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Nuove soggettività e neoliberalismo

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di CHRISTIAN LAVAL

 

Pubblichiamo la traduzione del testo inedito di una relazione di Christian Laval, tenuta il 18 maggio 2009, qualche mese dopo l'uscita della prima edizione francese de La nuova ragione del mondo all'ospedale sant'Anna di Parigi, davanti a una platea di psicoanalisti e di psichiatri.

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Quale rapporto sussiste tra le molteplici descrizioni delle differenti fonti dei “disordini patologici” e la governamentalità neoliberale? Diverse descrizioni cliniche (ciò che abbiamo denominato la “clinica del neosoggetto”), fornite da psicanalisti o da sociologi, ci sembra che possano essere riportate a un dispositivo o, più esattamente, a un insieme di dispositivi di direzione delle condotte che abbiamo chiamato sistema performance/godimento.

Per esporre la nostra ipotesi in modo sintetico: il neoliberalismo si caratterizza come un modo di soggettivazione molto particolare, articolato a un sistema che potremmo definire modo dell’ultrasoggetivazione.

Piccola premessa, al fine di rendere più chiara la comprensione del nostro approccio: il capitalismo è ben altra cosa che un semplice modo di produzione di merci; è un processo di soggettivazione quanto un processo di produzione. Sicuramente, dunque, non si può cogliere in maniera adeguata ciò che succede al soggetto senza avere ben chiaro in testa il funzionamento dell’economia nella quale si vive. Fattore che pone naturalmente un problema decisivo (e non riducibile a quello lacaniano della relazione tra il soggetto e la verità): ossia il rapporto tra l’economia, le forme di potere e il soggetto.

In ogni caso, i neoliberali hanno avuto una chiara consapevolezza della posta in palio. M. Thatcher, un giorno, ha formulato molto chiaramente tutto ciò, affermando che “l’economia è un metodo, l’obiettivo è cambiare l’animo e il cuore”.

Clinica delle nuove forme di soggettività

Nel nostro libro, io e Pierre Dardot siamo partiti dai disordini patologici così come sono descritti da un’abbondante letteratura che abbiamo cercato di riassumere e di risistemare. In questa letteratura viene descritto un essere che, da un lato, in quanto consumatore, è intimato a rispondere nel modo più rapido possibile in alle variazioni del mercato e delle mode, e che dall’altro, in quanto lavoratore, è sottomesso al ritmo delle merci e della finanza; insomma, un individuo rinviato in permanenza all’esigenza del rendimento e del piacere estremo. Questo individuo – da qualcuno definito “ipermoderno” – è un essere iperattivo e ultra-reattivo, sottoposto all’ingiunzione di “sfondarsi” di lavoro, ma anche di farsi del bene, di trovare piacere e di divertirsi per quanto possibile. Questa pressione permanente del risultato massimale avrebbe in qualche modo la sua ricompensa e il suo complemento in un’ingiunzione a godere più che si può, a spassarsela e a ostentare tutto ciò tramite lo spettacolo di una riuscita totale. E se non perviene a rispondere a questa pressione, sarà allora considerato da sé stesso e dagli altri come un essere sotto scacco, se non addirittura come uno scarto espellibile.

Sono ben note tutte le descrizioni che pretendono di mostrarci lo stato del soggetto contemporaneo, del nuovo soggetto, “affaticato di essere sé stesso”, stanco a causa della corsa al “sempre di più”. Vi si analizza, per dirlo con dei termini spesso adoperati, la sofferenza al lavoro, la depressione generalizzata, l’erosione della personalità, la “perversione ordinaria”, la cultura della diffidenza, persino la de-simbolizzazione quando non addirittura fenomeni psicotici di massa.

A partire da queste analisi ci è parso interessante tentare di mettere in luce come il soggetto contemporaneo sia in qualche sorta prodotto dai dispositivi propri della razionalità neoliberale della concorrenza generalizzata; abbiamo cioè tentato di cogliere come il neosoggetto, per funzionare come richiesto, deve passare attraverso un certo numero di tecniche. In altri termini, ci siamo serviti del concetto foucaultiano di soggettivazione per cominciare a comprendere come il soggetto non sia “alienato”, “reso estraneo a sé medesimo” – fenomeni che implicherebbero l’esistenza di un soggetto non alienato – quanto piuttosto come sia condotto a partecipare alla propria costituzione, alla propria costruzione. Come il soggetto risponda da sé stesso alla domanda che gli viene indirizzata di coinvolgimento integrale e di performance. È proprio in ciò che consiste per noi il concetto di soggettivazione.

