Stampa

Valutazione? Trasvalutazione!

on .

di FRANCESCA COIN

Lasciatevi rovesciare!

Zarathustra

Qualche mese dopo l'occupazione di Gezi Park Stephen Snyder[1] scriveva un articolo per Roar Magazine nel quale descriveva le proteste turche come un processo di trasvalutazione. É un processo di trasvalutazione quello che ha infiammato Istanbul, scrive Snyder, un intreccio di danza e arti, intensità estetiche e performance creative nel quale la singolarità si era strappata di dosso la vecchia pelle del lavoro astratto ed era esondata nelle strade celebrando nuovi valori. È la stessa scena, infondo, quella che perturba le piazze mondiali, quella di una soggettività che si strappa di dosso il lavoro e lo dismette insieme alla sua morale, insieme alla sua interpretazione di vero e falso, giusto e sbagliato, di buona o cattiva condotta, insieme a quell'attualità "falsa crudele contraddittoria corruttrice e senza senso" che Nietzsche descrive nella Volontà di Potenza. È un processo di trasvalutazione, quello che dissolve la vecchia epoca neo-liberale e afferma “il movimento ascendente della vita, la buona riuscita, la potenza, la bellezza, l'affermazione di sé sulla terra"[2] in una socialità che interrompe l'eterno ritorno del medesimo, quel processo continuo che dall'accumulazione primitiva si ripete ogni giorno tessendo uno stretto legame tra morale, produzione capitalistica e stato per lasciarlo dietro sé. In questo contesto quello strano incontro per cui il "libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona" si incontra sul mercato con il possessore di denaro "e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali"[3] si fa esotico. L'incontro tra il possessore di denaro e il possessore di forza lavoro è qui sospeso, umiliato dall'altera indifferenza di una delle due parti. Esiste un duplice processo, in questa esondazione. Per cessare di essere agite e di agire come lavoro astratto, le forze reattive devono non solo rifiutare lo scambio e il suo valore, sottrarsi all'infinita negoziazione di "giusti" tempi e orari di lavoro. Non si tratta solo di rifiutare le condizioni dello scambio o di ribellarsi al primato dei forti sui deboli e dei signori sugli schiavi. Si tratta di trasformarne i valori.

Una cosa simile era avvenuta con il movimento Occupy, dove il processo era forse più nitido da osservare. Gli studenti e i precari che liberavano Wall Street descrivono, infatti, quell'intellettualità diffusa nata negli ultimi quarant'anni e soggetta a una crescente disoccupazione e a un crescente indebitamento. Negli ultimi vent'anni l'amministrazione statunitense ha vincolato l'accesso al credito a dispositivi continui di valutazione. La trasformazione del welfare in debtfare, la dipendenza dal credito per l'accesso alla riproduzione, ai saperi al mercato immobiliare o alla sanità, ha imposto un processo di valutazione continua. Attraverso la valutazione il capitale misura, enumera, compara e classifica ogni soggetto in modo tale da premiarlo o punirlo, scremando così i meritevoli dai colpevoli, gli individui utili da quelli inutili, i migliori da tutti gli altri. Il "merito" descrive qui la capacità di costituirsi sulla base di aspettative predeterminate, dimostrando la propria disposizione a trasformare il tempo libero in tempo di lavoro per primeggiare nella competizione al ribasso di tutti contro tutti. Nel 2011 questo processo si è rotto. Non si trattava più di erogare la massima quantità di lavoro al minor costo possibile. Si trattava di sottrarre il corpo allo scambio con il possessore di denaro, di sottrarre la volontà al suo apprezzamento e di produrre una nuova volontà capace di ridere di lui come Zarathustra nasce ridendo. Lo slogan "lost my jobfound an occupation" riassumeva l'abbandono felice della morale lavorista e il rifiuto della compravendita di corpi e capacità di lavoro a favore della produzione comune di nuovi saperi e nuovi valori.

È un processo di trasvalutazione, da questo punto di vista, quello di cui Marx parla nel Frammento sulle Macchine. È un processo di trasvalutazione quello che intravediamo quando "la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell'antagonismo"[4]. Allora, scrive Marx, la “ricchezza” non coincide più con l'accumulazione di denaro ma con la possibilità di disporre del tempo. Alla morale lavorista “subentra il libero sviluppo delle individualità e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare plus-lavoro ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro"[5].

Questo articolo propone una lettura morale di Marx o una lettura materialista di Nietzsche. Guarda, in altre parole, alla crisi della legge del valore attraverso i valori. Deleuze scriveva che i valori sembrano, o si fanno passare per principi: “una valutazione presuppone determinati valori sulla cui base stimare i fenomeni. D'altra parte, però, se si va più a fondo, sono i valori a presupporre valutazioni, punti di vista di apprezzamento da cui proviene il loro valore”[6]. Se i valori vengono fatti passare per principi, all'origine dei valori, ci dice Nietzsche, è sempre la gerarchia. All'origine della valutazione è sempre una gerarchia tra le forze, non a caso scrive Deleuze, il valore e la valutazione sono compito della genealogia. Da questo punto di vista il merito, l'aspirazione ad eccellere, per citare Nietzsche, in generale quell'ordine di valori morali superiori attraverso il quale il capitale promette di compensare la messa a valore del tempo con un'utilità rimanda sempre a un ordine dialettico entro il quale il capitale si pone come il punto di vista di apprezzamento dal quale dipende il valore di tutti i valori. Durante tutto il primo capitalismo industriale la presenza di un soggetto interpretatore era celata nella produzione di profitto: l'istruzione e il salario, in particolare in Occidente, erano presentati come moneta di scambio per la sussunzione - un processo che faceva tornare le relazioni tra capitale e lavoro continuamente a un punto di mediazione. È sublime, secondo Nietzsche, la volontà di potenza che le forze reattive esprimono nell'adattamento a una volontà più forte, quasi il potere nuovo che le cattura portasse in sé la possibilità di un nuovo divenire attive. È sublime, ma è pur sempre un aborto - l'abortodella volontà di potenza a favore di quella che si chiama “responsabilità”. Nell'epoca neo-liberale tale moneta di scambio non c'è più. Il capitale riduce a zero la parte di valore scambiata con il lavoro e, per dirla con Harvey[7], cessa “di farsi carico dei costi della riproduzione sociale”. In questo contesto, che cosa consente e che cosa impedisce un processo di trasvalutazione?

1. L'origine dei valori

Dobbiamo ritornare all'origine, cioè al momento in cui osserviamo “l’entrata in scena delle forze, il balzo con il quale dalle quinte saltano sul teatro, ciascuna col vigore, la giovinezza che le è propria”[8]. Riprendo questa metafora da Sandro Mezzadra[9] laddove osserva una possibile affinità tra il concetto marxiano di origine - Ursprung - e ciò che Nietzsche definisce come emergenza - Entstehung. Dobbiamo ritornare all'origine perché è lì che conosciamo “i protagonisti del dramma che costituisce la trama storica del modo di produzione capitalistico”[10], le forze attive e le forze reattive, le forze dominanti e le forze dominate, insomma quella gerarchia tra forze che trasforma una lunga serie di processi di sopraffazione in una gerarchia. L'origine è sempre la gerarchia tra le forze, è il processo di sopraffazione da cui deriva la differenza tra le forze. Ma “la differenza nell'origine è anche l'origine della differenza”, scrive Deleuze[11], il rapporto differenziale da cui nasce il valore dei valori, quell'idea di vero e falso giusto e sbagliato dietro a cui si cela la volontà più forte di un soggetto interpretatore. Eccoci, dunque, inseguendo un Marx che indossa gli abiti desueti del genealogista, ritornare in quel luogo al riparo dal tempo dove la nascita della gerarchia ci rivela l'origine di tutti i valori.

In un certo senso la lettura che Deleuze dà di Nietzsche ci consente di incontrare un altro Marx. L'accumulazione originaria è anzitutto una storia di espropriazione, scrive Marx nel famoso capitolo 24 del primo libro del Capitale, è la violenza che separa il produttore dai mezzi di produzione.Ma la storia di espropriazione che produce forze dominate e forze dominanti, forze attive e forze reattive, possessori di denaro e indigenti ambulanti o vagabondi, rimanda a una distinzione morale. La gerarchia è effetto del merito e della colpa, dicono le forze dominanti: è la modalità con cui dio si serve del denaro per esprimere un giudizio morale sulla condotta di ciascuno. In questo senso, la lettura che Deleuze dà di Nietzsche ci consente di rileggere l'accumulazione in chiave morale, lo stesso processo che compie Marx quando identifica la divisione tra forze dominanti e forze dominate nel peccato originale dell'economia politica. “Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia”[12], scrive Marx. Non di violenza si tratta, ma di due forze qualitativamente distinte, "da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice", e dall’altra quell'insieme "di sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più". "E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare"[13].

