse la maggioranza, non si considerano lavoratori cognitivi, perché non ritengono – o non sanno – di svolgere un lavoro cognitivo. Questo problema delle “forme percettive di riconoscimento” della propria soggettività precaria cognitiva è di fondamentale importanza. Le conseguenze negative che la percezione sfocata del proprio ruolo sociale e lavorativo provocano sono infatti enormi, sia a livello individuale (frustrazione, depressione, alienazione, eccetera) che sociale e politico (individualizzazione, competitività, assenza di forme conflittuali adeguate).

Il nostro racconto, non il primo, è situato in Calabria e descrive un contesto in cui l’attività lavorativa è fatta di relazioni, comunicazione, sentimenti che pervadono la vita degli individui ma che, allo stesso tempo, sono modellati e imposti dalle nuove modalità di accumulazione che il capitalismo recente si è dato. Nell’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria abbiamo individuato concretamente tali modalità; abbiamo insistito, con gli operatori, sui processi di soggettivazione alternativa: ma non ci sono state significative inversioni di tendenza, così come sono stati assenti – fatte salve alcune occupazioni per lo più spontanee o la reinvenzione di attacchi luddisti – significativi punti di rottura.

Il presente scritto, sul caso Infocontact, è paradigmatico di come venga messo al lavoro il bios, delle difficoltà che si incontrano nella costruzione del conflitto e di adeguate forme rappresentanza degli operatori di call center.

La critica della rappresentanza sindacale oggi si basa sulla denuncia diretta della complicità e della subalternità dei sindacati alle istanze padronali e alle compatibilità economiche dettate dal processo di finanziarizzazione a livello globale. Il sindacato è oggi non solo un mezzo di controllo della forza lavoro, ma anche lo strumento garante della sua dipendenza politica e culturale.

Con i suoi 2.650 operatori, Infocontact è il secondo call center calabrese in termini di fatturato e organico. Fondata nel 2007, è gestita da Alfonso Graziani, ottuagenario ingegnere romano in pensione, con esperienza manageriale in diverse multinazionali. Le sedi calabresi sono due: Lamezia Terme, in provincia di Catanzaro, e Rende, in provincia di Cosenza. I dipendenti sono 1.500, i collaboratori oltre 1.000 divisi tra interinali e a progetto. Numeri importanti per la regione fanalino di coda nazionale per quanto riguarda tutti gli indicatori economici, a partire da quelli occupazionali.

Infocontac è seconda solo alla “Abramo Customer Car Spa” che, con oltre 3.000 addetti, opera da circa vent’anni sotto la guida della famiglia dell’attuale sindaco di Catanzaro. Entrambe le società, per la loro stabilità gestionale e operativa, sono diventate nel corso degli anni un punto di riferimento sia delle imprese committenti che dei sindacati confederali[1]. Questi ultimi, ormai impegnati (con scarso successo) esclusivamente al tesseramento di lavoratori immateriali, mostrano di aver perso ogni interesse, da un lato, verso la “conoscenza operaia” del settore, la “composizione tecnica” della forza lavoro occupata, i processi di soggettivazione operanti negli stabilimenti; da un altro lato, verso le forme e le modalità di lotta adeguate a rivendicare aumenti salariali e, al contempo, a contrastare gli elevati tassi di sfruttamento.

Vogliamo narrare la storia di Infocontac in relazione ad un’altra storia calabrese di call center – paradossale e tragica – quella di Phonemedia, conclusasi tristemente a cavallo tra il 2010 e il 2011. Le vicende delle due aziende hanno molti tratti in comune. Come Infocontact, Phonemedia è stata un'azienda osannata leader dei mercati e divenuta, in breve tempo, un’azienda con oltre 5.000 fantasmi sparsi in 12 città italiane, tra cui Catanzaro e Vibo Valentia. Solo negli stabilimenti di queste ultime due ha lasciato un indelebile doloroso ricordo: oltre 2.000 operatori che dal 31 dicembre 2011 si trovano senza lavoro. Una storia tragica dicevamo, utile per ricordare come in questo settore si collocano imprenditori senza nessuna strategia di sviluppo aziendale, ma con pronunciati animal spirits, tanto più incapaci quanto più rapaci. Pensare che esistano padroni illuminati in questo settore regionale è a dir poco incomprensibile; ma rimane comunque, inspiegabilmente, il chiodo fisso delle istituzioni locali e dei sindacati. A tal proposito, ci domandiamo: i modi con cui è stata (e viene tutt’ora) utilizzata la disponibilità lavorativa in questo settore – sia in tempo di crisi che di prosperità di commesse – può far sperare in una diversa presa di posizione degli operatori, dei sindacati e delle istituzioni locali?