Che cosa bisogna intendere con soggettivazione?

Il modo di soggettivazione è storicamente situato e dipende da dispositivi sociali, istituzionali e normativi che ordinano il processo di soggettivazione.

Uno dei punti d’appoggio che abbiamo trovato in Foucault concerne sicuramente il carattere storico della soggettività. Certo, questa prospettiva genealogica non è interamente sua, in quanto esplicitamente derivata da Nietzsche, il quale sostiene che gli affetti, la morale stessa e la condotta debbano essere esaminati attraverso uno “spirito storico”. Il soggetto deve essere riposto nella sua trama storica e nei rapporti che intrattiene con gli altri e con sé stesso. Il soggetto non è quindi identico a sé stesso, non ha un’essenza, ma è una storia senza origine e senza destino, in quanto è intimamente interrelato alla società; in quanto è un’attività (soggettivazione), una pratica legata a delle tecniche.

Ciò che non smette di porre dei problemi allo psicanalista, se costui postula una sorta di forma eterna o astorica del soggetto. Il soggetto è storico. Esiste dunque un nuovo soggetto, un neosoggetto, come abbiamo sostenuto prima ancora di scoprire che degli psicoanalisti avevano in precedenza utilizzato questo neologismo.

Foucault e la soggettivazione

Il modo in cui Foucault pone il problema della costituzione storica della soggettività deve molto a Marx e a Nietzsche – e forse più a quest’ultimo che al primo.

La soggettivazione, la costituzione storica di un certo soggetto specifico a un periodo determinato, ha evidentemente molto a che fare con l’assoggettamento, l’assegnazione, l’oggettivazione. Per essere il soggetto di un’epoca data, di un certo rapporto sociale, il soggetto è oggetto di un processo di separazione discorsiva, di iscrizioni, di registrazioni, di classificazioni, di dressage disciplinare, di sorveglianza, etc. È al contempo individuato e nominato, è incasellato in categorie; è dunque oggetto di un discorso – sia esso religioso, filosofico, politico – ed è modellato nel corpo e nell’anima da delle tecniche di potere.

Ma c’è dell’altro nella soggettivazione, ossia la maniera in cui si diviene soggetto; la maniera in cui un soggetto è portato a condursi da sé stesso nel modo promosso dal discorso sociale, cosa che suppone un rapporto attivo a sé, che il soggetto sia precisamente un soggetto che intrattiene con sé stesso un rapporto in cui si considera come un soggetto che deve condursi, trasformarsi, ri-formarsi. In altri termini, questa dimensione attiva della soggettivazione si confonde con la natura stessa della soggettività come rapporto a sé, senonché non esiste soggetto che non sia il prodotto di un processo di soggettivazione specifico di certi periodi storici, processo che suppone delle tecniche di sé, esse stesse particolari, degli “esercizi” di “ascesi”. Si tratta della posta in palio politica dei corsi di Foucault sul governo di sé e degli altri; si tratta dell’esame della nozione greca di “cura di sé”, delle pratiche e delle tecniche che le sono correlate. Occuparsi di sé medesimi, trasformarsi, ri-formarsi è ciò che va dai Greci antichi sino alla spiritualità cristiana.

In altri termini, la soggettività pone il problema della maniera in cui un soggetto lavora al fine di accettare di essere ciò che si vuole che sia, che faccia ciò che si desidera che faccia, che desideri fare ciò che si desidera che faccia.

Il soggetto neoliberale è differente dall’“uomo economico”?