L'origine fissa un punto di vista di apprezzamento nel quale la gerarchia diventa una conseguenza della condotta. La forza che si fa obbedire “afferma la propria differenza e ne gioisce”, mentre la forza costretta ad obbedire rappresenta qualche cosa di cattivo, qualche cosa “da rettificare, da imbrigliare, da limitare, addirittura da negare, da sopprimere”[14]. In questo senso la volontà di potenza che si afferma nella gerarchia come elemento genealogico della forza e delle forze - l'elemento qualitativo che determina la differenza tra le forze, afferma anche il punto di vista di apprezzamento sulla cui base stimare i fenomeni. La forza dominante incarna la vittoria, il merito, l'eccellenza, mentre la forza dominata incarna il peccato, la cattiva condotta e la colpa, in una relazione dialettica che descrive la storia attraverso la voce delle forze dominanti, e identifica le forze dominanti nell'incarnazione stessa del progresso: l'avanguardia incaricata di separare la preistoria dalla storia, l'antichità dal futuro e “gettare dietro di sé uno sguardo da fine del mondo”[15].

Sarebbe interessante guardare il ripetersi quotidiano dell'accumulazione da un punto di vista morale a partire dall'alba del capitalismo, vedere in altre parole in che modo la violenza della sopraffazione si inscrive nei corpi a definire non tanto l'origine della proprietà quanto l'origine del bene e del male, della buona e della cattiva condotta. Fanon non a caso si sofferma a lungo sull'indecidibilità del vero e del falso, in colonia. In colonia “la struttura diviene la sovrastruttura”, scrive. “La causa diventa la conseguenza, si è ricchi perché si è bianchi e si è bianchi perché si è ricchi”. Il potere coloniale tesse un legame molto stretto con la morale sovvertendo così le coordinate mentali dell'indigeno. Celebra le forze dominanti nei “monumenti intellettuali immutabili”, nell’istruzione, la letteratura, le università, mentre l'indigeno “finisce per riconoscere, seppure a denti stretti, che Dio non sta dalla sua parte"[16].

“In un certo senso, l'opera recitata su questo teatro senza luogo è sempre la stessa”, scrive Foucault.

“È quella che ripetono indefinitamente i dominatori e i dominati. Che degli uomini dominino altri uomini, ed ecco che nasce la differenziazione dei valori; che delle classi dominino altre classi, e nasce l'idea della libertà; che degli uomini si impadroniscano di cose di cui hanno bisogno per vivere, che impongano loro una durata che non hanno, o che le assimilino a forza – ed è la nascita della logica. È per questo che in ogni momento della storia si fissa in un rituale. […] Un universo di regole che non è destinato ad addolcire, bensì a soddisfare la violenza”[17].

Dietro alle credenze, i sentimenti, i modi di essere, di dire sentire e concepire, dietro agli stili di vita inaugurati dall'origine, esiste sempre una gerarchia: "modi di esistere di coloro che giudicano e valutano e fungono, appunto, da principi ai valori in base ai quali quelli giudicano"[18]. Il problema da porre è, dunque, quale sia l'origine dei valori: quale soggetto si celi dietro al punto di vista di apprezzamento in base al quale affermiamo il valore di tutte le cose.

2. La legge del valore

Nietzsche e Marx scrivevano a pochi anni di distanza, in Germania. A quei tempi "la grande industria stava appena uscendo dall'infanzia", e in modo distinto in tre angoli diversi di Europa Jevons, Menger e Walras ponevano le basi per il costituirsi dell'economia in una scienza autonoma pronta a liberarsi dell'aggettivo "politica" dando luogo a quella che generalmente viene definita come rivoluzione Jevonsiana del valore. In quel momento l’analisi economica descrive la produzione non più come spontanea innovazione dei processi sociali, bensì come funzione di un obiettivo il cui argomento è l’utilità, aprendo alla matematizzazione del discorso economico e all’individualismo metodologico[19]. Da questo punto di vista la nascita dell'economia politica può essere vista come l'affermazione di un nuovo punto di vista di apprezzamento, il punto di vista di un nuovo soggetto capace di affermarsi come mediatore nella relazione tra gli individui e di interpretare la corporeità umana come la sua stessa composizione organica. Quanto definiamo come capitale sociale descrive questo: l'epoca in cui il denaro si pone come mediatore nella relazione tra gli individui descrivendo il valore di ciascun individuo a partire dalla moneta. Si tratta di una cesura storica: il valore non è più intrinseco a ciascuna merce ma si esprime come frazione di un'unità di misura universalmente applicabile.

È lo stesso Marx nel poscritto alla seconda edizione de Il capitale datata 24 gennaio 1873, che ci offre gli elementi per interpretare l'economia politica come il risultato dell'affermazione di un punto di vista di apprezzamento nuovo. L'economia non è una scienza, scrive Marx nel poscritto alla seconda edizione del Capitale. Può rimanere scienza soltanto fino a quando riflette i valori di uno specifico soggetto interpretatore.

"L’economia politica, in quanto è borghese, e cioè in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico, invece che come grado di svolgimento storicamente transitorio, addirittura all’inverso come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati".

Non esiste la scienza come tale, sembra dire Marx. Quanto chiamiamo scienza descrive la modalità con cui un'interpretazione si afferma quale punto di vista di apprezzamento universale. La scienza è una “sintomatologia” e una “semiologia”, potremmo dire con Nietzsche. Descrive un processo di cattura, appropriazione e gestione di una porzione di realtà. Non di scienza, stiamo parlando ma di un processo di sopraffazione all'interno del quale le forze più potenti catturano delle altre il nome e la funzione. Anche in questo caso è difficile non incontrare Nietzsche nelle parole di Marx: non di scienza stiamo parlando ma di una generale tendenza verso l'indifferenziato volta in ultima istanza a "neutralizzare le diseguaglianze"[20], a negare le differenze e a trasformare la vita in una materia riconducibile a una scala numerica e quantitativa.

Il concetto stesso di lavoro astratto, in questo contesto, descrive una sintomatologia. Un mero discorso per segni, per riprendere le parole di Nietzsche nelCrepuscolo degli idoli. “Un’interpretazione di determinati fenomeni, o per parlare con maggior precisione, unafalsa interpretazione[21]. Non solo il concetto di valore, dunque, ma il senso stesso delle cose è in discussione: la finalità che esse fanno proprie in base alla forza che le cattura. Al posto della vita vive dunque ora il lavoro astratto, vita riconducibile a una scala numerica e quantitativa come costante antropologica della rappresentazione aritmetica del lavoro[22].

Da questo punto di vista l'epoca industriale appare un traguardo antropologico esotico. Nel concetto di valore e nel concetto di lavoro astratto si nasconde una società sradicata dai commons. Una società in cui il ritmo della monetizzazione cresce insieme all'impossibilità di accedere direttamente alla riproduzione. Ecco che nel primo capitalismo industriale “la nozione di lavoro astratto diviene quasi una categoria naturale, una semplice astrazione mentale, libera da tutte le caratteristiche che, dall’alienazione mercantile all’espropriazione dell’atto del lavoratore, ne fanno una categoria specifica del capitalismo”[23]. Nell'introduzione del 1857 ai Grundrisse Marx descriveva non a caso il lavoro astratto come il punto di partenza dell'economia politica moderna e fattualità stessa del soggetto produttivo. La domanda che a lungo ha rincorso Nietzsche è dunque perché il soggetto abdica la propria volontà e si costituisce sulla base di valori altri. Perché una forza accetta di essere nuovamente catturata a nuovi propositi, nuovamente sequestrata e adattata a nuove utilità?”. Che cosa mai, chiede dunque Nietzsche. "Chimai? Dovresti chiedere". Per Nietzsche la parola "chi" significa quali forze si sono impadronite del senso di ogni cosa, chi si nasconde in loro?[24] Ecco che nel passaggio da ciò che una forza "è già" a ciò che essa "non è ancora", per riprendere Pierre Macherey[25]; dall'Abreitskraft all'Arbeitsvermöngen, dal corpo attuale al corpo virtuale, scrive Legrand, compare un'altra volontà, una volontà più potente capace di misurare l'azione altrui dal punto di vista del beneficio che ne può trarre, un terzo passivo che calcola il valore di ogni oggetto sulla base dell'utilità che questa fornirà a lui.

Nietzsche si sofferma con attenzione questo processo di cattura, il processo per cui la forza reattiva abdica la propria volontà e si costituisce sulla base di valori altri. Nietzsche non accetta l'adattamento. È disgustato dalla volontà adattiva delle forze reattive, ne ha repulsione. “È obbrobrioso credere che attraverso un più elevato salario la sostanza della lor miseria, voglio dire la loro impersonale condizione servile, possa essere eliminata!”, scrive. “È obbrobrioso credere che possa essere trasformata in virtù”[26]. “Ahimè, l'uomo ritorna eternamente! Il piccolo uomo ritorna eternamente!' Oh, schifo! schifo! schifo!”[27]

Nietzsche rintraccia l'aborto della volontà in tutto ciò che studiava: dal salario all'istruzione, i suoi obiettivi polemici principali.

