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Una razza di classe

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di COMMONWARE

Dire che quello di Michael Brown è stato un omicidio non è abbastanza. È stata un’esecuzione. Così come un’esecuzione è stata quella di Davide Bifolco nel rione Traiano a Napoli. Non si tratta ovviamente di coincidenze, di agenti fuori controllo o di “mele marce”: è l’intero albero che va abbattuto se si vuole porre fine alla violenza sistematica contro neri e poveri. Se si vuole spezzare l’infame ritornello “kill the poor” ritmato dai padroni ed eseguito dai suoi cani da guardia. Nel sobborgo ghettizzato di Ferguson, la presenza di tre soli poliziotti neri in una storica comunità afroamericana non fa che accentuare i caratteri di nudo e brutale terrorismo degli uomini in divisa. E tuttavia, quelle stesse scene e uccisioni, con frequenze e gradazioni differenti, si ripetono con cadenza pressoché settimanale, da nord a sud, da est a ovest, da Trayvon Martin a Eric Garner. I dibattiti sulle quote di colore degli agenti servono solo a nutrire la cattiva coscienza della “società civile” americana, quella contro cui si scaglia con ragione l’articolo di Robert Stephens II. Anche perché proprio la polizia è uno dei veicoli utilizzati dai neri per “sbiancarsi”, a dimostrazione che i processi di razzializzazione non dipendono tanto dal colore della pelle, quanto innanzitutto dalla collocazione sociale.

Quell’albero, ci spiegano in modo dettagliato in particolare il contributo di Alessandro De Giorgi e l’intervista a George Ciccariello-Maher, si chiama “macchina penale e di controllo”: la polizia ne costituisce una delle articolazioni, forse la più visibile, ma niente affatto l’unica. Né l’albero può essere ridotto alle istituzioni repressive, come il carcere, che pure giocano un ruolo importante nel regolare e controllare la forza lavoro razzializzata (si pensi l’enorme numero di afroamericani detenuti nelle galere americane). Tale macchina va dalla scuola all’università, dalla configurazione urbanistica ai luoghi di lavoro tradizionalmente intesi. A bruciare nella rivolta di Ferguson è, finalmente, la mistificazione dell’America “post-razziale” che, come spiegano Cedric ed Elizabeth Robinson, è la narrazione della Casa Bianca sul mondo, da Gaza al Missouri.

Il punto, dunque, non riguarda solo chi viene ucciso, ma allo stesso modo coloro che sopravvivono: se circa un quinto degli assassinati dallo Stato ha meno di 21 anni, il problema è il futuro di quelli che superano indenni gli incontri fatali con polizia e carcere. I testi che abbiamo raccolto descrivono in modo accurato la parabola di Ferguson, periferia working class duramente colpita dai processi di deindustrializzazione prima e dalla crisi economica poi, che ha definitivamente azzerato – come spiega Sam Anderson – la possibilità di ascesa alle posizioni del ceto medio. L’“American Dream”, se ancora per qualcuno esisteva, si è dissolto in questo duro risveglio.  Sono qui visibili quei processi di declassamento e di irrisolta transizione “post-fordista” che costituiscono lo spazio di conflitto di molte lotte e movimenti degli ultimi anni, pur precipitando in questo caso attorno a una specificità forte, la razza appunto.

Allora, per analizzare politicamente quello che è successo a Ferguson, inserendolo nel quadro più ampio qui appena tratteggiato, non ci interessa focalizzarci sulla repressione. Quello che vogliamo evidenziare è da un lato la rivolta contro la macchina: non c’è nuda vita inevitabilmente stritolata dagli ingranaggi del potere, ma soggetti e collettività che lottano contro la propria condizione di sfruttamento e sottomissione. Già C.L.R. James notava che l’unico luogo in cui i neri non si ribellano sono i libri di storia dei bianchi. Tuttavia, di volta in volta le rivolte assumono caratteristiche, forza e prospettive differenti. Abbiamo già detto dell’impatto della crisi, al cui interno possiamo rintracciare i fili di continuità con altre recenti sommosse (si pensi a quelle in Inghilterra dell’estate 2011). Gli eventi di Ferguson vanno poi inquadrati negli elementi di continuità e discontinuità con i movimenti nella crisi, che negli Stati Uniti significa in particolare Occupy. Da questo punto di vista, spiegano gli interventi pubblicati sul sito, i rapporti non sono scontati, anzi sono tortuosi e per molti versi indiretti, perfino contraddittori o contrastanti. Ma non vi è dubbio che delle tracce di sedimentazione sono rimaste: nelle soggettività, nei lessici (il 99% contro l’1%), nelle condizioni di possibilità dei movimenti. Già nel 2011 Occupy the Hood aveva posto le questioni della razza e delle periferie dentro e in buona misura diversamente dal movimento nato a Zuccotti Park. Queste istanze non si sono mai ricomposte, sostengono alcuni militanti: forse é proprio questa una delle diverse urgenze politiche che Ferguson pone, ben oltre se stessa.

Dall’altro lato, infatti, gli interventi che abbiamo pubblicato sono piuttosto concordi nel dire che nel sobborgo di St. Louis si possa vedere ben più di una questione che riguardi il razzismo tradizionalmente inteso: è stato un episodio, per dirla con Kareem Abdul-Jabbar, di una guerra di classe. È una guerra che viene combattuta dall’“1%” con mezzi differenti, procede a bassa intensità nell’imposizione di modelli di vita e impoverimento, di persecuzione e criminalizzazione delle comunità nere e latinos, fino ad arrivare a omicidi ed esecuzioni in mezzo alla strada. Questa guerra di classe non è disincarnata: ha un colore, con buona pace di chi pensa che il razzismo sia legato alla psicologia individuale e non alla materialità dei rapporti sociali; ha un genere, ripetuto nei tentativi di subordinare le donne alternativamente ai ruoli della riproduzione oppure adeguati alla femminilizzazione del lavoro, come madri o working poor; ha delle età, come mostra l’esempio riportato da Alvaro Reyes secondo cui nel 2011 il numero dei fermi di giovani neri a New York è stato superiore ai giovani neri presenti in città.