Le storie di Phonemedia e Infocontact vanno lette come storie di due imprenditori che non operano in condizioni di pari opportunità di scelta, quindi di pari libertà. Imprenditori che pretendevano, attraverso la formazione cinica del loro management, un elevatissimo livello di produttività a fronte di bassissimi compensi, a conferma – semmai ce ne fosse stato il bisogno – che i due contraenti non hanno eguale autonomia decisionale.

Verso la fine del 2013, come ci raccontano alcuni operatori del sito lametino, un comunicato a ciel sereno informa che la commessa Wind non sarà rinnovata, e che quindi nella sede di Lamezia Terme 272 posti di lavoro diventano “eccedenti”. Cosi inizia l’incubo per molti operatori. Da tutti ritenuto un call center d’eccellenza, con un portafoglio clienti notevole, Infocontact comincia a scricchiolare (come nel dicembre del 2008 Phonemedia) e malgrado rivendicasse solidità di conti gli stipendi iniziano ad essere pagati in ritardo ed in due tranches.

Passata l’epifania, l’8 gennaio 2014, arriva la doccia gelata: il management annuncia un buco di oltre 24 milioni di euro per contributi fiscali non pagati[2]. Sapremo mesi dopo, intorno a ferragosto, per bocca del segretario regionale della SLC/Cgil, Daniele Carchidi, che non si tratta di un buco ma di una voragine: ben 65milioni di euro mancano all’appello: Infocontact è spacciata! Potenza del controllo sui dati aziendali, aggiungiamo noi!

Nei 7 mesi che intercorrono tra l’informativa del management e quella del sindacato le cose si definiscono materialmente. Vediamo i momenti salienti di tale definizione.

In principio ci sono lunghi giorni di trattative, tra mille peripezie e proposte oscene tra le parti, che sboccano nella richiesta, accordata, dell’applicazione di “contratti di solidarietà” per gli operatori, che prevedevano la diminuzione dell’orario lavorativo al fine di evitare la riduzione del personale[3]. L’accordo, nei fatti, ha ridotto i compensi del 29%, nonostante gli operatori fossero il motore dell’azienda e non avessero nessuna responsabilità sul buco dei conti aziendali. Nonostante ciò, come effetto ultimo e paradossale di questa vicenda, i compensi non superano la modica cifra di 300/350 euro al mese, senza alternative all'orizzonte e nella condizione di costante ricatto[4].

Nei mesi successivi cominciano le voci incontrollate di riunioni e assemblee sindacali nelle quali non si capisce bene cosa si sia deciso o dibattuto; oppure dei 50 milioni di euro fatturati da Infocontact nel 2013, e così via. Una sorta di carnevalata di informazioni quasi sempre discordanti che però hanno sortito l'effetto voluto: offrire una “speranza” agli operatori lametini, ormai stremati dalle incertezze e dai timori di una vicenda – gestita ad hoc dalle organizzazioni padronali e sindacali – della quale non capivano più nulla: una speranza a fronte dell’annullamento di qualsiasi esercizio di libertà[5].

Il 4 giugno il carnevale è in piazza, a Roma, un corteo nazionale degli operatori di call center in nome di contratti chiari e contro le delocalizzazioni, organizzato da Slc/Cgil, Fistel/Cisl e Uilcom/Uil. Gli operatori di Lamezia, che dovevano cogliere questa occasione semplicemente per rendere visibile a livello nazionale quanto stava accadendo nel loro stabilimento, non hanno partecipato alla manifestazione. Mentre, paradossalmente, una rappresentanza sindacalizzata degli operatori Infocontact di Rende (che non sono in contratto di solidarietà) ha partecipato alla manifestazione senza far emergere la situazione degli operatori lametini. Eppure, proprio quest’ultima, è il segnale evidente di come tutto il gruppo Infocontact sia a rischio in Calabria; di come, in altri termini, domani potrebbe toccare a loro di essere licenziati o retribuiti miseramente.

Per tutto il mese di giugno, comunque, i compensi “solidali” sono arrivati più o meno regolarmente, mentre le aziende interessate all’acquisto di Infocontact hanno rilasciato quasi giornalmente dichiarazioni che di fatto hanno influenzato le speranze e le condotte degli operatori. I quali, nonostante i lunghi silenzi dell’azienda, hanno sempre prestato molta attenzione alle diverse informazioni (spesso prive di qualsiasi logica), accreditando di fatto gli attori organizzati di questa miserabile vicenda.

