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Dentro la crisi allo specchio

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di COMMONWARE

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Quando le lotte esplodono nei Brics. Ecco la questione che ci poniamo, o meglio a cui la Comune di Gezi e il movimento passe livre in Brasile ci pongono di fronte. In prima battuta, offrono l’occasione per mettere ancora una volta a critica il continuo ripresentarsi di un’immagine termidoriana dell’attuale fase.

Arrivati ormai al sesto anno della crisi, che a suo tempo definimmo globale e permanente, è come se per molti fosse ormai conclamata non solo l’insufficienza dei movimenti, ma un loro strutturale destino di sconfitta e irrisolutezza. Da qui la scelta di ripiegamenti e scorciatoie, poco conta se “in avanti” o “indietro”, se dettati da ingenua buona fede o da calcolo opportunistico. Il risultato è identico: l’evitare di confrontarsi con gli avanzamenti e i punti di blocco, cioè i nodi reali delle lotte laddove ci sono, oppure della loro difficoltà a emergere e diventare tessuto connettivo. “Ma in Italia di lotte non ce ne sono!”, recita la vulgata, dentro e fuori dai movimenti. É forse la stessa cosa che avrebbero potuto dire i compagni a Istanbul o a Rio de Janeiro, per non parlare degli Stati Uniti pre-occupy o in Tunisia ed Egitto prima dell’ondata rivoluzionaria che ha messo a soqquadro il Nord Africa. Sarebbero stati incauti, quei compagni, o quantomeno – possiamo dire oggi – non avrebbero considerato quelle genealogie più o meno profonde che di quelle insorgenze costituiscono l’indispensabile spina dorsale. Non ci interessa consultare la cabala o fare i bookmaker delle rivolte globali: il nostro compito, più sobrio e in definitiva più impegnativo, è di provare a leggere delle tendenze, di elaborare ipotesi politiche, di scommettere sulla differente composizione di elementi che già esistono o in modo caotico si stanno formando.

A tale scopo, queste lotte ci interrogano su questioni di fondo: innanzitutto, è possibile indicare un paradigma comune dei movimenti nella crisi? Non stiamo ovviamente parlando di un peraltro impensabile quadro unitario e omogeneo, quanto invece di elementi comuni che possano permettere di porre su un piano di immediata comunicazione e traducibilità le differenti lotte. Se questo paradigma è individuabile, in che modo quello che è avvenuto in Turchia e in Brasile lo modificano? I materiali di analisi e riflessione che presentiamo in apertura della nostra Cartografia delle lotte nella crisi offrono, in questa direzione, importanti contributi.

Paradigmi in movimento

Da tempo siamo impegnati in una rivisitazione critica della tradizionale categoria di “ciclo”. Ne abbiamo constatato il difficile utilizzo nella lettura delle crisi economiche: quando si succedono a ritmo vertiginoso e accelerato a distanza di pochi anni, quando tendono a spalmarsi e allungarsi sul normale funzionamento finanziario tanto da diventare permanenti, quando procedono di bolla in bolla nella dinamica definita “boom-bust” – come è possibile ancora utilizzare, quantomeno nel suo significato originario, tale categoria? Parallelamente, e in relazione con quelli economici, sono oggi probabilmente da ripensare i “cicli delle lotte”. Tutto sommato, proprio la radicale riconfigurazione delle forme del potere, l’esplosione delle tradizionali coordinate disegnate dalla divisione internazionale del lavoro, il tramonto della rappresentanza e dello Stato come misura dei rapporti di forza, ovvero la necessità per le lotte di disporsi su un piano immediatamente costituente, ci portano ad andare oltre la convenzionale definizione di ciclo. E tuttavia, è forse possibile parlare di un “ciclo delle soggettività”, cioè di uno spazio e un tempo comuni in cui si formano e agiscono. Sono soggettività, quelle delle lotte nella crisi, che sembrano infatti condividere dei tratti caratterizzanti: la composizione sociale e di classe, il congedo o quantomeno il distacco dalla rappresentanza, i principali spazi di vita e di azione, cioè la rete e la città, alcune pratiche di lotta (per esempio l’occupazione delle piazze e dei luoghi urbani), non solo un attacco al privato ma anche un rapporto sempre più problematico con il pubblico concretamente esistente. E condividono, al contempo, i principali problemi, primo fra tutti quello della durata. O per dirla in termini non certo inediti, almeno per noi, la difficoltà a unire all’azione destituente (talvolta straordinariamente incisiva, come è accaduto nell’abbattimento dei regimi in Tunisia ed Egitto), un’altrettanto consistente iniziativa costituente. Il piano estensivo e orizzontale delle mobilitazioni, la loro capillare diffusione e capacità di moltiplicarsi, fatica a combinarsi a un piano intensivo e verticale, in grado di modificare in modo non solo contingente i rapporti di produzione e di potere.