La concezione dell’uomo economico, così come la si trova all’opera in Smith e Bentham, si presenta come la scoperta di una “natura” dell’uomo e come un mezzo di riforma politica, morale, legislatrice, persino linguistica. Per i padri del liberalismo, si trattava di armonizzare l’edificio istituzionale in accordo e in conformità con questo dato particolare che era l’uomo interessato, l’uomo calcolatore e massimizzatore. Vi ricordo che per Lacan, grande e acuto conoscitore della sociologia francese quanto della filosofia britannica, l’utilitarismo benthamiano segna una rottura nella storia occidentale rispetto alla tradizione aristotelica e tomistica. Rappresenta l’equivalente e la conseguenza della rivoluzione scientifica del XVII° secolo nell’ambito sociale, politico e antropologico. Così come l’uomo ha perso il cosmo ed è entrato in un universo infinito, allo stesso modo ha perso un mondo gerarchizzato fatto di differenze per trovare uno spazio geometrico omogeneo, in cui risulta altro rispetto a ciò che era: abbandonato a dei giochi di forza esteriori e interni, luogo di una composizione instabile di forze dentro a un mondo sociale omogeneo fatto di essere complessi come lui, della stessa sostanza e agenti tramite le stesse forze.

In una parola, si è scoperto uomo mosso dagli interessi in uno spazio omogeneo composto da forze, il mondo dell’utilità, lo spazio degli interessi o spazio dell’utilità. Si è trovato agito da forze interiori, che lo spingono verso il piacere e lo fanno fuggire dal dolore. Si è trovato animato da desideri di fronte ad altri esseri animati da altri desideri. Ecco l’emergenza storica di qualcosa di radicalmente nuovo, il soggetto classico del desiderio e dell’interesse. È questa rivoluzione che caratterizza innanzitutto il liberalismo, con la sua tipica domanda: come ri-ordinare il mondo politico secondo questa nuova concezione antropologica? Il soggetto liberale è il soggetto del mercato dei beni supposti essere equivalenti. Il passo supplementare è però immediatamente consistito nel rendersi conto che il soggetto economico non era il piccolo produttore libero, ma il proletario.

Ci sembra che con il neoliberalismo non abbiamo più a che fare con una messa in conformità (come con l’utilitarismo e l’“uomo economico” dato per natura), in quanto siamo fuoriusciti dal naturalismo. Vi sono senz’altro degli enunciati naturalisti qui o là, ma la tendenza che inizia a delinearsi dal XVIII° secolo è piuttosto quella di un costruttivismo e di un artificialismo radicali. Questo in quanto ci si è resi conto che gli interessi erano plasmabili, orientabili, malleabili, in una parola governabili. E anche che si doveva, per governare, governare attraverso gli interessi. Che non si poteva governare l’uomo interessato che tramite il suo interesse, l’uomo del desiderio che tramite il suo desiderio. Con il neoliberalismo la tendenza viene spinta ulteriormente in avanti. Non sii tratta più solamente di fabbricare il soggetto interessato e del desiderio, bensì il soggetto della performance e del godimento tramite dei dispositivi particolari.

Soddisfarsi della logica dell’interesse, significa in fin dei conti soddisfarsi della logica dell’equilibrio. Certo, il benessere si accresce tramite lo scambio e la divisione del lavoro, ma in modo lento, progressivo ed è ben possibile che tutto ciò non realizzi il disegno auspicato, in quanto vi sono costi di tutti i tipi, il rovescio della medaglia, dei rendimenti decrescenti, etc. Sul piano morale e politico, tutto il lavoro del moralista e del legislatore consiste nell’armonizzare gli interessi, cosa che non può non sfociare che in una sorta di equilibrio implicante un sacrificio degli oggetti di soddisfazione e delle modalità asociali di soddisfazione. Tutto ciò è molto ben reso dall’opposizione freudiana tra i due principi psichici del piacere e della realtà – quest’ultimo essendo esplicitamente correlato con il principio di utilità. In ciò Freud risulta un grande autore liberale, dell’epoca della democrazia liberale, e un grande lettore di John Stuart Mill, come Lacan fu un acuto lettore di Jeremy Bentham.

Il neoliberalismo ci sembra corrispondere a un’altra logica, rivelatrice di una nuova fase; il soggetto non è dato, lo si può rimodellare senza sosta, il grande mercato non è più sufficiente per socializzarlo e trasformarlo, sono necessarie delle operazioni speciali, dei medicinali, delle tecniche di sé, delle “ascesi della performance”, gli ci vogliono via via più tecniche comportamentali, pillole di performance, che agiscono sulla chimica del cervello, in una parola: bisogna fabbricare il nuovo uomo, il soggetto della performance e del godimento. E per far ciò è richiesto un dispositivo sociale e istituzionale.