“Il vero problema della cultura consisterebbe perciò nell’educare uomini quanto più possibile “correnti”, nel senso in cui si chiama “corrente” una moneta. Quanto più numerosi saranno tali uomini correnti, tanto più felice sarà un popolo. E il fine delle scuole moderne dovrà essere proprio questo: far progredire ogni individuo nella misura in cui la sua natura gli permette di diventare “corrente”, sviluppare ogni individuo in modo tale che dalla sua quantità di conoscenza e di sapere egli tragga la più grande quantità possibile di felicità e di guadagno”[28].

Il problema per Nietzsche era il desiderio degli schiavi di divenire "correnti", ciò che circola: moneta. Per dirla con Deleuze, il problema è la modalità con cui lo schiavo non concepisce la potenza “se non come oggetto di riconoscimento, materia di una rappresentazione, posta in palio di una competizione”[29], e la fa discendere come esito di uno scontro il cui premio è una semplice attribuzione di valori stabiliti. La produzione di soggettività produttive in questo senso, l'incarnazione di valori riconoscibili assume un aspetto da un lato coercitivo e dall'altro mimetico: vendersi è la buona condotta dal punto di vista morale, uno scambio velato di cattiva coscienza e di utilità.

Siamo sempre all'interno di una relazione dialettica. La subordinazione del nobile all'utile, dell'affermazione della prudenza, dell'intelletto calcolatore al posto del coraggio o del vigore vitale sono per Nietzsche la vergogna dello schiavo. Solo lo schiavo può sostituire ai rapporti reali un punto di vista che li esprima tutti, come una “misura”[30]. Solo uno schiavo vende la propria volontà per una moneta di scambio. Solo lo schiavo pensa in termini di utilità.

“Si deve escludere pessimisticamente una volta per tutte proprio la prospettiva di un riscatto definitivo”[31], scrive Nietzsche. “Lo sguardo deve ritrarsi tristemente davanti a una ferrea impossibilità”; “ora quei concetti di colpa e di dovere debbono volgersi all'indietro”[32] contro il debitore stesso. Lo schiavo, per Nietzsche, è esattamente questo, è colui che ha guardato troppo a lungo le sue tendenze naturali con “occhio cattivo”, sino a che queste “hanno finito per legarsi strettamente alla cattiva coscienza” ovvero a tutte quelle tendenze "innaturali", “contrarie al senso, all'istinto, alla natura, all'animalità, in breve tutti gli ideali che sono esistiti sino a oggi, ideali che sono tutti ostili alla vita, ideali che denigrano il mondo”[33]. Ecco che lo schiavo fa proprio il punto di vista delle forze dominanti: fa propria la colpa, la responsabilità, la “sacralità del dovere”, e diventa un animale che “sa promettere”, "necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, conforme alla regola e di conseguenza prevedibile"[34].

Nietzsche vedeva sempre l'utilitarismo dietro alla morale. Sarebbe precipitoso scriveva Deleuze definire l'utilitarismo una dottrina superata. “In primo luogo, se lo è, lo si deve in parte a Nietzsche. E poi succede che una dottrina non si lasci superare, se non a condizione di estendere i propri principi, di farne dei postulati ben nascosti nelle dottrine dalle quali viene superata”[35]. Ancora una volta il punto non è tanto l'utilitarismo in sé. Il punto è che il concetto di utilità rimanda sempre a un soggetto capace di interpretare l'azione altrui come qualcosa da valutare dal punto di vista del beneficio che se ne può trarre. L'inquadramento dell'utilità nella filosofia di Nietzsche evidenzia dunque una specie di cattura, una volontà più potente che separa la forza da ciò che è in suo potere e le regala un nome un uso uno scopo una finalità. La stessa morale in sé nasconde il punto di vista utilitaristico, puntualizza Deleuze, in quanto tutte le qualità descritte dalla morale, bene e male, buono e cattivo, nascondono un soggetto che rivendica un interesse per azioni che non compie[36]. L'utilitarismo in questo senso presuppone sempre un punto di vista altro, un soggetto che quantifica le azioni altrui dal punto di vista dell'utilità che ne può derivare.

A guardare in profondità, Nietzsche ha però un atteggiamento ambivalente sull'aborto della volontà. “Il divenire reattivo delle forze ha un che di prodigioso e pericoloso”[37], scrive Deleuze, perché da un certo punto di vista è volontà di potenza che in questo scambio le forze reattive dimostrano. "La forza reattiva è forza utilitaria di adattamento e parziale limitazione"[38], scrive Deleuze. "E' forza separata da ciò che è in suo potere, forza che si nega o si volge contro se stessa". "Per altro verso tuttavia questa rinuncia rivela una nuova potenza, fornisce una nuova volontà di cui posso impadronirmi per spingermi al limite di uno strano potere”[39]. È qui che Deleuze definisce ambivalente l'atteggiamento di Nietzsche verso il processo di adattamento delle forze reattive. È sublime, infatti, secondo lui, la volontà di potenza che esse esprimono nell'adattamento, quasi il potere nuovo che esso fornisce loro portasse in sé la possibilità di una nuova soglia da varcare, il presupposto di un nuovo divenire attivo. Non si tratta solo di concepire la potenza come oggetto di riconoscimento, ma di accedere a una potenza più grande. In questo senso l'aspirazione ad eccellere è la quintessenza del desiderio dello schiavo. Descrive quell'ordine di valori superiori al quale la forza reattiva ambisce per celare la propria bassezza. Aspirare ad eccellere significa desiderare che “il prossimo, esteriormente o interiormente, soffra di noi”[40], scriveva. Significa aspirare a quella “lunga serie di gradi di sopraffazione segretamente bramata”[41], quel connubio di smorfie, raffinatezza e “morbosa idealità” che non a caso è “quasi simile a una storia della cultura”[42]. Dunque: “far del male ad altri per far del male, con ciò, a se stessi, per trionfare così di nuovo sopra se stessi e la propria pietà e per annegare nell'orgia dell'estrema potenza!”[43]. Si scusa quasi, Nietzsche, per la sua eccitazione, per la seduzione orgiastica della volontà di potenza, ma tale era la sua ricerca che non sapeva trattenersi, la brama per quel luogo in cui lo schiavo finalmente trionfa “nello spirituale eccesso della libidine di potenza”[44].

Sarà ora più semplice rispondere a chi chiede cosa possiamo rinvenire dietro al divenire reattivo delle forze. Dietro al divenire reattivo delle forze rinveniamo un mondo diviso tra l'alto e il basso, cielo e inferno, bene e male, un mondo caratterizzato dai valori morali superiori tipici della dialettica moderna e dell'ideologia cristiana, lo stesso mondo che Bataille prendeva in giro quando celebrava l'alluce o gli alti monumenti delle forze dominanti. In questo mondo le forze dominanti incarnano la vittoria, il merito, la virtù, l'eccellenza mentre le forze dominate descrivono il peccato, la colpa ciò che va rettificato, imbrigliato, soppresso. Per quanto patetica possa sembrare ai nostri occhi tale relazione dialettica, vero è che a lungo essa ha descritto non solo un rapporto sociale, ma una direzionalità precisa per l'evoluzione umana. Non è il caso qui di ripensare a tutte le polemiche sul concetto marxiano di modernità, diciamo solo che il capitale si è sempre servito della dialettica non solo per opprimere, ma per incarnare la promessa del progresso, dell'emancipazione della liberazione o finalmente della potenza. Il capitale non si presenta solamente “come misura e come sistema”, scriveva Toni Negri, si presenta come “progresso”[45]. Questa definizione è essenziale per la sua legittimazione interna ed esterna, continuava, come luce che tinge gli inferi di grazia.

In un certo senso potremmo partire da qui per pensare al concetto di misura. Marx descriveva la misura del valore come la risultante di un rapporto antagonistico: il processo per cui “il capitalista”, scrive Marx, “cercava di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa mentre il venditore cercava di ridurla ad una grandezza determinata”[46]. La celebre formula generale del Capitale di Marx D-M-D’ come espressione della modalità antagonistica con cui il capitale tenta di aumentare incessantemente la quantità di plus-valore sottratto al lavoro descrive una specie di guerra la cui posta in palio è la cattura e la gestione della realtà – se vogliamo, del senso stesso dell'esistenza. Di fatto, siamo di fronte a una guerra tra punti di vista di apprezzamento antagonistici che non a caso suggeriscono una lettura della realtà opposta – come un'immagine rovesciata. Per il soggetto che vende la sua forza lavoro, il punto è liberare il tempo per lo "sviluppo delle individualità, e dunque [...] in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro"[47]. Per il possessore di denaro, il punto è catturare la vita a nuovi propositi, nuovamente manipolarla e usarla come una risorsa estrattiva inadeguata a godere della prosperità che essa stessa ha prodotto. La misura del valore, in altre parole, va inserita in un contesto puntellato dai valori, i valori definiti dalle forze dominanti.