Tuttavia, se non vogliamo abbandonarci a una lettura ciclotimica, che rimbalza tra euforia per le rivolte (in particolare quelle degli altri) e depressione per le fasi di rinculo (che serve a giustificare ripiegamenti e scorciatoie di cui sopra), dovremmo provare a seguire seriamente l’indicazione di Michael Hardt: guardare cioè alla produzione di soggettività, non per trovare conforto nell’utilità dei conflitti purché siano, bensì perché è innanzitutto su questo livello – quello della produzione di soggettività, appunto, e della sua capacità di costituirsi in modo comune – che vanno individuate ricchezze e limiti delle lotte nella crisi. Non c’è qui spazio per ottimismo e letture consolatorie: quello che sta accadendo in queste settimane in Egitto ci restituisce la drammaticità della fase che viviamo. Ma non si possono separare a tavolino gli inquietanti rischi della reazione dalle concrete possibilità che i movimenti nella crisi continuamente producono: talvolta è estremamente dura, però dobbiamo calarci qui dentro, perché un fuori non c’è. E dall’interno possiamo verificare come la partita sia completamente aperta. Del resto, abbiamo visto come da inneschi contingenti – la difesa di un parco a Istanbul, l’aumento del costo dei trasporti in Brasile – si creino lotte generali. Ciò significa che non sono casuali, ma in grado di mobilitare e unificare genealogie profonde e forze apparentemente invisibili ma tutt’altro che assenti.

Come emerge dai materiali presentati nello specifico focus, i movimenti nei Brics (allargando dunque l’acronimo giornalistico alla Turchia) ci pongono però di fronte a un elemento nuovo, di grande importanza: sono lotte che prendono corpo all’interno di contesti non di recessione ma, al contrario, di espansione economica. Scrivere globale per aggettivare la crisi, significa evidentemente assumerne l’intrinseca e profonda differenziazione interna. Si può parlare, più complessivamente, della crisi permanente dello sviluppo capitalistico, dell’esaurimento delle sue promesse di progresso sociale. Se in Europa e negli Stati Uniti tale crisi assume in forma paradigmatica la fisionomia del declassamento e della precarizzazione del ceto medio, i compagni da Istanbul e da Rio ci dicono una cosa diversa. Quel ceto medio, infatti, nella funzione politica di mediazione che ha qui storicamente avuto, è in Turchia parte integrante del blocco di potere, mentre in Brasile non è mai esistito, o meglio ancora nasce già declassato e precarizzato. Si costituisce, ab origine, come proletariato cognitivo. Le composizioni delle lotte in Europa e Nord America e quelle nei Brics – i soggetti al centro della riflessione di NeetWork – ci fanno vedere una sorta di mondo allo specchio: da una parte a emergere sono i precari di seconda generazione, socializzati fin da subito in una situazione permanente di crisi, declassamento e rottamazione delle capacità cognitive, che – a differenza dei loro genitori – del futuro non hanno mai avuto neppure il racconto; dall’altra, i giovani protagonisti dei movimenti in Turchia e soprattutto in Brasile – ci spiegano i compagni – sono cresciuti nelle promesse di una società in espansione, specificamente in America Latina nella difficoltosa transizione verso una società post-neoliberale. Sono i soggetti di una transizione irrisolta, come correttamente sottolinea Hardt. Non è un caso che dentro le lotte nei Brics l’illusoria alternatività tra pubblico e privato quasi non si ponga. Il pubblico già privatizzato è per certi versi il nemico principale, quel sogno di una società capitalistica post-neoliberale che è diventata, per un’intera generazione, il simbolo di una forza intellettuale e creativa ascendente però continuamente costretta entro i limiti dello sfruttamento. Tuttavia, nella dissoluzione del classico ciclo economico il mondo allo specchio produce lotte comuni, unificate dalla definitiva separazione tra sviluppo capitalistico e progresso sociale, cioè dal blocco permanente e dall’attacco alla potenza collettiva generata dentro e in eccedenza rispetto a quello sviluppo. La commensurabilità è dunque costruita dalle lotte: sono i movimenti a costituire un piano globale. In questo quadro – per dirla con Bifo – il problema è condurre le lotte al piano strategico dell’autonomia del lavoro cognitivo. Ecco il nodo da sciogliere e la questione da porre.