L’impresa di sé neoliberale come forma del soggetto

Il modello umano è l’impresa. Bisogna condursi come un’impresa, un’impresa di sé. La lingua registra molto bene questa trasformazione; l’autonomia è diventata “gestione di sé stessi”, è una pura contabilità; l’individuo è divenuto “capitale umano”. Si tratta dell’interpretazione manageriale dell’essere umano.

Come fare affinché il soggetto si conformi al modello dell’impresa, affinché si conduca esso stesso come un’impresa?

Il mito culturale dell’imprenditore, la propaganda per diventare imprenditore, per avere una mentalità imprenditoriale, con tutte le qualifiche morali e comportamentali, le motivazioni di riuscita, il senso dell’opportunità commerciale, tutto ciò è importante ma non sufficiente. La scuola, per esempio, risulta necessaria al fine di sviluppare la “cultura d’impresa”, dall’asilo fino all’università.

Questa gestione di sé stessi è in realtà comandata dal principio della concorrenza che viene imposto dalla competitività. Si tratta di una gestione di sé stessi tramite lo stress, un management di sé attraverso la pressione della concorrenza.

Il primato della concorrenza è un punto decisivo che mostra molto bene la rottura con la vecchia condizione. Al fine di chiarire questo aspetto è sufficiente prendere in considerazione le teorie del commercio internazionale. Presso i liberali del XVIII° e dell’inizio del XIX° secolo, si commercia a partire dalle risorse nazionali. Ciò non significa che non vi siano dei cambiamenti nel corso del tempo, ma si dipende fortemente dai dati naturali. Si è dipendenti da un dato di partenza. Le teorie moderne del commercio se ne fregano delle risorse nazionali di partenza; ciò che conta è partecipare al gioco della concorrenza. Si diviene (o no) competitivi nella e attraverso la concorrenza. Ciò che conta è porre ognuno – istituzioni, paesi e soggetti – nella concorrenza e attendere gli esiti. Il ruolo delle istituzioni educative, sociali, sanitarie etc. non consiste semplicemente nel preparare alla competizione, nel riparare i danni, nel riciclare e revisionare le competenze come si revisiona un’automobile. Questo è il ruolo odierno dello Stato: implementare la concorrenza in seno al funzionamento istituzionale affinché dei professionisti del legame sociale siano coinvolti e implementino a loro volta questa logica nel cervello degli utenti o partecipino alla gestione di un mondo completamente concorrenziale.

Il ruolo delle istituzioni consiste anche, e soprattutto, nell’elargire alla società un funzionamento manageriale secondo il quale, affinché l’impresa sia competitiva, è necessario che nel suo seno si sviluppi un tipo di funzionamento proprio a uno spazio competitivo. La performance dell’impresa è la somma delle performance di ciascuno. Ogni salariato deve rispondere alle logiche della competitività e deve sviluppare una condotta orientata verso l’aumento delle proprie performance, deve essere completamente coinvolto dal suo lavoro, responsabile dei risultati individuali, motivato dai sistemi d’incitazione, in una parola: dar prova di una disposizione interiore, di un ethos frutto non di un’obbedienza passiva ed esterna a delle regole, ma di un autentico lavoro su sé stesso, di una nuova etica che potremmo chiamare imprenditoriale. Si tratta di lavorare incessantemente al proprio perfezionamento, al fine di migliorare la propria performance in uno spazio di competizione che obbliga a una lotta permanente per la sopravvivenza. L’esposizione al rischio diventa dunque decisiva.

Qual è il nuovo carattere di quest’etica?

Nell’impresa non vi sono che delle piccole imprese, ogni salariato essendo un’impresa di sé, che deve essere gestita come un “centro individuale di profitto” in rivalità con gli altri. Evidentemente, il rapporto salariale non sparisce, ma il cambiamento è notevole e conduce d’ora innanzi a delle forme di contrattualizzazione e precarizzazione molto delicate. Ogni lavoratore è considerato come un produttore di valore perfettamente valutabile sul mercato interno dell’impresa per cui lavora. Il suo proprio valore dipende dal valore individuale che produce e che può essere calcolato da sistemi di valutazione quantitativa, gli stessi che si diffondono nel settore pubblico e nelle associazioni.
Bisogna aver ben chiaro questo punto.