3. La crisi della legge del valore

Durante il capitalismo industriale la volontà affermativa della forza che produce è ricondotta all'interno della volontà del capitale grazie a una produzione di plusvalore capace di fungere da moneta di scambio per la sussunzione, abbiamo detto. In questo senso la democrazia liberale e i governi rappresentativi avevano, specie in Occidente, un onere distributivo al quale erano continuamente richiamate dalle lotte e dai conflitti sociali. Di fatto, la negoziazione tra interessi conflittuali era in buona parte possibile grazie alle sproporzioni – "senza una sproporzionata dilatazione del credito nessuna capacità moltiplicativa del sistema industriale, senza una sproporzionata crescita della composizione organica del capitale nessun aumento della massa del profitto, senza uno sproporzionato aumento del plus-lavoro nessun controllo sul lavoro necessario"[48]. Il concetto di sproporzione è intrinseco al capitalismo industriale – solo sulla sproporzione, in particolare sulla sproporzione fra plus-lavoro e lavoro necessario, si gioca la possibilità di estrazione di plus-valore e solo tale plusvalore consente un accordo temporaneo tra interessi conflittuali. È questa visione di progresso che il capitale incarna che spinge le forze produttive a uscire dalla propria condizione di inerzia, "e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca il cui lavoro non si presenta nemmeno più come lavoro", in quanto la necessità naturale nella sua forma immediata è scomparsa. "Per questo il capitale è produttivo; è una relazione essenziale per lo sviluppo delle forze produttive. Cessa di esistere come tale solamente quando lo sviluppo di queste forze trova un limite nel capitale stesso"[49]. In questo contesto il capitale funziona come un'esca, potremmo dire. È la promessa di progresso che cattura il desiderio delle forze produttive. Una cattura che sussiste sino a quando lo sviluppo del capitale e lo sviluppo delle forze produttive non entrano tra loro in contraddizione.

La fine del capitalismo industriale mette in crisi tutto questo. Alla fine dell'epoca fordista, l'enorme aumento della composizione tecnica e organica del capitale riduce il saggio di profitto anche se lo sfruttamento del lavoro sale, scrive Marx. Ciò che lentamente si staglia davanti agli occhi è il capitale come capitale, un soggetto che esiste nel suo pieno sviluppo quando sussume a sé le condizioni della riproduzione sociale. Durante le crisi il capitale diviene visibile, scrive Marx: non è più direttamente coinvolto nel processo di produzione ma “compare in forma (relativamente) autonoma come denaro al di fuori di esso”[50]. Anche le forze produttive non sono più direttamente coinvolte nel processo di produzione: lavoro gratuito, precarietà e disoccupazione vivono in forma relativamente autonoma fuori dal processo produttivo.

Siamo di fronte a un'inversione, o forse a una separazione.

“al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per il capitale, ossia il rapporto del capitale diventa un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro. Giunto a questo punto, il capitale, ossia il lavoro salariato, si pone, rispetto allo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive, nello stesso rapporto del sistema corporativo, della servitù della gleba, della schiavitù, e poiché rappresenta una catena, viene necessariamente eliminato. […] Questa è, sotto ogni aspetto, la legge più importante della moderna economia politica, e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. E’ una legge che, ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tantomeno espressa consapevolmente”[51].

Al di là di un certo punto, il processo di negoziazione del valore che descriveva l'epoca industriale si rompe. Come un'immagine capovolta la svalorizzazione del lavoro si riflette nel luccichio della ricchezza privata e l'enorme sviluppo delle forze produttive si riflette nell'utilizzo della vita come risorsa estrattiva. Quanto Vercellone[52] descrive come il divorzio tra la logica del valore e quella della ricchezza si estrinseca in due soggettività pienamente sviluppate che si confrontano come punti di vista di apprezzamento antagonistici ai margini del processo produttivo. Da un lato il capitale nella sua forma molare: il creditore universale e il governo centrale della liquidità, la manifestazione stessa della gerarchia. Dall'altro un'intellettualità diffusa che rivendica non solo la condivisione della ricchezza ma una rottura etico-politica con quel mondo dialettico diviso tra forze dominanti e forze dominate contro il quale si scagliano i movimenti degli anni Sessanta e Settanta.

In questo contesto ciò che osserviamo è precisamente un passaggio da Marx a Nietzsche: un capovolgimento di novanta gradi in cui il conflitto si basa non più tanto sull'appropriazione del valore ma sull'affermazione dei valori. Il rompicapo del capitale è come come riprodurre la vita come risorsa estrattiva nonostante la fine della scarsità; come trasformare il tempo libero in tempo di lavoro nonostante il lavoro produttivo (non riproduttivo) in sé sia diventato, in linea tendenziale, superfluo; come impedire che le forze produttive utilizzino il sapere per una finalità affermativa. Per le forze produttive il problema è un altro. Ora che il salario non è più la moneta di scambio della sussunzione; ora che il terreno di mediazione tra capitale e lavoro, quello che nel primo capitalismo industriale coincideva con la negoziazione della forma salario, del tempo di lavoro e dell'istruzione di massa, la prima e magra concessione del capitale, scriveva Marx, viene meno, torniamo alla domanda iniziale: che cosa consente e che cosa impedisce un processo di trasvalutazione?

4. La valutazione

Abbiamo detto che nelle crisi di sovrapproduzione il capitale non è più direttamente coinvolto nel processo di produzione ma compare in forma (relativamente) autonoma come denaro al di fuori di esso. E che qui la sproporzione si trasforma in crisi: crisi nella relazione tra domanda e offerta rispetto alla capacità di assorbimento del mercato; crisi nella svalorizzazione del lavoro che non diventa profitto; crisi tra la potenza produttiva del general intellect inteso come conoscenza diffusa e sapere incarnato nei corpi. Ora non vi è più un accordo temporaneo tra interessi conflittuali. Esistono due soggettività distinte che dipendono per la propria sopravvivenza dalla cattura dell'altra forza come parte di sé.

Per parlare di valutazione dobbiamo partire da questo elemento: dalla relativa autonomia del denaro al di fuori dal processo produttivo. Dire che il denaro si sposta in modo relativamente autonomo al di fuori dal processo produttivo significa già riconoscere alla moneta il ruolo di riserva di valore e moneta credito, un ruolo che ci riporta alla fine di Bretton Woods come sintomo, se vogliamo, della crisi del tempo di lavoro come misura del valore[53]. Sganciata dalla merce la moneta si rivela come il punto di vista di apprezzamento di una gerarchia economica al cui vertice siedono i pochi operatori finanziari in grado di controllare i flussi finanziari globali. La moneta in questo senso come quintessenza del capitale ci porta ai vertici di una gerarchia situata nel cuore dei mercati finanziari. Di fatto, siamo nel pieno sviluppo del capitale, quel processo per cui, scrive Marx, “Il capitale raggiunge il suo più alto sviluppo quando le condizioni generali del processo sociale di produzione non vengono create traendole dal prelievo del reddito sociale, dalle imposte pubbliche, — dove è il reddito, e non il capitale, che figura come labour funds, e l’operaio, pur essendo operaio salariato libero come chiunque altro, tuttavia dal punto di vista economico è in un rapporto diverso —, ma dal capitale in quanto capitale. Ciò denuncia da un lato il grado in cui il capitale ha subordinato a sé tutte le condizioni della produzione sociale, e perciò, dall’altro, il grado in cui la ricchezza riproduttiva sociale è capitalizzata e tutti i bisogni vengono soddisfatti nella forma dello scambio[54]. Se la rivelazione della moneta dovrebbe ora aiutarci a individuare il soggetto incaricato di stabilire il valore di ogni cosa, la difficoltà deriva dal fatto che, per citare Orléan, “alla base di tutte le crisi, si osserva una rottura della convenzione di valutazione, che conduce a rendere la stima di numerose attività soggetta a cautela”[55]. La crisi, in altre parole, descrive una “rottura nella convenzione di valutazione che perturba completamente le relazioni strategiche tra attori finanziari. Non si sa più rispondere a questa semplice domanda: quanto vale oggi un titolo che valeva 100 ieri? O meglio: quanto stimano gli altri investitori questo titolo che valeva 100 ieri?”[56] Ciò che Orléan definisce "autoreferenzialità" dei mercati rimanda in ultima analisi al fatto che la fine del tempo di lavoro come misura del valore ha messo in discussione non tanto “la capacità individuale di valutazione del rischio quanto il fatto di non disporre di un riferimento comune, accettato dal mercato, ossia di una convenzione di valutazione"[57]. In questo momento non ci interessa in particolare l'effetto di questo processo, la condizione strutturale di fluttuazione e incertezza nei mercati. Ci interessa il passaggio precedente, ovvero quali parametri, quali convenzioni, riferimenti comuni, quale ordine di valori morali vengono mobilitati per elaborare una convenzione di valutazione che possa essere considerata legittima. Il punto è duplice. Il primo punto è la modalità con cui il capitale sopperisce alla crisi della razionalità progressiva dell'epoca industriale, in un processo volto in ultima analisi a negare la discontinuità dell'epoca fordista – a negare in altre parole la crisi di un modello di accumulazione e le sue ragioni attraverso un processo di produzione di denaro a mezzo di denaro, ciò che Vercellone ha definito il divenire rendita del profitto[58]. Il secondo punto sono le implicazioni che tutto questo ha sulla soggettività – quale sia l'impatto sulla vita di una rendita finanziaria la cui riproducibilità si regge essenzialmente sulla prescrizione della produzione come un obiettivo in sé, una performance che si fa tanto più intensa quanto più insidiose sono la svalorizzazione del lavoro e l'estrazione di valore nelle sfere della riproduzione e della circolazione, il processo per cui l'accesso ai bisogni primari, l'accesso ai saperi all'istruzione alla casa, rappresenta “l'esca per riavviare il processo di valorizzazione, producendo forme inedite di sfruttamento della vita degli individui”[59]. In questo contesto il nostro rompicapo è in quale modo certi valori vengono mobilitati e prodotti come “veri” quando la misura del valore entra in crisi: che cosa viene affermato come vero o falso, colpa o merito e in quale momento tale affermazione entra in crisi: quand'è che il corpo sociale si fa parresiasta e dissolve come falsa la verità del capitale rimuovendosene.

