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Spagna e fenomeni migratori

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Intervista a CARLOS DELCLOS - di IVAN BONNIN (@ivnbkn)

Proponiamo un’intervista sulla relazione tra fenomeni migratori e la Spagna – quasi-paradigmatica per quanto concerne il Sud Europa in generale – a Carlos Delclos, ricercatore dell'Universitat Pompeu Fabra di Barcellona e redattore della rivista ROARMAG. In particolare segnaliamo gli interessanti spunti su migrazione e mercato del lavoro, sulla ricomposizione tra migranti e autoctoni nelle lotti comuni, sulle differenti tipologie di frontiere e sul doppio ruolo dell’Unione Europea.

Qual è la situazione dell’integrazione della popolazione migrante in Spagna? Quali le loro condizioni di diritto?

La situazione dei migranti in Spagna è determinta da due fattori: da un lato il rapporto di lavoro, dall’altro la condizione di nascita. In Spagna per ottenere la nazionalità si utilizza infatti il concetto di ius sanguinis o discendenza. Sangue e non terra, dunque. Questa è la base politica ed è importante sottolinearlo perché questi – rapporto di lavoro e condizione di nascita – sono i due principali assi di dominazione sulle persone e le due condizioni su cui si è storicamente articolata la condizione di schiavitù. La storia della schiavitù e del colonialismo, infatti, riverbera nelle condizioni attualmente imposte agli immigrati nei paesi ricchi.

La categoria di “immigrato” è una categoria omnicomprensiva, che esclude solo coloro nati in un determinato luogo. Quindi è importante porre in evidenza che non tutti i gruppi di immigrati subiscono le stesse condizioni. In funzione dei distinti gradi di alterità percepiti, si vivono esperienze qualitativamente distinte e, tra gruppi migranti differenti, vi è che soffre di condizioni decisamente peggiori che altri. Basta guardare al tasso di incarcerazione o di detenzione o di interventi polizieschi e si noterà che questi affliggono in modo spropositato coloro con una carnagione più scura, persone “nere” (una categoria d’uso comune ma in realtà assai imprecisa, che include moltissime tonalità di carnagione), persone arabe, persone latine meticce o indigene. Le persone con tali connotati fisici, infatti, formano parte della popolazione carceraria a un tasso considerevolmente più elevato non solo della popolazione autoctona ma anche di migranti di altra provenienza.

Esistono inoltre sacche di esclusione sociale fomentate dalle stesse politiche migratorie restrittive, dato che queste favoriscono il proliferare dell’irregolarità amministrativa e della condizione di clandestinità. Ciò equivale a condannare alcune persone a una situazione di vulnerabilità o precarietà assoluta, per cui ci si ritrova a vivere in determinati quartieri, in determinati tipi di edifici, e ad accettare determinati lavori in determinati settori economici. Perlopiù, poiché generalmente i migranti non dispongono di risorse legali, non hanno nemmeno la possibilità di contrapporsi a questa situazione.

Ritieni corretto considerare la condizione migrante come un ulteriore dispositivo di segmentazione del mercato del lavoro?

La Spagna di per sé ha un mercato del lavoro definibile come segmentato o duale, dove c’è un 65, 70% di insiders, di persone con un contratto fisso, e un’elevata percentuale – che normalmente oscilla intorno al 30% – di impiego temporaneo. Questo per quanto riguarda il mercato del lavoro formale, perché poi l’economia informale in Spagna, per una serie di ragioni, è enorme. Di fatto, l’informalità dell’economia caratterizza non solo la Spagna ma anche quelli altri paesi contraddistinti da cosiddetti stati di benessere “familista”, come per esempio quelli del Sud d’Europa.

Per comprendere l’economia di produzione e riproduzione capitalista trovo molto utili le analisi di Silvia Federici. Credo che le sue analisi sul lavoro svolto dalle donne si possano efficacemente estendere ai lavori svolti dai migranti. Ovvero a tutti quei gruppi il cui lavoro non fu contemplato in dettaglio né da Marx né dalla stragrande maggioranza degli economisti neoclassici, classici o liberali perché non remunerato secondo una relazione formale di impiego, ma che costituiscono in realtà una parte importantissima della base della produzione capitalista. Ciò ovviamente include il lavoro di cura o domestico, per esempio.

Un altro importante elemento da tenere in considerazione rispetto alle dinamiche di segmentazione del mercato del lavoro è l’esistenza di una sorta di escamotage implicito nella condizione dell’essere “straniero”. È assai comune il sentir dire che l’immigrazione fa sì che il lavoro “nativo” risulti più economico, così come lo è il sentir concludersi la suddetta analisi unicamente con questa affermazione. Tuttavia, sebbene non ci siano nemmeno troppi studi che confermano questa tesi, dovrebbe esser nomale porsi una semplice domanda, che invece raramente ci si pone: perché un immigrato dovrebbe accettare un lavoro peggiormente remunerato che un nativo? È geneticamente o culturalmente predisposto a accettare meno salario che un nativo? Ovviamente no. Quindi, qual è il meccanismo che produce questa dinamica? Credo che ciò sia dovuto soprattutto alla condizione di essere straniero, perché se hai bisogno di un lavoro per avere il permesso di soggiorno, questo implicitamente genera un valore aggiunto “non remunerato” che esiste per lo straniero e non per il nativo. Semplificando, un datore di lavoro poco ortodosso deve pagare a un nativo almeno 6 euro l’ora, mentre può permettersi di pagarne 4 a un migrante, e questi due euro l’ora di differenza rappresentano i diritti in quanto residente legale. Eliminando il filtro dovuto all’essere straniero si eliminerebbe un considerevole elemento del meccanismo che svalorizza il lavoro.