Il processo di soggettivazione è un processo di valorizzazione di un’impresa di sé o, in un vocabolario più economico, di un “capitale umano” individuale. Questo processo di valorizzazione, lo si intuisce, è strettamente interrelato con le modalità della valutazione finanziaria delle imprese (importanza del good-will, dell’impalpabile, dell’immateriale, dell’inquantificabile, che tuttavia bisogna pur quantificare).

Il processo di valorizzazione dell’impresa di sé mostra diversi aspetti: non ha limiti temporali e sociali. In un universo fluttuante, le stime del valore cambiano costantemente. Nulla è fisso o dato, ma tutto è da fare e da rifare in un orizzonte di rischio. Il valore sociale non è più relativo a dei presunti diritti innati; bensì dipende interamente dagli scambi che l’impresa di sé intrattiene con gli altri, dalla sua capacità di rispondere con un’offerta sufficientemente allettante alla domanda, dal proporre progetti fonti di redditi, etc.

L’intera vita personale è impigliata in questa razionalità globale. Bob Aubrey, un consulente da cui abbiamo saccheggiato non poco, spiega così che la vita non è nient’altro che un “portafoglio d’attività” da valorizzare. Lui stesso si appoggia su Foucault per comparare la cura di sé a questa gestione del capitale umano.

Ciò che, tuttavia, ci pare nuovo in questa impresa di sé consiste nel fatto che non vi è spazio per alcun tipo di perdita. Il plus-valore è immediatamente recuperato da sé stesso: mi sfondo di lavoro, ma al fine di accrescere il mio valore. L’ascesi laboriosa, più che mai esaltata, è inseparabile dal recupero senza perdite di godimento. Il nuovo soggetto è supposto godere di sé, del valore sociale che ha e che è. Il processo di valorizzazione di sé è illimitato, come una sorta di pieno godimento immaginario. Quando qualcuno compara la tecnica manageriale di sé con l’antica cura di sé, dimentica che nel lavoro di sé vi era un movimento di de-implicazione dal ruolo sociale, di messa a distanza. Bisognava ritirarsi dal gioco sociale per accedere a un ordine di cose più universale e autentico. Con le tecniche manageriali, invece, vi è un’identificazione e un’implicazione totali con il gioco e la funzione sociali.

L’ultrasoggettivazione

Ciò implica anche e soprattutto una soggettività dell’illimitato o, come diciamo, dell’ultrasoggettivazione. Questo è il grande fattore di novità.

Andare aldilà di sé, l’auto-superamento costante come norma di comportamento, è ciò che è ingiunto al soggetto e ciò che, al contempo, il soggetto s’impone di fare da sé medesimo, la maniera in cui si deve produrre da sé stesso. Spingere o persino trasgredire i limiti, andare aldilà di sé – questa è la norma. Ogni limite è fatto per essere superato, è potenzialmente già superato; non soltanto ogni divieto ma anche ogni limite raggiunto acquisiscono senso solo nel momento in cui si cerca di superarli. La logica della performance s’impone in tutte le istituzioni, in particolare sotto la forma ufficiale della “cultura del risultato” promossa dalla nuova gestione pubblica, non soltanto per economizzare ma anche affinché ciò divenga la norma applicabile al personale e agli utenti.

L’ultrasoggettivazione non è un adempimento, non è nemmeno una rinuncia a sé nel senso di una trascendenza di sé, bensì un oltrepassare indefinito del valore che si è, di sé come valore. Si tratta dell’aggiunta indefinita del valore di sé. Bisogna qui comprendere chiaramente che la vita, il fatto di vivere e le sfere dell’esistenza, sono state ridotte a valore. L’ultrasoggettivazione si confonde con un’autovalorizzazione di sé come capitale. Se si vuole, si tratta della forma di soggettività corrispondente al capitalismo finanziario.

Il soggetto neoliberale è il soggetto capitalista. Questo soggetto è assoggettato alla legge del di più, dell’extra, come diceva Marx, ossia del sempre di più, della performance massimale.