In questo periodo l’attenzione dei sindacati passa dal Presidente del Tribunale di Lamezia Terme, Bruno Brattoli, all'Amministratore Straordinario per la procedura Infocontact appena nominato, Francesco Perroni, un professore della Bocconi, già commissario liquidatore dell’affare San Raffaele. Verso la fine di luglio, dopo il sabotaggio delle capacità autonome dei lavoratori lametini di invertire i rapporti di forza vigenti in azienda, diventa per i sindacati fondamentale incontrare il bocconiano Perroni. La parte degli operatori che confida in questa strategia sindacalese inizia un presidio permanente di fronte al Tribunale di Lamezia; mentre, in altre sedi, cominciano i lavori per aprire un “tavolo di crisi” fra il Ministero del lavoro, le aziende interessate all’acquisto di Infocontact e quest’ultima in compagnia dei sindacati e delle autorità locali.

Per rendere più appetitoso il piatto (su certi tavoli è fondamentale) il consiglio comunale di Lamezia Terme, nella giornata del 28 luglio, legifera che agli eventuali acquirenti di Infocontact verranno ridotti i carichi fiscali tramite l’istituzione di una zona franca urbana. A questa data le società che non hanno prorogato le commesse sono Wind, Telecom e Vodafone. La Abramo Customer Car spa è comunque interessata e deposita presso il Tribunale di Lamezia la propria intenzione d’acquisto, la sesta dopo quelle di E-Care, Comdate, Call&Call, System House e Transcom.

Tali manifestazioni d’interesse, per la versione sindacalese delle cose, sono la dimostrazione di quanto la qualità e la professionalità degli operatori calabresi fosse elevata: «salviamo un importante pezzo produttivo della Calabria» questo, sui giornali, il grido di battaglia. In realtà, come tutti sanno, il vero interesse dei sei gruppi disposti all’acquisto non sono le professionalità quanto le commesse in scadenza. Se queste prendessero la fuga, sparirebbe d’un tratto l’interesse degli acquirenti e, con esso, il lavoro degli operatori.

Il 7 agosto la vertenza Infocontact approda all’attenzione del Ministero dello sviluppo economico. All’incontro sono chiamati a partecipare i rappresentanti sindacali (Slc/Cgil, Fistel/Cisl, Uilcom/Uil e Ugl/Comunicazione), l’Assessore regionale al lavoro Nazareno Salerno e il Commissario di Infocontact in Calabria. Il giorno dopo, i segnali positivi del Ministero, aprono gli spiragli di fiducia agognati. I lavoratori lasciano le cuffie in postazione, formano dei presidi a Lamezia e a Rende, fiduciosi negli impegni assunti a Roma circa l’erogazione degli stipendi.

Parallelamente all’opera di moral suasion delle istituzioni sui committenti, i sindacati con le loro segreterie nazionali hanno continuamente interloquito con le aziende committenti di Infocontact per rassicurarle sul fatto che la vertenza si era incanalata nel modo migliore.

Questi, in sintesi, i fatti. Praticamente dall’1 febbraio sino al mese di luglio, con la sola eccezione di marzo, quando l’azienda ha dichiarato lo stato d’insolvenza, in una calma apparente non si determina alcun processo di soggettivazione che consenta di uscire dal meccanismo di subordinazione in cui sono stati ricacciati gli operatori. Le strategie messe in campo dai sindacati, se così vogliamo chiamarle, condivise o meno dai lavoratori, hanno contribuito ad alimentare false speranze e, nei fatti, hanno contribuito a sviluppare meccanismi di complicità e controllo ai quali hanno partecipato (e solitamente partecipano) inconsapevolmente gli stessi operatori. Questo dato, duro quanto triste, è ravvisabile anche nel fatto che la storia di Phonemedia, accaduta due o tre anni prima della loro, non gli ha insegnato nulla, così come non ha sortito alcun effetto comparativo neppure al livello di ricordi. La loro alienazione, come già discusso altrove, si è mostrata massima, impedendo di fatto azioni collettive efficaci e forme ricompositive[6]. Detto in altri termini, la composizione tecnica degli operatori di call center non riesce a tradursi in una composizione politica in grado di dettare i tempi della lotta, le forme della rappresentanza e quindi le modalità del conflitto.

Dal nostro punto di vista è sul piano dell’organizzazione delle soggettività individualizzate e nella sperimentazione di pratiche di lotta più inclusive che si aprono nuove possibilità di rivendicazione e azione politica. La sperimentazione di pratiche che devono saper «parlare agli immaginari» e alle «relazioni comunicative» in primo luogo, per riuscire a creare contro immaginari e contro informazione. In tal senso, è probabilmente necessario ribadire una ovvietà: qualunque sia la forma e lo strumento del conflitto, va da sé che questo deve fare male, deve cioè creare danni all’avversario. Una lotta, in altri termini, non è solo una passeggiata in una giornata di sole, ma deve saper intercettare i “punti di debolezza” dell’organizzazione del lavoro nei call center. La suggestione del conflitto come sciopero è molto forte se riesce a bloccare la catena di creazione del valore, è assolutamente inconcludente se diventa, come è stato il 4 giugno, un puro atto simbolico.