Lo spazio delle lotte

Nel “ciclo” abbiamo a questo punto un problema di luoghi e di spazi. Dobbiamo cioè, da un lato, fare i conti con una questione: nel momento in cui la metropoli diventa produttiva, quali sono i luoghi dei conflitti e di condensazione del valore, quelli in cui è possibile far male al padrone? Dall’altro lato: dopo la crisi dello Stato-nazione, quali sono gli spazi politici in cui il piano globale può essere rovesciato in leva della trasformazione radicale? Oggi, forse, ci sono lotte che fanno male al padrone e ancora non generano spazi ricompositivi, e spazi ricompositivi che faticano a far male al padrone. É una questione che ci proponiamo di affrontare innanzitutto nella sezione Cloe, a partire dalle ipotesi illustrate da Simona de Simoni. Fissiamo ora degli appunti stenografici da sviluppare, o meglio delle domande sul nodo degli spazi transnazionali.

Da ormai lungo tempo abbiamo individuato nell’Europa il piano su cui agire, la possibile “leva” di medio termine tra lo spazio nazionale in via di esaurimento e lo spazio globale altrimenti sfuggente. Continuiamo a pensarlo, al contempo vogliamo evitare di ripetere come un mantra delle ipotesi che rischiano così di nascere vecchie. Niente affatto perché fossero sbagliate in principio, ma semplicemente perché si è perso il tempo in cui tali ipotesi in quella forma potevano essere politicamente inverate. Nel frattempo, avverte Christian Marazzi, l’Europa è diventata un mostro. A scanso di equivoci, se caso mai ce ne fosse bisogno: non stiamo affatto pensando di fare un passo indietro, cioè di ritornare agli angusti e svuotati spazi nazionali. Al contrario: per combattere adeguatamente ogni tentazione neo-sovranista (ce ne vengono sempre più esempi, soprattutto da oltralpe) è indispensabile riformulare quell’ipotesi che ci ha caratterizzato. In altri termini, non possiamo continuare a evocare l’Europa ideale facendo finta di nulla su quello che è l’Europa reale, pena ritagliarci una posizione di semplice testimonianza. Il tema dell’Europa nei movimenti è poco presente o talora assente, non c’è dubbio; invece di bollarli come nazionalisti o accecati dal sovranismo, dovremmo coglierne i motivi. Non per compiacerli, ma per trasformarli.

Si pone qui il problema del livello su cui agire la critica dell’Europa reale e della moneta unica, contrastando al contempo qualsiasi ripiegamento reazionario e sovranista. Se quello nazionale è infatti per le istanze di cambiamento uno spazio vuoto, quello europeo non va semplicemente riempito, bensì completamente costruito lungo nuove coordinate. Ciò può avvenire forse proprio a partire dalle sue faglie interne – quella mediterranea, tanto per cominciare, su cui tornano a rullare tamburi di guerra mai scomparsi – da rovesciare in leve dell’iniziativa politica transnazionale. In questa direzione, le indicazioni che ci vengono da Marazzi sono di fondamentale importanza: dobbiamo individuare degli obiettivi attraverso cui declinare concretamente la prassi della trasformazione. Oggi un discorso sull’Europa, seguendo ancora Christian, non può che cominciare dall’individuazione di spazi ed elementi del comune – ovvero non dalle mappe istituzionali bensì dalla cartografia delle soggettività, dalle loro forme di vita e di lotta.