Nel capitalismo neoliberale, il soggetto è convocato a non resistere all’intensificazione del lavoro, ma deve conformarsi, trasformarsi, riformarsi al fine di intrattenere con sé stesso e con gli altri un rapporto di sfruttamento. Il processo dell’ultrasoggettivazione non è un assoggettamento a una legge esteriore imposta da un capitale capace di disporre della forza-lavoro, ma una maniera di aggirare dall’interno del soggetto ogni regola sociale, a partire dal momento in cui è il soggetto stesso che diventa capitale, che impone a sé stesso un rapporto capitale-lavoro, che intrattiene con sé stesso una relazione di sfruttamento. Si tratta, in fin dei conti, di un mezzo piuttosto straordinario di aumentare il plus-valore assoluto quanto di fare del soggetto un’impresa, ossia di far sì che il rapporto a sé sia un rapporto di sfruttamento, un rapporto di di più e di extra, di sempre più.

La soggettivazione si confonde così con la valorizzazione del capitale. Il capitale è ormai la forma soggettiva normale, il normale rapporto con sé.

Le tecniche dell’ultrasoggettivazione

Un certo numero di tecniche fa parte di un dispositivo più generale destinato a creare e rinforzare queste disposizioni soggettive. Negli ambienti professionali, ma ora anche aldilà di essi, vi sono delle tecniche di un genere speciale che hanno in comune il fatto di non interdire, di non bloccare e di spostare le linee dell’usuale morale utilitarista, quella che oppone giustamente principio di piacere e principio di realtà, in quanto costituisce un ostacolo al processo dell’illimitato, così diffuso nel capitalismo odierno.

Queste tecniche impegnano il soggetto a compiere un lavoro su di sé al fine di diventare un uomo della competizione, un piccolo “signore della guerra commerciale”.

La competizione suppone che si possano misurare e comparare i risultati di una certa attività, che si possano ricompensare vincenti e perdenti. Se il mercato non può sanzionare direttamente, bisogna creare artificialmente degli operatori equivalenti al mercato, dei quasi-mercati senza merci ma in cui dei sistemi di prezzi quantificati siano messi in atto al fine di misurare il valore della produzione e del produttore. Questi sistemi burocratici di valutazione, contrattazione e comparazione che servono come regolatori dei quasi-mercati interni alle imprese e alle amministrazioni risultano delle tecniche essenziali. La valutazione quantitativa rappresenta la magistrale dimostrazione pratica di ciò che sosteneva M. Thatcher a proposito dell’economia come modo di cambiare l’anima e il cuore.

L’importante è impegnare le persone, farle coinvolgere affinché cambino accettando di essere valutate, comparate, ricompensate. Il punto essenziale è l’accountability, il fatto di essere responsabile, di “render conto”, ma soprattutto di essere contabilizzabile, che la propria attività sia misurabile oggettivamente, comparabile a quella degli altri., etc.

Uno degli aspetti sovente osservati concerne la pesantezza e il costo, l’inefficacia di queste procedure di concorrenza e valutazione. Ma la critica in termini di efficacia non sempre centra il bersaglio. L’efficacia di cui si tratta consiste nel riformare gli individui, nel piegarli a una logica d’impresa e di mercato. Vi è senz’altro, a questo livello, una “codificazione” burocratica, ma ciò che più importa è la credenza che, grazie alla messa in concorrenza e all’esposizione al rischio, si scateni dell’energia positiva.

Una volta che si accetta di essere entrati nell’orizzonte della contabilità, di essere valutati, conviene allora sottoporsi a ogni sorta di tecnica, di procedura e di trattamento dell’individuo. È qui che i “manager dell’anima”, come diceva Lacan, i nuovi “psi” della performance, intervengono nell’impresa, con tutto un sapere e un lessico “psi” avente come obiettivo il fatto che ognuno possa “ottimizzare il suo potenziale” padroneggiando meglio la comunicazione con colleghi, superiori, clienti, etc. Ecco allora salire alla ribalta i tecnici della PNL [programmazione neuro-linguistica], dell’analisi transazionale, i professionisti del coaching e tutta quella panoplia di esperti che mette in risalto il legame tra lavoro su di sé, performance individuale e performance globale dell’impresa. Tutto ciò ha come scopo una sorta di auto-oggettivazione, di auto-valutazione delle performance, di auto-controllo della condotta.