Il nostro punto di partenza è dunque la modalità con cui la moneta è situata in modo relativamente autonomo al di fuori dal processo produttivo e funge, per riprendere Lazzarato[60], da creditore universale o governo centrale della liquidità. In questo contesto la valutazione descrive il tentativo di sopperire all'incertezza dei mercati finanziari affermando i criteri in base ai quali selezionare le opportunità di investimento su cui allocare il credito. La valutazione come abbiamo detto descrive qui non tanto il tentativo di misurare il valore, bensì il tentativo di affermare i valori. Per valutazione si intende il processo attraverso il quale il capitale classifica, ordina e compara le opportunità di investimento nel momento stesso in cui la moneta si smaterializza. A partire dagli anni Settanta, dunque, la riforma globale della governance affianca la nascita di un governo centrale della liquidità all'istituzione di agenzie preposte ad estendere alla sfera pubblica le finalità di efficacia ed efficienza tipiche della corporate accountability nel tentativo di stimare il valore prodotto da tutti quei servizi pubblici che caratterizzavano la società welfarista e keynesiana del secondo dopoguerra. Volendo ritornare all'idea espressa da Marx nel III libero del capitale e ripresa poi da Gramsci, la risposta alla crisi dell'epoca fordista è qui precisamente aumentare lo sfruttamento: imporre, in altre parole la crescita della produttività e la riduzione del costo del lavoro nel tentativo di sopperire alla caduta del saggio di profitto. In questo contesto la riforma della governance ha come proprio bersaglio precisamente la forma salario e il patto sociale che con essa si era venuto a costituire nel tentativo di compensare con il controllo della produttività la riduzione dei profitti. Così nelle fabbriche la valutazione si presenta come dispositivo di inquadramento alternativo alla contrattazione nazionale che consentiva di ripensare il salario sulla base di criteri definiti di tipo premiale, che nella sostanza trasferivano sul lavoro parte della crisi di accumulazione dell’epoca fordista. Il salario, in questo contesto, diviene legato strettamente alla performance, alla quantità di lavoro erogata dal singolo operaio e dalla sua unità produttiva tant'è che veniva interpretato come uno strumento in ultima analisi antisindacale, “utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori”[61]. Lo stesso principio vale per il finanziamento alla Pubblica Amministrazione dove il credito diventa legittimo nei limiti in cui consente una possibilità di valorizzazione. Nel passaggio dalla sproporzione alla crisi dunque il New Public Management diventa il paradigma di gestione del settore pubblico che estende alla Pubblica Amministrazione le finalità di produttività ed efficienza tipiche del settore privato, vincolando l'accesso al credito a quelle sole strutture capaci di valorizzare gli investimenti del capitale.

Siamo di fronte a un'inversione, dicevamo. Nel momento in cui l'aumento della composizione tecnica e organica del capitale è tale da rendere il lavoro superfluo, l'impostazione neoclassica obbliga soggetti, oggetti e strutture ad adeguarsi alle esigenze del mercato divenendo esse stesse l'offerta per cui esiste una domanda. In questo contesto la moneta diventa la leva attraverso la quale il capitale prescrive alla soggettività di trasformarsi in ciò di cui esso abbisogna e produce il soggetto come offerta capace di competere al ribasso per rispondere alle esigenze della domanda del mercato. La cosa ovviamente è stata particolarmente intensa nelle istituzioni del sapere, per ragioni che vedremo. Qui, infatti, la riforma neoliberale dell'istruzione aveva essenzialmente uno scopo: produrre il soggetto come un assemblaggio di competenze forgiate sulla base della domanda del capitale nonostante tale domanda fosse in sé sempre più assente. Un po' a richiamare il lavoro del 1973 di Arrow o Spence[62], qui la valutazione informa gli investitori del valore monetario di ogni soggetto e indica loro su quali investire. Nel momento stesso in cui la moneta si smaterializza, essa sopravvive nei corpi. In questo contesto la valutazione adempie essenzialmente al ruolo informativo della moneta: informa del valore di ogni soggetto. Il capitale attribuisce ad ogni soggetto un valore numerico – un rating – sulla base della sua collocazione in una classifica – un ranking - che indica la sua capacità di eccellere in una competizione al ribasso di tutti contro tutti. Dopo aver smantellato la forma salario il sistema di premi celebra i vincitori di una competizione al ribasso di tutti contro tutti nella quale eccellenza descrive il soggetto che come capitale fisso risponde alle esigenze del capitale premiando con la gloria del merito la sua capacità di auto-sfruttamento.

In generale quanto interessa a noi in questo contesto è la logica di tutto ciò. Deleuze parlava di “salario al merito”, un concetto che oggi potremmo parafrasare con la dicitura di “credito al merito”. È questo in un certo senso il concetto che meglio esprime la distinzione tra le due società [la società disciplinare e la società del controllo, ndr.]”[63], in quanto “la disciplina si è sempre relazionata a delle monete stampate che riaffermavano l'oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modulazioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differenti monete”[64]. Qui bisogna chiedersi esattamente cosa si intenda per merito e credito. Entrambi i concetti, infatti, si riferiscono alla moneta. Non ha senso parlare di valutazione senza parlare di moneta. Ecco che il merito descrive qui il giudizio di apprezzamento attraverso il quale il capitale premia la capacità di costituirsi in base alla propria domanda. Attraverso la valutazione la moneta calcola il valore di scambio di ogni soggetto e indirizza l'allocazione degli investimenti dove maggiore è l'opportunità di profitto. In questo contesto, la moneta è il soggetto espropriatore che descrive, per dirla con Fumagalli, il discrimine economico tra chi detiene i mezzi di produzione e chi detiene esclusivamente la propria forza lavoro[65], è il simbolo stesso della capacità di espropriazione della gerarchia economica. Ma la moneta è anche il soggetto interpretatore che valuta il valore di scambio di ciascuno. In questo senso la valutazione traduce il valore di ogni cosa in moneta, ne riflette le proprietà informative, comunicative. La moneta, infine, quale sovrano che può in modo unilaterale allocare il credito là dove si presentano le principali opportunità di profitto premia il merito con il credito e la colpa con la sua negazione. Sembrerà superfluo fare questo lavoro didattico di traduzione dei concetti, ma è esattamente quest'idea di credito al merito che riproduce il capitale facendo leva sulla sua capacità di distinguere ciò che è utile da ciò che inutile, mentre utilizza la moneta per obbligare i debitori a ricercare l'apprezzamento di chi li ha espropriati.

Ecco che il concetto di merito va problematizzato. In questi anni il concetto di merito è stato usato per sostenere la necessità di contrastare la corruzione delle forze dominanti: il loro nepotismo e i loro privilegi. Questa interpretazione tradisce una impostazione teorica neoclassica retta a tal punto sull'equilibrio dei mercati da esternalizzare nella condotta il capro espiatorio delle proprie contraddizioni. Di fatto, il concetto di merito è stato pensato per riportare la fiducia nel mercato nel momento stesso in cui la caduta del saggio di profitto dell'epoca industriale la metteva in discussione. Il suo compito è fungere da coach motivazionale della produttività e della morale lavorista nel momento in cui il lavoro diventa superfluo. Lungi da apportare un beneficio al soggetto che produce, tuttavia, il concetto di merito lo frustra, lo riporta in una posizione dialettica. Di fatto, l'essenza elusiva del concetto di merito scompare laddove dietro ad esso si metta a fuoco un soggetto. Ancora una volta dietro al concetto di merito non bisogna chiedere cosa, bisogna chiedere chi: non “cosa mai": "chi mai": quali forze si sono impadronite del significato di questa parola, chi si nasconde in lei? Il merito non è l'arma con cui sconfiggere il privilegio delle forze dominanti. È l'arma attraverso la quale le forze dominanti riportano l'altrui volontà all'interno della propria assicurando che la trasformazione delle sproporzioni in crisi non metta a rischio la gerarchia come forma naturale della struttura sociale. Laddove la crisi dell'epoca fordista si estrinseca nella contraddizione tra tempo di lavoro superfluo e necessario, produzione e consumo, sapere come potere e sapere come innovazione[66], il credito al merito è lo strumento di controllo attraverso il quale il capitale tenta di aumentare il tempo del lavoro superfluo nonostante la riduzione del tempo di lavoro necessario; di disgiungere l'innovazione dallo sviluppo delle forze produttive; di affermare insieme la prosperità e l'inadeguatezza della vita a goderne. Il merito in questo senso è la quintessenza della gerarchia: più che liberarsene la ribadisce. Dietro il concetto di merito vive un soggetto interpretatore che funge da esca per il desiderio di espansione delle forze dominate e le trasforma in un corpo dal quale succhiare valore.