Oltre all’accettazione di un’inferiore retribuzione possiamo considerare anche i CIE come un altro dispositivo ricattatorio e repressivo che colpisce la vita dei migranti in Spagna?

Esiste un duplice meccanismo che criminalizza l’esistenza di molti immigrati. Un immigrato, a seconda della sua provenienza intra- o extra-comunitaria, è obbligato ad aggiornare costantemente i propri documenti. Quindi che succede? Se il migrante non rinnova i documenti, così come se io non rinnovo la mia carta d’identità, commette un illecito amministrativo. In teoria, ciò altro non è che il mancato svolgimento della procedura dentro l’ambito stabilito, il che è una pratica piuttosto diffusa in Spagna, a tutti livelli dell’amministrazione. Per esempio, basta guardare ai costanti ritardi dei pagamenti ai lavoratori autonomi da parte dell’amministrazione pubblica o dei ministeri. Spesso, quando si porta a termine un progetto, non si viene pagati per un periodo di cinque o sei mesi, e il fenomeno si è persino aggravato durante la crisi. Non si tratta dunque di un illecito penale, ma se sei un immigrato, non rinnovare il tuo permesso di soggiorno nel limite stabilito ti può direttamente condurre a un Centro di Internamento per Stranieri (CIE), dove dovrai attendere la tua deportazione.

I CIE sono teoricamente pensati per la semplice detenzione delle persone in attesa della propria espulsione. In realtà svolgono una funzione assolutamente punitiva e penale. I CIE, aldilà della parvenza amministrativa, sono a tutti gli effetti luoghi dove le persone vengono sistematicamente punite, luoghi dove si esercita violenza di Stato. Non sono permesse telefonate per informare della propria situazione, non c’è alcun tipo di libertà di movimento, ci sono celle d’isolamento, inoltre sono già stati denunciati numerosi abusi fisici e persino morti dentro questi centri. Tutto ciò, in molti dibattiti, viene meramente descritto come un “vuoto legale”, eppure non si tratta affatto di un vuoto legale, ma di un luogo dove avvengono e sono permesse cose illegali, contrarie alla legge e che vulnerano persino i diritti umani più elementari. Credo che l’obbiettivo di fondo sia associare l’immigrazione con il crimine. Altrimenti non saprei proprio come spiegare il fatto che un illecito amministrativo possa condurre una persona che non ha commesso alcun delitto in un luogo che per certi aspetti è peggiore di un carcere.

In questo contesto di precarietà, ricattabilità e repressione che hai sinora descritto che ruolo hanno le lotte? Quali le loro dinamiche?

Probabilmente rispetto alle lotte dei migranti ho alcune opinioni in merito che sono piuttosto lontane da quelle di molti attivisti. Io stesso sono migrante. Non sono nato in Spagna, ma in Texas e là sono cresciuto. Il che non si nota molto per via del mio accento straniero poco marcato e soprattutto, per quanto riguarda le questioni amministrative, per via della doppia nazionalità. Quando sono venuto qui, infatti, non ho avuto alcuna difficoltà. Nessuna. In quanto migrante ho partecipato a svariate mobilitazioni: per la casa, contro le carceri, per l’istruzione pubblica, per la sanità pubblica, in favore dei diritti dei migranti, etc. E per esempio, nelle mobilitazioni per l’università pubblica, sono talvolta stato uno tra i portavoce e mai nessuno mi ha chiesto della mia condizione di migrante. Le questioni che mi venivano poste erano relazionate ai temi universitari. Senza dubbio, alla stragrande maggioranza di migranti, soprattutto a coloro che hanno un colore di pelle o tratti somatici distinti, si chiedono opinioni solo quando si parla di immigrazione. Non si chiedono invece opinioni riguardo l’istruzione, la riforma sanitaria, un piano di intervento urbanistico, o altre questioni comuni. Perciò, il movimento secondo me esemplare di come integrare le rivendicazioni dei migranti è la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH). Si lotta per una necessità comune [la casa, ndr], con principi di mutuo appoggio e solidarietà, e lo si fa senza distinzioni tra nativi e migranti. Inoltre, la lotta per la casa, oltre ai risultati concreti, è anche riuscita a normalizzare il fatto che Fatima o Abdul compaiano sui mezzi di comunicazione per parlare della propria situazione di precarietà.