Un dispositivo più generale

Nel nostro libro parliamo di “dispositivo di performance/godimento” per designare qualcosa di più largo ed eterogeneo delle sole tecniche in vigore nelle imprese. Ciò rinvia a dei saperi, delle istituzioni, delle tecniche e dei discorsi che hanno un potere normalizzante sulla condotta e la soggettività. È il nome che, se si vuole, diamo alla società di mercato nella fase neoliberale.

Fabbricare il soggetto dell’illimitato significa lavorare sulle sue inibizioni relative agli altri, i suoi scrupoli, la sua vergogna e timidezza, tutti i limiti imposti durante l’infanzia dalle istituzioni repressive come la famiglia e la scuola tradizionali. Ciò comporta “spassarsela”, scoppiare, uccidere l’altro, in un mondo violento come quello di certi video giochi eccitanti per adolescenti. Si tratta di tutta una linea culturale che ha come punto d’orizzonte ideale un essere la cui sola norma di condotta consiste nel perseguimento indefinito della performance e del godimento. È il filo che corre tra tutte le forme del culto dell’eccesso, della velocità e dello score volte a oltrepassare ogni limite. La chimica offre senz’altro delle possibilità d’azione sul cervello che vanno in tal direzione, esattamente come i video-games, la finanza (fino al crac), la sessualità, lo sport di competizione, i giochi televisivi, le modalità festive dell’abuso di droghe e alcoolici. Ugual discorso per la valorizzazione del rischio, lo screditamento di tutte le forme di protezione sociale e di solidarietà, la denuncia delle regole “costrittive”, dell’immobilismo, dello status quo.

Si potrebbe mostrare come il carattere illimitato del godimento si connoti per un’indefinita libertà di scelta, illimitata apriori. Il rapporto con le istituzioni, le norme, le leggi sono anch’essi dei rapporti di scelta. Il consumatore è sovrano e, sotto ogni aspetto, il soggetto è inteso come consumatore. Ha diritto a tutto. Inversamente, tutto, almeno il linea di principio, è a sua disposizione. Molto semplicemente, tutto è potenzialmente offerto – o offribile – a sua disposizione.

Il punto importante da sottolineare riguarda il legame tra performance e godimento, come lo mostrano bene i prodotti che massimizzano la potenza sessuale maschile. Consumare, significa produrre una soddisfazione, significa lavorare alla soddisfazione (Becker) secondo la teoria del capitale umano. E godere significa essere performanti.

Ciò non comporta, come in Marcuse, pensare in termini di complementarietà tra ascesi puritana, ossia rimozione, e “desublimazione repressiva”. Ciò inerisce ancora a una problematica relativa all’epoca industriale classica. Oggigiorno, vi deve essere ovunque una tensione estrema. Tutto avviene come se per immettere pressione nel sistema al fine di farlo avanzare più velocemente sia necessario immettere pressione in ognuno affinché superandosi incessantemente e in ogni ambito contribuisca al dispiegamento sociale.

Implicazioni politiche

Non vi è chiarezza a proposito dei limiti o dei “senza limiti”.

Sicuramente, però, commettono un grande errore i conservatori che confondono l’ultrasoggettivazione neoliberale con un’eredità del ’68, che non vi vedono che la conseguenza, un po’ radicalizzata, dell’affermazione dei diritti individuali, in somma una forma estrema d’individualismo che conduce a mettere in causa l’autorità e persino la democrazia stessa. Ricompiono così l’errore dei conservatori che già nel XIX° secolo imputavano alla “rivoluzione dei diritti dell’uomo” la crisi dell’autorità e il declino della nazione e delle istituzioni.

In realtà, vi è un modo di potere e di governo, e non un principio anarchico; un modo particolarmente eteronoma, che propone – come per gli sportivi di alto livello – allenamento, controllo, disciplina, ascesi, ponendo come compensazione la prospettiva immaginaria di un godimento totale, di una riuscita completa, di una felicità compiuta, realizzata emblematicamente attraverso il consumo d’immagini di star e di certi uomini politici di cui Berlusconi è senza dubbio la figura più oscena. In poche parole: lo spettacolo del consumatore assoluto, di colui che può permettersi tutto. Il più performante è colui che più gode, che può pagarsi qualsiasi cosa, in quanto ha lavorato a tal fine.