È importante fermarci a ragionare un istante sulle disgiunzioni che il credito al merito tenta di operare. Punto di vista di apprezzamento sul quale il credito fa leva per riportare la vita in una posizione dialettica, non è un caso che il concetto di merito sia stato usato principalmente nel campo dei saperi e dell'istruzione. Abbiamo già detto che lo sviluppo delle forze produttive è il simbolo stesso della razionalità progressiva del capitale e il perno su cui poggia tanto l'emancipazione del capitale dal lavoro quanto l'emancipazione del lavoro dal capitale. In questo contesto, l'uso del credito al merito quale strumento di comando capace di selezionare quali saperi, soggetti e strutture sono meritevoli di investimento e quali invece sono destinati all'oscuramento descrive un passaggio centrale contro l'uso del sapere come pratica affermativa. La riforma dell'istruzione da questo punto di vista aveva essenzialmente questo scopo: produrre il soggetto come un assemblaggio di competenze obbligato a costituirsi sulla base della domanda e a competere al ribasso per ricevere l'apprezzamento del capitale nel momento stesso in cui la domanda non c'è più. Laddove la vita diventa una merce costretta a competere per l'apprezzamento nel mercato l'università quale sigillo del vero e del falso da questo punto di vista diviene la fucina stessa della verità del capitale. Il suo ruolo è tradurre ogni cosa in moneta nel momento in cui la moneta si smaterializza. Da questo punto di vista la pressione con cui la riforma dei saperi ha insistito sulla valutazione descrive precisamente il tentativo di voler dare un rango alla verità – di affermare certi saperi e certe impostazioni teoriche come vere - affermando una specifica visione della realtà come vera ed efficiente nel momento in cui la sua falsità più è esplicita. In questo contesto c'è una sola cosa che il soggetto dovrà fare se vuole “valere qualcosa” ed è competere, incalzato dal fatto che nel momento in cui nulla più ha valore il concetto del valore sopravvive nel nostro corpo.

Torna qui utile il testo di Marx Appunti su James Mill che Lazzarato ha ripreso nel suo lavoro. Il credito, scrive Marx, camuffandosi di un estremo apprezzamento del soggetto, premia l'individuo che “diventa denaro”[67]. La transustanziazione della carne in moneta, il processo per cui, scrive Marx, il credito si camuffa di un processo premiale all'interno del quale “il denaro viene incorporato nell'individuo stesso”[68] seduce il soggetto ad abortire la propria volontà per trasformarsi nell'oggetto del desiderio altrui. Non si tratta più di un aborto della volontà al quale corrisponde una razionalità progressiva. La fine della razionalità progressiva del capitale ci porta di fronte a un'inversione nella quale la cattura delle forze produttive come opportunità di accumulazione diventa un fine in sé, una questione di vita o di morte. In questo contesto, l'individualità umana, la moralità umana, continua ancora Marx, diventa un oggetto di commercio nel quale la possibilità di riproduzione dipende dalla capacità di prodursi come possibilità di accumulazione. L'antitesi tra il creditore e il debitore, laddove il creditore descrive “il discrimine economico” tra chi detiene i mezzi di produzione e chi detiene solamente la propria forza lavoro, descrive una competizione in cui il compito del debitore è dimostrare di eccellere, laddove eccellere significa dimostrare di essere disposti a farsi sfruttare di più. Già Nietzsche aveva osservato come la relazione di dipendenza tra il creditore e il debitore consentisse al primo di infliggere al secondo “ogni genere di offesa e di tortura, per esempio farne tagliare tanta parte quanta riteneva fosse commisurata all'ammontare del debito - e proprio da questo modo di vedere si originarono molto presto e dovunque parametri valutativi molto precisi, in parte atroci nei loro piccoli e minutissimi dettagli, valutazioni, opportunamente fissate, per le singole membra e parti del corpo”[69]. Non cambia oggi la modalità con cui il creditore impone parametri valutativi atroci nei loro piccoli dettagli, ciò che cambia è che esiste un solo creditore dal cui giudizio dipende l'accesso alla riproduzione di ognuno. In questo contesto non vi è moneta di scambio nell'aborto della volontà. Vi è la chance di lusingarlo e di farsi riconoscere da questo come necessari. In un'epoca in cui il lavoro produttivo diventa superfluo, il segreto per accedere alla riproduzione è dimostrarsi necessari. Dopo aver smantellato la forma salario il credito al merito celebra dunque i vincitori di una competizione al ribasso di tutti contro tutti nella quale dimostrarsi meritevoli significa lavorare di più, a minor costo, più in fretta. Quasi a parafrasare la provocazione di Joan Robinson del 1962 per cui: “la miseria dello sfruttamento capitalistico è nulla rispetto alla miseria di chi non è sfruttato per niente”[70], il capitale tenta di superare la fine della propria razionalità progressiva mantenendo saldo il proprio sistema di valori nel momento stesso in cui la produzione di profitto è diventata sottrazione. In questo contesto il capitale:

"riduce il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato"[71].

Torna qui alla mente il lavoro di Lazzarato quando descrive il capitale come creditore universale e il lavoro come una condotta morale volta ad espiare un debito verso l'esistenza. Torna alla mente Benjamin[72], laddove indica nel capitalismo un culto che non offre redenzione ma come unica prospettiva la continua espiazione del debito e della colpa. Il dispotismo si fa monoteismo, direbbe Deleuze, la dialettica moderna si risolve nell'ideologia cristiana. “Il creditore non ha ancora prestato mentre il debitore non cessa di rendere, poiché rendere è un dovere, mentre prestare è una facoltà, come nella canzone di Lewis Carroll, la lunga canzone del debito infinito: Un uomo può certo richiedere il dovuto, ma quando si tratta di un prestito, può allora scegliere il tempo che più gli aggrada”[73].

5. Conclusione

Un alieno sbarcato sulla terra probabilmente riderebbe con orrore della modalità con cui la vita accetta di competere al ribasso per essere apprezzata dallo stesso soggetto che l'ha espropriata. Quanto stonerebbe agli occhi di tale alieno è ciò che spesso sfugge agli studiosi della valutazione qui: la relazione inscindibile tra il valore inteso come plus-valore sottratto al soggetto produttivo nel corso dei secoli e la valutazione intesa come il giudizio morale del soggetto espropriatore nei confronti di chi l'ha prodotto. In questi anni il merito è stato interpretato in buona parte attraverso la categoria foucaultiana di governamentalità attraverso la quale si metteva in risalto la disposizione del soggetto ad auto-costituirsi come soggetto produttivo. Queste analisi, penso in particolare al lavoro di Valeria Pinto[74], hanno il pregio di avere aperto un dibattito importante in Italia. Mi sembra però che tali analisi talvolta rischino di dimenticare non solo le ragioni strutturali del contesto di crisi in cui ci troviamo ma non riescano a dare conto dei nessi tra valutazione e valore, impedendo altresì di individuare non solo i punti nevralgici del problema ma i punti di rottura, terminando a volte in un'analisi dal retrogusto conservatore.

Di fatto, mi sembra che la critica di Lazzarato al concetto di governamentalità vada qui presa sul serio. Non siamo più nel luogo pericoloso in cui l'interpretazione supera un punto di non ritorno e scompare insieme al soggetto interpretatore. Né è qui il potere invisibile e ubiquo. La crisi rende il capitale visibile, scriveva Marx, per non dire spudorato. Il discorso del capitale – la sua voce, per citare Marazzi - il tentativo di celare lo sfruttamento del creditore nel corpo del debitore non danno mandato di dimenticare il capitale come soggetto. Da questo punto di vista è giusto riscontrare la tendenza a “de-governamentalizzare” lo Stato e a “de-statalizzare” le pratiche di governo. Ma solo a patto di riconoscere dietro a tale tendenza un soggetto capace di comandare la condotta altrui facendo leva sulla moneta come strumento di ricatto. Non si può in altre parole parlare di valutazione senza parlare di moneta a patto di confondere le cause con le conseguenze e rinvenirla lì, nel corpo, dove essa non appartiene.