 
* Pubblicato anche su Effimera.


[1] «L’area di Catanzaro è il cuore del settore dei call center. È qui che sono presenti le imprese principali: 2 – 3 call center (su 9) definiscono praticamente l'intero settore: oltre 5 mila occupati (degli 8 mila regionali), più di 1.500 dei quali nella sede di Cosenza». Cfr. Gruppo d'inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria, “Sull'inchiesta politica nei call center calabresi” , in Quaderni di San Precario, n.4/2013 (p. 180).

[2] Un atteggiamento sicuramente diverso di quello di Fabrizio Cazzago, responsabile e fondatore di Phonemedia, che nega pubblicamente e categoricamente ogni eventuale cessione del gruppo dopo avere firmato un preliminare di vendita delle attività al Gruppo Omega. In ogni caso, sia Cazzago che Graziani ad un certo punto delle loro storie all’improvviso decidono di sfilarsi.

[3] Allo stesso tempo, non a caso, vengono incentivati da parte dei rappresentanti aziendali e sindacali gli esodi volontari, con la garanzia dell’assegno mensile di disoccupazione per il tempo previsto dalla legge. Molti degli operatori “esodati” sono ancora oggi in attesa dell’incentivo promessogli, così come del TFR maturato e, inoltre, l’Inps non vuole riconoscere l'assegno di disoccupazione per un problema di forma di licenziamento. Dopo il danno si aggiunge la beffa!

[4] Crediamo che l'intera strategia sindacale, che in ultimo ha favorito gli esodi, fosse soprattutto rivolta a sollecitare la Presidenza del Palazzo di Giustizia del Tribunale di Lamezia a nominare, come per legge va fatto, un Commissario di concerto con il Ministero dello Sviluppo Economico, dopo che Infocontact ha presentato lo “stato di insolvenza” per essere commissariata al più presto e per sbloccare le spettanze di natura economica dei lavoratori. Con il rischio concreto che se la vertenza non dovesse andare a buon fine invece del Commissario Straordinario verrà nominato un Commissario Fallimentare e Infocontact chiuderà i battenti con i lavoratori che andranno tutti a casa e senza stipendio.

[5] La ricostruzione di tali “informazioni incontrollate”, compiuta con alcuni operatori, ha evidenziato che l'obiettivo delle stesse fosse quello di far si che le cose non degenerassero nel breve periodo e divenissero incontrollabili. I tempi di gestione della crisi all’interno dell’azienda dovevano essere assecondati con modalità precise dal management. Da parte sindacale, curiosamente, da quanto ci è dato di sapere, i bilanci aziendali non hanno mai suscitato interesse ed attenzione, nonostante si preannunciassero grossi guai in arrivo.

[6] Cfr., ad esempio, F. M. Pezzulli, “La solitudine del telefonista”, in Il Manifesto del 06/07/2013. Ora online su: www.sudcomune.it
Da un punto di vista teorico, importanti elementi di riflessione in merito sono offerti da A. Fumagalli e S. Lucarelli in “Mercato del lavoro, bioeconomia e reddito d'esistenza”, Multitudes (n, 27/2007): «anche nel mercato del lavoro si pone la questione se lo scambio sia solvibile: il problema sta nel fatto se l’oggetto dello scambio che definiamo “disponibilità lavorativa” sia o non sia separabile dall’essere umano. Da questo punto di vista, per disponibilità lavorativa si intende la cessione di tempo di vita da parte dei lavoratori finalizzata all’ottenimento di un reddito monetario tramite l’offerta di una prestazione lavorativa. Questo concetto non è assimilabile al più generale termine di prestazione lavorativa. Per “prestazione lavorativa” intendiamo il modo con cui viene utilizzata la disponibilità lavorativa in funzione del “grado di alienazione contenuta”. Per alienazione del lavoro intendiamo il livello di separazione tra il lavoratore e l’oggetto del suo lavoro: quando tale separazione è massima, ovvero quando l’oggetto del suo lavoro viene completamente separato dal lavoratore, si ha una “totale alienazione”. Lo scambio del lavoro può essere dunque considerato “solvibile”, dunque, solo se si scambia “disponibilità lavorativa” e non “prestazione lavorativa” ovvero solo se si è in presenza di alienazione. Considerare solo la disponibilità lavorativa e non la prestazione lavorativa, significa infatti ipotizzare la “totale separabilità” tra “soggetto lavoratore” e “contenuto/oggetto del lavoro”. Il senso del lavoro (qualità della prestazione lavorativa) viene così completamente scisso dal “fine del lavoro”(ottenere potere d’acquisto per vivere).