Foucault ha colto molto chiaramente la positività delle forme di potere quando le vede come dei modi di produzione, quando le comprende come delle maniere di far fare, di “condurre le condotte”. Non bisogna dunque intendere il soggetto neoliberale come un soggetto che avrebbe perso i suoi riferimenti, la morale e il senso del limite; anzi, che sarebbe “senza limiti”. Il soggetto neoliberale è semplicemente entrato in una modo di soggettivazione che lo conduce a superare ogni limite. Il “senza limite”, è esattamente la logica normativa dell’illimitato, ma non nel senso di un declino delle norme che inibiscono, ma di nuove norme che spingono al superamento di ogni limite. Questo nuovo soggetto è tendenziale, come la legge della caduta del saggio di profitto. La legge tendenziale del superamento dei limiti, per così dire. Ciò non significa che non vi siano più limiti, in quanto si ricreano sempre e di nuovo non appena oltrepassati, esattamente come la ricerca di battere incessantemente i propri record da parte dello sportivo.

Il fatto che non si pongano più dei confini, non vuol dunque dire che non vi siano più norme. Al contrario. Ciò che è cambiato è che siamo passati dal mondo chiuso della Legge intangibile e del grande Altro installato in cielo all’universo delle norme della produzione e dell’autoproduzione che non pregiudicano in alcun modo la ricerca della performance.

Ciò comporta delle implicazioni politiche che non devono essere sottovalutate – a sinistra e a destra, per dirlo velocemente. Vi sono certe tendenze, diciamo di sinistra, che sono ammaliate dall’“illimitato neoliberale”, scorgendovi, sulla scorta di Deleuze e Guattari, il vettore rivoluzionario della distruzione dei vecchi limiti oppressivi, identitari, statutari, etc.. Vi vedono una liberazione permanente, la liberazione dei flussi schizoidi che avrebbero dovuto “abbattere i muri” e farci entrare in un ordine sociale che non è veramente tale.

A destra, invece, ma ciò può valere anche per certa sinistra, si vorrebbero restaurare i “limiti” sotto la forma dell’autorità, ponendo dei vincoli alla rivendicazione delle libertà, etc.

In realtà, non abbiamo a che fare con un nuovo fascismo, e il termine di “totalitarismo” non ci pare adeguato per descrivere il nuovo carattere dell’attuale modo di normalizzazione. Si tratta chiaramente di far prevalere in ogni ambito le considerazioni della gestione, dei calcoli di costo e della misura dei risultati. Si tratta ovunque di far comprendere che siamo in tutto e per tutto coinvolti in una mega impresa e che ognuno si deve condurre come tale, ossia come un’impresa di sé, secondo una logica contabile di redditività. Ciò conduce a sviluppare un autocontrollo e un’autovalutazione incessanti.

Sul piano politico, si applica ovunque il regime della normalizzazione dell’impresa, il quale distrugge poco alla volta tutto ciò che riguarda la logica democratica. L’unificazione del controllo dei comportamenti, della misura delle competenze a scuola, della schedatura della popolazione, della gestione securitaria dei problemi sociali, delle tecniche di valutazione al lavoro acquisisce senso se la si rapporta non tanto al “totalitarismo”, quanto a un nuovo modo di governo: il governo imprenditoriale.

La resistenza deve dunque organizzarsi su più livelli. “L’appello degli appelli”, riguarda anche, ovviamente, un certo numero di professioni interessate da tali procedure valutative e normalizzanti. Questa resistenza diventa allora cruciale da un punto di vista strategico. Siccome si tratta di sapere se i professionisti in questione sono disposti a partecipare attivamente a una logica del controllo delle loro attività che li farà accettare di essere i controllori della popolazione. Controllare i controllori della popolazione, calibrare i calibratori dei comportamenti: ecco, al giorno d’oggi, una delle poste in palio delle battagli che si devono condurre.

 

* Traduzione di Davide Gallo Lassere.