Come osserva Lazzarato, sono “il debito e il rapporto creditore-debitore a costituire il paradigma soggettivo del capitalismo contemporaneo, dove il “lavoro” è al tempo stesso un “lavoro su di sé”, dove l’attività economica e l’attività etico-politica della produzione del soggetto vanno di pari passo. È il debito a tracciare addomesticare, fabbricare, modulare e modellare le soggettività[75]. Quello che mi preme qui è operare una smarcatura dalle interpretazioni di Foucault che parlano di auto-governo senza coercizione. La competizione è ben più che una razionalità interiorizzata. È coercizione, è ricatto, è questione di vita o di morte. Ancora una volta, qui torna ancora utile Nietzsche. L'aspirazione ad eccellere non è separabile dalla gerarchia. Il soggetto che aspira ad eccellere fa soffrire ad altri tutto ciò che gli altri farebbero altrimenti soffrire a lui. L'aspirazione a eccellere in altre parole appare come l'unica via d'uscita a un ricatto tra una violenza da subire oppure da esercitare. Sussiste esclusivamente in una società dialettica fondata su una razionalità hobbesiana del tipo mors tua, vita mea. L'eccellenza da questo punto di vista è il luogo in cui lo schiavo invoca dio e si allea all'ordine di valori morali che lo vuole uccidere per liberarsi della sua minaccia. “Quel colpo di genio del cristianesimo”, direbbe allora Nietzsche: “Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso che si risarcisce di se stesso. Dio come l’unico che possa riscattare l’uomo da ciò che per l’uomo stesso non è più riscattabile – il creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore (dobbiamo crederci?), per amore del suo debitore!”[76]. Si può, da questo punto di vista, sottolineare che la valutazione si regga sul consenso. Che estrinsechi il desiderio di sopraffare, di far soffrire, di prevalere sugli altri e su se stessi all'interno delle stesse regole con cui altri combattono contro di noi. Ma a patto di guardare altresì al terrore di scivolare negli abissi, alla necessità “di evitare quelle masse, compatte, brulicanti, tumultuose, che si trovavano nei luoghi di detenzione, quelle che Goya dipingeva o Howard descriveva”[77], alla necessità di mettere a valore ogni istante della vita come unica condizione di sopravvivenza. Non dunque semplice consenso o un puro esperimento estetico di auto-costituzione di sé - quale deriva pietosamente reazionaria sarebbe - ma una necessità di competere non priva di resistenze e fondata in ultima analisi sulla minaccia e sulla vessazione.

Da questo punto di vista il problema della soggettività è piuttosto complicato. Torna qui utile tutta quella letteratura che ha raccontato le disfunzioni del capitalismo cognitivo come una tenaglia nella quale la razionalità neo-liberale chiede di competere mentre sussurra al nostro fianco “sei un buono a nulla”[78]. Torna alla mente la letteratura angloamericana che si arrende alla consustanzialità di competizione e abuso di sé[79]. Non si tratta solo di lavorare su di sé ma di riconoscere l'esistenza di una frizione tra i valori attraverso i quali il soggetto è chiamato a costituirsi e l'esperienza incarnata, una specie di cortocircuito continuo che da un lato promette l'eccellenza e dall'altro risveglia ogni mattina nell'auto-sfruttamento. Da questo punto di vista l'epoca neo-liberale sembra l'epoca del soggetto bipolare. Mi influenza qui lo splendido pezzo di Keguro Macharia[80] in cui l'eccitazione della competizione si risolveva continuamente nella depressione e nella catatonia in un disturbo bipolare che egli riconduce precisamente alle patologie del capitalismo cognitivo. L'epoca neo-liberale inscrive il corpo in un campo di battaglia conteso da interpretazioni antagoniste in cui maggiore è la promessa di apprezzamento e più intenso si fa l'abuso di sé. In questo contesto il desiderio viene continuamente deragliato. Il capitale fa leva sul desiderio di espansione delle forze produttive per risvegliarle continuamente a una condizione di mancanza. Quanto Marazzi[81] nitidamente descrive come crowdsourcing, quasi a evocare la capacità del capitale di nutrirsi della carne stessa del soggetto, pare presupporre una specie di soul-sourcing, la capacità del capitale di catturare il desiderio per risucchiare nella schiavitù, un'eccitazione che scivola continuamente verso le sabbie mobili del debito in un processo entro il quale il merito si rivela sempre più apertamente come una mistificazione, come un imbroglio, come una bugia.

Se tutto questo ha un senso il problema è dove sta il punto di lacerazione. Questo tentativo di reinquadramento teorico serviva precisamente ad arrivare qui: alla lacerazione. Silvia Federici ha scritto più volte che la ristrutturazione dell'economia globale degli ultimi trent'anni ha risposto al tentativo di impedire l'affermazione dei movimenti che hanno fatto tremare le gerarchie alla fine degli anni Sessanta e Settanta. Nel caso delle donne lo sfruttamento si nascondeva allora nei corpi. Come il movimento femminista ha tentato di liberare il corpo da un'interpretazione che faceva dello sfruttamento un'essenza dell'affettività femminile e i movimenti anti-coloniali hanno rifiutato la razza come espressione di una sorta di predisposizione alla schiavitù, il concetto di merito inscrive nel corpo la responsabilità dello sfruttamento ed attribuisce a chi la subisce le cause della propria sussunzione. Riportare il capitale come soggetto al centro dell'analisi, in questo senso, serve a liberare il soggetto della responsabilità che il capitale vorrebbe nascondere in lui. In questo senso fermare l'analisi all'idea reazionaria di auto-costituzione di sé significherebbe abortirla. Il punto, infatti, è capire dove tale nascondimento si cela e dove esso si rompe.

Foucault scriveva “ci vuole una lacerazione che interrompa il filo della storia e le sue lunghe catene di ragioni, perché un uomo possa, realmente, preferire il rischio di morire alla certezza di ubbidire”[82]. In “Sollevarsi è inutile?” Foucault cercava esattamente il punto di lacerazione. Esiste un momento, scriveva Camus, in cui l'uomo in rivolta si convince di avere ragione. “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo “no”? Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”, “fin qui sì, al di là no”, “vai troppo in là” e anche “c’è un limite oltre il quale non andrai”. Insomma questo no afferma l’esistenza di una frontiera [...] Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza: la percezione, ad un tratto folgorante, che c’è nell’uomo qualche cosa con cui l’uomo può identificarsi, sia pure temporaneamente”[83]. Aldilà dell'uso assordante e ripetuto della parola uomo come universale, che, insomma, potremmo anche abbandonare, il confine di cui parla Camus è la lacerazione a cui fa riferimento Foucault. È lo spazio in cui il corpo irrompe nel linguaggio del capitale per risuonare di verità. In quell'attimo il corpo interrompe la storia e le sue lunghe catene di ragioni. “Con la perdita della pazienza, con l’impazienza, comincia al contrario un movimento che può estendersi a tutto ciò che veniva precedentemente accettato. Questo slancio è quasi sempre retroattivo. Lo schiavo, nell’attimo in cui respinge l’ordine umiliante del suo superiore, respinge insieme la sua stessa condizione di schiavo”[84]. Qui lo scambio con il possessore di denaro si interrompe. Il punto non è dimostrarsi meritevoli, è che abbiamo già lavorato abbastanza. Il problema non è il merito, è che il merito dovete dimostrarlo voi.



[1] Snyder S., Gezi Park and the Transformative Power of Art, Roar Magazine, January 8th 2014, http://roarmag.org/2014/01/nietzsche-gezi-power-art/

[2] Nietzsche F., L'anticristo, cap. XXIV

[3] K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma, 1964, Vol l., pagg. 200-204

[4] Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia 1968-70, II vol. pp. 389.

[5]  Ivi.

[6]  Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, Colportage 1978, p. 23.

[7] Harvey D., L'enigma del capitale, Feltrinelli, 2011.

[8] Foucault M., Nietzsche, la genealogia e la storia, in Microfisica del potere, Einaudi 1977, p. 39.

[9] Mezzadra S., La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, Ombre corte, 2008.

[10] Ivi.

[11] Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 23.

[12] Marx K., Il capitale, cit., Libro I, cap. 24, p. 782.

[13] Ivi.

[14] Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 54.

[15] Foucault M., Nietzsche, la genealogia e la storia, in Microfisica del potere, Einaudi 1977, p. 44.

[16] Fanon F., I dannati della terra (1961), Einaudi, Torino 2007, p. 7. Su questo: M. Mellino, Fanon postcoloniale. I dannati della terra oggi. Ombre Corte, Verona, 2012, e al suo interno il saggio di S. Visentin, Trasformazioni della Verwandlung. Rileggere l’accumulazione originaria attraverso Fanon, pp. 75-89.

[17] Foucault M., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi 2001, p. 48.

[18] Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 24.

[19] Come scrivono Ranchetti e Lunghini, la rivoluzione del valore “nega che il valore delle merci dipenda da loro proprietà intrinseche: esso dipenderebbe invece dall’apprezzamento, da parte dei singoli soggetti, dell’attitudine dei beni economici di soddisfare i bisogni”. G. Lunghini e F. Ranchetti, Teorie del valore, Enciclopedia delle scienze sociali Treccani, 1998.

[20] Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., p. 78.