E tuttavia, la guerra di classe non è a senso unico: Ferguson e le tante lotte nella crisi fanno risaltare le capacità di resistenza e conflitto di quell’insieme di figure (poveri e impoveriti, lavoratori e disoccupati, giovani e ceti medi declassati) che chiamiamo classe. È dunque una guerra che il “99%” non accetta di subire: in occasioni come quelle di Ferguson capisce che, per mettere fine alla violenza, bisogna usare la forza, che per smettere di essere terrorizzati è necessario cominciare a fare paura. Sperimenta come solo la lotta di classe si opponga alla guerra.

Da questa angolazione è finalmente possibile afferrare il rapporto tra classe e razza, superando il classico schema del marxismo ortodosso che lo riduce alla dialettica tra struttura e sovrastruttura, e mettendo al contempo a critica la teoria conosciuta come “intersezionalità” che, ponendole astrattamente sullo stesso piano, finisce per produrre un elenco infinito di differenze irricomponibili e non comunicanti. La razza, così come il genere e la generazione, sono linee che plasmano in modo decisivo la composizione di classe, cioè la combinazione storicamente determinata delle forme di sfruttamento, dei comportamenti, dei processi di resistenza, della produzione di soggettività e della conquista di autonomia. Insistere sulla composizione, quindi, permette di sgomberare il campo da qualsiasi definizione economicistica della classe, così come da ogni critica debole a tale definizione che abbandona un punto di vista materialistico; permette cioè di intendere la classe come una parte complessiva del rapporto sociale, dinamicamente legata alla lotta e ai processi di soggettivazione e contro-soggettivazione. Questa composizione varia negli spazi e nei tempi del presente globale, si forma e riforma continuamente dentro quella lotta – quotidiana, spesso invisibile e talora conclamata – che vede irriducibilmente contrapposti il lavoro vivo e il capitale. Quelle differenze non sono unificabili in un soggetto omogeneo, peraltro mai esistito nella storia se non nelle mitologie della tradizione socialista; d’altro canto, identificare l’eterogeneità che modella oggi la costituzione del lavoro vivo, non significa rinunciare al problema della ricomposizione, se non accettando la frammentazione come un dato insuperabile e dunque rinunciando alla lotta di classe stessa. Quando Sam Anderson, e in forma più o meno esplicita gli altri contributi, insistono sul problema dell’organizzazione, ci costringono a ragionare all’altezza di questo insieme di nodi irrisolti.

Di recente sono usciti due episodi del film “The Purge”: proiettandosi negli Stati Uniti di un futuro molto prossimo, tra il 2022 e il 2023, descrivono una società che per ridurre la disoccupazione e il crimine ha scelto di eliminare disoccupati e criminali. Per farlo, ha istituito ogni anno un giorno della “purificazione”, in cui è invogliato l’omicidio e consentito qualsiasi tipo di reato, escludendo ovviamente l’attacco all’“1%”. La guerra di classe deve alimentarsi della guerra tra poveri, il carnevale della trasgressione serve per mantenere il governo dell’oppressione. Nel secondo episodio, l’incontro piuttosto casuale tra una coppia di bianchi di un ceto medio declassato, una cameriera latinos, madre single con sua figlia, un disoccupato in cerca di vendetta e un’organizzazione di neri che tenta di rovesciare il giorno della “purificazione” in un’occasione rivoluzionaria contro il governo che l’ha concepita, inceppa almeno alcuni degli ingranaggi della macchina. E come dice un leader afroamericano ai padroni sbiancati dalla paura: “Preparatevi a patire, ricchi del cazzo. Adesso è il nostro momento!”.

Nella forma semplicistica di un film americano di massa vengono rivelate da un lato le estreme ancorché logiche conseguenze delle politiche di austerity e tolleranza zero; dall’altro, il fantasma che turba i sogni di chi le promuove, cioè che la guerra cessi di essere unilaterale “dall’alto” e orizzontale “in basso”, ma venga rovesciata contro i padroni. È, dal nostro punto di vista, il fantasma della ricomposizione della lotta di classe, della trasformazione della ribellione spontanea nella costruzione di istituzioni di contropotere, della capacità di dare forma organizzata alla rabbia.

Certo, siamo probabilmente ancora distanti dalla possibilità per questo fantasma di incarnarsi, e tuttavia – o forse proprio per questo – è necessario porsi all’altezza di questa sfida. Per quello che è possibile, i materiali pubblicati a caldo su Ferguson vogliono essere un piccolo contributo nella costruzione di analisi, discorso e dibattito attorno ad alcuni nodi che dal ventre profondo degli Stati Uniti rimbalzano in modo immediato, ancorché molto diverso, nei problemi politici con cui ci confrontiamo in Italia e in Europa. Gli eventi di Ferguson, infatti, non sono solo degli eventi: non si comprendono, cioè, senza le genealogie lunghe e di più breve periodo, senza i tratti di specificità e comunanza con altre lotte, ovvero senza tutti quegli elementi che qui abbiamo solo accennato e su cui i testi qui raccolti si soffermano in modo esauriente. Non si comprendono, soprattutto, se non riusciamo a farli vivere e metterli alla prova del lavoro militante e dell’organizzazione delle lotte.