Nel rinnovare il piano immediatamente transnazionale dell’azione politica, dobbiamo anche fare i conti con le difficoltà nella costruzione di reti europee. Nel corso degli anni abbiamo fatto molti tentativi (per campagne oppure per settori soggettivi, ad esempio i migranti, i precari e gli studenti), tutti si sono scontrati con il problema della durata. Possiamo constatare il fallimento delle aggregazioni su singoli momenti, in quanto puntano più alla riproposizione dei contro-vertici “no global” che non alla sperimentazione di forme adeguate alla fase. D’altro canto, dentro questo spazio da costruire è necessario pensare anche a una nuova temporalità dei processi organizzativi di rete. Questa non può limitarsi agli eventi di conflitto e di esplosione, per poi inabissarsi subito dopo; non può nemmeno, però, viaggiare al ritmo di continuità dei luoghi, cioè delle reti radicate sul piano territoriale. I vari tentativi, infatti, hanno lasciato sedimenti, tracce e relazioni politiche, certo insufficienti per configurare una nuova forma di organizzazione transnazionale ma non inutili per tenere aperta l’urgenza di una sua ricerca. Insomma, non bisogna ogni volta ripartire da zero, anche nel compito di creare qualcosa di necessariamente inedito e adeguato ai soggetti potenzialmente emergenti. Il problema principale è appunto capire su quali livelli e attraverso quali leve la potenza può divenire spazio di generalizzazione.

Infine, per iniziare

Concludiamo con un altro problema aperto, che in fondo molti ne ricomprende. Il nuovo progetto di Commonware vuole infatti, programmaticamente, scavare nei nodi irrisolti, nelle ipotesi da correggere e ripensare, negli arnesi concettuali che rischiano di girare a vuoto. Abbiamo più volte sostenuto che crisi della rappresentanza, soprattutto per le nuove generazioni dentro la composizione di classe, significa estraneità alla sinistra. Per carità, nulla impedisce di continuare a usarne il significante, sperando che un nuovo significato o novelli principi tornino a riempirla di possibilità di emancipazione. Temiamo però che per questa strada non si vada lontano, a meno che non ci si candidi semplicemente a essere i cantastorie di una storia finita. Va da sé che non ci possiamo certo accontentare di una simile affermazione di estraneità, se a nostra volta non riusciamo a fare pienamente i conti con le sue conseguenze, in termini di prospettive, di pratiche, di discorsi. Per esempio, forse oggi possiamo dire – usando un noi largo, coincidente con lo spettro dei movimenti e perfino delle sue rappresentazioni “di sinistra”, appunto – di aver talora avuto un po’ troppa puzza sotto il naso rispetto a umori e comportamenti, certamente inquietanti e profondamente ambigui, su temi come la corruzione o la meritocrazia. Sia chiaro, non abbiamo nessuna simpatia per i discorsi contro la casta, che di quegli umori sono la rappresentanza: rivendichiamo anzi la giustezza teorica e politica di un attacco radicale alla demagogia meritocratica. Ed è stato corretto individuare in tali discorsi il lessico del potere e della mistificazione: come se il futuro ai precari fosse stato rubato da singoli corrotti e non da un sistema che produce corruzione, e come se fossero magistratura e galera a poter restituire il maltolto e restaurare un mitologico – e terrificante – sistema per cui “a ognuno secondo il proprio merito”. Tuttavia, nutriamo altrettanto poca simpatia per un diffuso disprezzo elitario nei confronti delle “masse”, che non ha permesso di cogliere l’ambivalenza – reale ancorché problematica – di quegli umori e comportamenti. Buttando così via il bambino (l’istanza di classe contro una vita di merda) insieme all’acqua putrida, cioè il discorso meritocratico e giustizialista. A scavare bene, dentro questi ambigui umori troviamo infatti, in negativo, i noccioli materiali dei processi di movimento – crisi della rappresentanza, precarietà permanente, assenza di prospettive, svilimento e banalizzazione delle conoscenze. Già da tempo lo andiamo ripetendo, ma abbiamo difficoltà a trarne le conseguenze pratiche: le lotte nella crisi sono inevitabilmente spurie, e probabilmente sempre più lo saranno. I tifosi delle rivolte degli altri dovrebbero almeno sapere che il celebrato “que se vayan todos” argentino è nato da un coacervo di umori e comportamenti non dissimili da quelli sopra menzionati. In positivo, il piano costituente non appartiene alla purezza cristallina della soggettività, mai esistita e che mai esisterà, quanto invece alla capacità delle composizioni di classe di darsi nuove forme organizzative.