[21] La morale è soltanto un’interpretazione di determinati fenomeni, o per parlare con maggior precisione, una falsa interpretazione. [...] In questo senso, il giudizio morale non e? mai da prendersi alla lettera [...] Come semiotica, tuttavia, resta inestimabile: esso rivela, almeno per il sapiente, le piu? preziose realta? della civilta? e delle interiorita?, che non sapevano abbastanza per «comprendere» se stesse. La morale e? un mero discorso per segni, una mera sintomatologia: si deve gia? sapere di che si tratta, per trarre da essa un vantaggio”. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli. O come si filosofa col martello, Adelphi, Milano 2005, «Quelli che migliorano» l’umanità?, § 1, p. 66.

[22] “The arithmetical presentation assumes abstract labor: that is, it assumes that labor power as an anthropological constant. Human beings are already exchangeable as different deposits of labor power and thus capitalism is always possible”. Raed J. Primitive Accumulation: The Aleatory Foundation of Capitalism, “Rethinking Marxism”, Volume 14, Number 2, Summer 2002, p. 44.

[23] Vercellone C. (2013b), “La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo”, Uninomade, disponibile al sito: http://www.uninomade.org/vercellone-legge-valore/ [ultimo accesso 7 December 2013].

[24] “Cosa mai?”, chiesi io incuriosito. “Chi mai? Dovresti chiedere”. Così parlò Dioniso, e tacque quindi nel modo che gli è proprio, e cioè in maniera tentatrice”. Nietzsche F., Frammenti postumi, 1885-1887, Aldelphi, 1975, p. 66; Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 114.

[25] S. Legrand, Les normes chez Foucault, Puf, Paris, 2007, ripreso in Macherey P., Il soggetto produttivo, Ombre Corte, 2014, p. 47.

[26] “Povero lieto e indipendente!”, dirà Nietszche, “queste cose insieme sono possibili; povero lieto e schiavo! - anche queste sono possibili, e, della schiavitù di fabbrica non avrei dire nulla di meglio agli operai, posto che essi non sentano in generale come ignominia il venire in tal modo adoperati, ed è quello che succede, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come accessori dell'umana inventività tecnica. È obbrobrioso credere che attraverso un più elevato salario la sostanza della lor miseria, voglio dire la loro impersonale condizione servile, possa essere eliminata! È obbrobrioso farsi convincere che attraverso un potenziamento di questa impersonalità all'interno del convegno meccanico di una nuova società l'ignominia della schiavitù possa essere trasformata in virtù! È obbrobrioso avere un prezzo, per il quale non si resta più persone, ma si diventa ingranaggi. Non siete voi i cospiratori, nell'attuale pagliacciata delle nazioni che vogliono soprattutto produrre il più possibile ed essere il più possibile ricche? Nietzsche F., Aurora, Adelphi, 2010, pp. 152-153.

[27] Nietzsche F., Così parlò Zarathustra, Adelphi, 1968, p. 267.

[28] Nietzsche F., Sull’avvenire delle nostre scuole, in: Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Vol. III, t. II, Adelphi, Milano 19903, tr. it. di G. Colli, p. 109.

[29] Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 16.

[30] Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 114 “La morale degli schiavi è essenzialmente morale utilitaria”, scrive Nietzsche in Al di là del bene e del male. “La morale utilitaria tende sempre a sostituire ai rapporti reali un punto di vista che li esprima tutti, come una “misura”.

[31] Nietzsche, Genealogia della morale, 2.23.

[32] Ivi.

[33] Ivi.

[34] Ivi.

[35] Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 110.

[36] Ivi, p. 178.

[37] Ivi, p. 98 ss.

[38] Ivi.

[39] Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 99.

[40] Nietzsche F., Aurora, cit. pp. 82-83.

[41] Ivi.

[42] Ivi.

[43] Ivi.

[44] Ivi.

[45]Capital not only presents itself as measure and as system, it presents itself as progress. This definition is essential to its internal and external legitimation. [...] Progress is the eternal return lit-up by a flash of a now-time (Jetzt-Zeit). Administration is illuminated by charisma. The city of the devil is illuminated by grace”. A. Negri, Time for Revolution, Continuum Publishers, 2003, p. 108.

[46] “A te dunque appartiene l’uso della mia forza-lavoro quotidiana. Ma, col suo prezzo di vendita quotidiano, io debbo, quotidianamente, poterla riprodurre, per poterla tornare a vendere. [...] Tu mi predichi continuamente il vangelo della «parsimonia» e della «astinenza». Ebbene: voglio amministrare il mio unico patrimonio, la forza-lavoro, come un ragionevole e parsimonioso economo e voglio astenermi da ogni folle sperpero di essa. [...] Io esigo quindi una giornata lavorativa di lunghezza normale, e lo esigo senza fare appello al tuo cuore, perchè in questioni di denaro non si tratta più di sentimento. [...] Esigo la giornata lavorativa normale, perchè esigo il valore della mia merce, come ogni altro venditore. Marx K., Il capitale, libro I, sez. III, cap. 8.

[47] Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit. p. 389.

[48] Bologna S., Banche e crisi. Dal petrolio al container, Derive Approdi, 2012, p. 31.

[49] Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La Nuova Italia 1968, I, p. 278.

[50] Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La Nuova Italia 1968, II, p. 16: "nella crisi generale di sovrapproduzione la contraddizione non è tra le diverse specie di capitale produttivo, ma tra capitale industriale e capitale di prestito, ossia tra il capitale direttamente coinvolto nel processo di produzione e il capitale che compare in forma (relativamente) autonoma come denaro al di fuori di esso".

[51] Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La Nuova Italia 1968, II, p. 460.

[52] Vercellone C., La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo, cit.

[53] Su questo, particolarmente utile A. Fumagalli (con il contributo di S. Lucarelli e Luca P. Merlino), Lezioni di teoria della moneta, disponibile qui: http://economia.unipv.it/pagp/pagine_personali/afuma/didattica/Materiale%20sul%20sito%20del%20corso/Parte%202a%20-%20Teorie%20della%20moneta.pdf

[54] Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, cit., q.V, f.24 ss.

[55] A. Orléan, Dall'euforia al panico, Ombre Corte, Verona 2010, p. 75.

[56] Ivi.

[57] Ivi.

[58] Vercellone C. (2013), “The becoming rent of profit?”, Knowledge Cultures, 1(2) : 194-207.

[59] A. Fumagalli, S. Lucarelli, prefazione a A. Orléan, Dall'euforia al panico, cit., p. 21.

[60] Entrambi i testi di Lazzarato sono stati un'ispirazione nella scrittura di questo articolo: M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Derive Approdi, Roma 2012 e M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Derive Approdi, Roma 2013.

[61] B. Trentin, A proposito di merito, “l’Unità”, 13 luglio 2006.

[62] J. K. Arrow, Higher Education as a filter, “Journal of Public Economics”, 1973, vol. 2, issue 3, pages 193-216; Spence Michael, Job Market signaling, The Quarterly Journal of Economics, 87.3, 1973, 355-374.

[63] Deleuze G., La società del controllo, “L'autre journal, n. 1, maggio 1990.

[64] Ivi.

[65] A. Fumagalli (con il contributo di S. Lucarelli e Luca P. Merlino), Lezioni di teoria della moneta, cit.

[66] Vercellone C., La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo, cit.

[67] Marx K. (1963), Appunti su James Mill In: Marx K., Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma, pp. 5-27.

[68] Ivi.

[69] Nietzsche, Genealogia della morale, cit.

[70] “Under capitalism the only thing that is worse than being exploited by capital is not being exploited by capital”: J. Robinson, Economic Philosphy, Panguin Books, 1962, p. 46.

[71] Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia 1968-70, II vol. pp. 389.

[72] W. Benjamin, Il capitalismo come religione, Il Melangolo, 2013.

[73] G. Deleuze, F. Guattari, L' Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1975-2002, p. 221 e ss.

[74] Pinto V., Valutare e punire, Cronopio, 2012.

[75] Lazzarato M., La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Derive Approdi, Roma 2012, p. 54.

[76] Nietzsche, Genealogia della morale, cit., 2. 21.

[77] M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1993, p. 216.

[78] M. Fisher, Good for nothing, “The Occupied times”, March 19th, 2014.

[79] Penso a quello che è stato definito come un “growing sub-genre of American essays”: Rebecca Schuman, I quit academia, a growing sub-genre of American essays, “Slate”, October 24, 2013; C. Beusman, Study: college makes you feel like shit about yourself, September 9, 2013; altri riferimenti in: F. Coin, Turning contradictions into subjects. The cultural logic of university assessment, pp. 142–166, in Stefano Lucarelli e Carlo Vercellone (eds.), “Knowledge Cultures”, vol. 1, n. 4, 2013.

[80] K. Macharia, On quitting, “The New Inquiry”, May 3rd, 2013.

[81] C. Marazzi, Violence of financial capitalism, Semiotext(e), p. 49.

[82] M. Foucault, “Sollevarsi è inutile?”, in Id, Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell'esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 132.

[83] A. Camus, L'uomo in rivolta, traduzione di Liliana Magrini, Bompiani, Milano, 2010.

[84] Ivi.