Ciò non toglie che ci siano altre lotte più specificatamente centrate sui problemi vissuti dalle comunità migranti, e che queste siano assolutamente necessarie, perché senza queste lotte non potranno mai sparire quelle istituzioni repressive quali sono i CIE per esempio.

Passiamo alle frontiere esterne...

È dimostrato che frontiere come quelle di Melilla non producono alcun effetto dissuasivo sull’immigrazione. Ritengo che potenziarle, renderle più pericolose, è una decisione assolutamente politica e che implica una dimensione profondamente psicologica, il cui scopo è consolidare una serie di sciocchezze che pensa la gente su chi siamo noi e chi sono loro. Ciascuno può infatti dire ciò che vuole sulla gente di altri paesi senza conferme né smentite, con il risultato di erigere muri psicologici tra taluni e talaltri che finiamo per vedere materialmente riflessi nelle recinzioni fisiche che separano i territori. Quanto più minacciati ci sentiamo, più ci lamentiamo, più rendiamo violente le frontiere, con il solo risultato di aumentare la sofferenza che si vive per loro causa. Alcuni studi coordinati da colui che oggigiorno reputo il miglior sociologo dell’immigrazione, Douglas Massey della Princeton University (un tipo che non lo si può certo accusare di essere esattamente un ardito rivoluzionario), ha dimostrato che militarizzare o rafforzare le frontiere fisiche tra paesi, rendere più difficoltoso ai migranti una migrazione legale, produce l’effetto contrario che il desiderato. In questo modo si aumenta la popolazione non documentata e di conseguenza tutte le “patologie” sistematicamente associate a questa condizione. La ragione per cui ciò avviene è piuttosto logica, sebbene non siamo soliti analizzarla. Tendiamo a pensare che se si rende più difficile attraversare le frontiere è più rischioso, dunque un disincentivo. In realtà, succede esattamente il contrario. Nonostante il rafforzamento delle frontiere, le persone continueranno ad attraversarle, da sempre è così. Inoltre, una volta attraversate, non si ritornerà. Si tratta di quello che chiamiamo “il costo d’opportunità”: se si deve passare attraverso un inferno per arrivare in un determinato luogo, si tenderà a non tornare perché non si desidera certo ripetere l’esperienza, soprattutto se si sono pagati molti soldi per compiere il viaggio. È piuttosto ovvio, ma nessuno considera mai la questione in questi termini. Ciò è dimostrato: quanto più si sono rafforzate le frontiere, più è aumentata la popolazione non documentata, perché gli immigrati rimarranno fino a quando l’esperienza migratoria risulterà economicamente conveniente. Invece, in presenza di frontiere porose, se le persone possono andare e tornare, abbiamo una situazione per cui queste vengono, provano, e se non c’è lavoro possono tornare al proprio paese o andare in un altro ancora.

Qual è l’impatto locale delle politiche migratorie imposte dalla cosiddetta Fortezza Europa? E quale il suo significato nel contesto mondiale?

Rispetto alle frontiere esterne, l’Unione Europea ha un doppio discorso e doppio meccanismo scandalosi. Da un lato si promuove la libertà di movimento dentro l’Europa perché tutti siamo europei. Questa è una logica puramente razziale. Perché ci può essere libertà di movimento dentro l’Europa e non tra altri luoghi? Non per ragioni di prossimità geografica, dato che ci sono parti d’Europa che sono più vicine all’Africa o all’Asia che ad altri paesi europei. Si potrebbe dire per ragioni economiche, ma allora la domanda dovrebbe essere: perché siamo paesi ricchi? Credo che tutti sappiamo che ciò è dovuto a una storia di accumulazione mediante violenza coloniale e dominazione razziale. Dunque, da un lato, per esempio nel caso degli assassini occorsi a Ceuta l’Unione Europea adotta una postura molto critica con la Spagna e il disastro poliziesco che presupponeva la catastrofe. E la adotta con ragione! Però al contempo investe cinquecento milioni di euro per potenziare FRONTEX. Per capirci: a voi, assassini, che avete ucciso persone indifese con la vostra negligenza e l’uso sproporzionato di armi, consegneremo armi ancor più sproporzionate?

Io ovviamente credo nella libera circolazione delle persone, è un diritto che io difendo, ma lo intendo come diritto universale. Perché le frontiere esterne sono legittime e quelle interne no? Qual è la ragione, in termini di diritti umani? D’altro canto, la Germania ha dimostrato che, nel momento che le conviene, può anche cancellare lo spazio Schengen. La Catalogna ha fatto lo stesso fronte alla mobilitazione fantasma che ci fu il 3 maggio 2012 in occasione della riunione della BCE. Chi dà loro queste competenze?

In ogni caso, mi sento sostenitore di una postura europea in tema di immigrazione. Una postura che però necessariamente implichi frontiere porose. E l’unica ragione per cui situo la questione sul livello europeo è essenzialmente pragmatica: in tal modo è possibile aprire le frontiere a una parte di mondo più grande rispetto a situarlo su scala nazionale.