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Soggettività frammentarie, azione collettiva e questione istituzionale

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di LUCA NEGROGNO

Venerdì 20 giugno un gruppo di studenti, ricercatori, dottorandi ha organizzato nell'aula 33 di Via Zamboni a Bologna il seminario autogestito “Esplorare politiche: per una comprensione delle produzioni politiche dal basso. Approcci, metodologie e apporti teorici”. Il seminario è nato dalla necessità di creare un momento di dialogo e di confronto sulle produzioni politiche alternative, di resistenza e di lotta, ponendosi dentro e contro le dinamiche accademiche. La prima sessione è stata interamente dedicata alle politiche della salute mentale. La necessità è quella di ricostruire un confronto tra teoria e prassi, tra azione dei movimenti e riflessione scientifica. Il seminario ha vista la partecipazione di ricercatori non strutturati, giovani operatori dei servizi socio-sanitari, soggetti attivi nelle lotte del mondo del lavoro e del welfare. L'intervento che riproponiamo ha cercato di situare la questione della salute mentale all'interno di una concettualizzazione politica, utile alle lotte dei lavoratori e degli utilizzatori dei servizi.

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“Non lo considera come uomo, nel tempo in cui non lavora; ma lascia questa considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla polizia e agli sbirri dell'accattonaggio.”

Marx, Manoscritti economico - filosofici, 1844

Questo contributo si propone di argomentare la possibilità di una ricerca etnografica sui movimenti sociali applicata al campo della salute mentale. La mia ipotesi è che l'incontro tra questa prospettiva e l'oggetto di studio sia fecondo in due sensi: da un lato può fornire una rappresentazione del campo della salute mentale utile alle lotte e ai processi di emancipazione. Dall'altro può favorire una chiarificazione dei limiti e delle potenzialità di questa prospettiva di ricerca sul terreno della pratica politica.

L'etnografia permette di cartografare la salute mentale come un campo politico, un territorio i cui confini e la cui conformazione sono generati e attraversati da conflitti, abitati da rapporti di forza e da specifiche poste in gioco materiali e simboliche. Lo sguardo puntato sui “movimenti sociali” consente poi di focalizzare l'attenzione sulla dimensione soggettiva di tali processi, sulle concrete esperienze che abitano o attraversano questo territorio. I soggetti vanno qui intesi come attraversati dalle linee di forza del campo e strutturati da esse. Nondimeno lo sguardo etnografico riconosce nei soggetti entità dotate di agency, concreti uomini impegnati nella ricostruzione di senso, capaci di reinterpretare tali linee di forza, incorporandone la contraddittorietà e svolgendo costanti contrattazioni per progettare e realizzare trasformazioni o adattamenti in virtù di ricostruzioni antagonistiche, parziali, discontinue e frammentarie.

Il metodo con cui intendo procedere in questo lavoro è quello della critica, che procede dall'astrazione per giungere alle specificazioni concrete. Questo metodo non può essere disgiunto né logicamente né temporalmente dalla prassi politicamente orientata, quindi in nessun modo questo contenuto può intendersi esauriente o conclusivo, se non nella misura in cui aspira a fornire indicazioni ai soggetti in lotta.

1. La salute mentale come campo politico

In primo luogo è importante definire la salute mentale come campo conflittuale nel quale si agitano poste in gioco economiche, sociali e politiche. Primo passo della nostra analisi è la critica del discorso e della pratica della medicina organizzata attorno alla coppia concettuale salute\malattia. Tale coppia di significati reciprocamente interrelati sussiste sul concetto di norma, la misura che rigidamente stabilisce i parametri per cui il corpo è da riconoscersi come “sano”. L'oggettivazione del limite tra la norma e la sua violazione è da individuare nelle necessità del modo di produzione capitalistico, per cui il corpo dell'operaio è sano nella misura in cui partecipa alla produzione e malato in quanto inservibile per la produzione quindi disponibile ad essere catturato nel sistema tecnico-scientifico della medicina (Ongaro Basaglia, 1980) e qui nuovamente valorizzato.

Prima necessaria operazione critica consiste nel definire la salute il polo di una contraddizione dialettica con la malattia, in una dimensione da sottrarre al dualismo oggettivistico e da riportare nel campo complesso della fenomenologia. Il paradigma dell'incorporazione (Csordas, 1990) offre una prospettiva che mette radicalmente in questione la naturalità degli oggetti salute\malattia e la parallela scissione tra oggettivismo della norma sociale e soggettivismo della illness, sostituendo a queste prospettive un approccio fenomenologico, capace di penetrare in forma complessa la relazione tra soggettività e oggettività nella carne dell'esperienza. Salute e malattia sono dunque prodotti culturali utili ad oggettivare e rendere leggibile il rapporto tra l'irriducibile esperienza corporea e l'attraversamento di essa da parte delle forze sociali e politiche. Sulla base di questi approcci, possiamo dire che non sono la malattia o la salute degli uomini che determinano il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro salute e la loro malattia. Infatti “non si possono considerare i concetti di salute e malattia come due entità, due dati di fatto oggettivi, ma piuttosto occorre porsi il problema delle condizioni che rendono possibile la produzione e il successo di tale oggettivazione, chiarire cioè quali istituzioni la producano, quali soggetti la rendano operativa e come essa si diffonda sul piano culturale fino ad essere naturalizzata” (Pizza, 2012).

La “naturalizzazione” è uno degli aspetti principali della dell'azione performativa che l'ambigua coppia concettuale salute\malattia, e la pratica medica che la sostiene, operano nella concreta vita degli uomini. Più precisamente, si tratta della naturalizzazione delle contraddizioni sociali, politiche ed economiche, che gli uomini incorporano nelle loro esistenze concrete. La definizione della coppia concettuale salute\malattia, eleggendo a proprio terreno di sussistenza quello della vita biologica, costituisce una precisa prestazione politica intesa a oggettivare come “naturale” uno specifico ambito dell'esistenza umana, sottraendolo così al campo della conflittualità economica e dell'antagonismo politico. In un determinato momento storico, tale definizione non è affatto pacifica o inerte. Essa costituisce piuttosto uno specifico terreno di scontro. Ciò che si suole definire il dibattito scientifico oggi offre una rappresentazione sterilizzata e anonima di questo scontro politico: dietro diatribe tra orientamenti tecnici ed epistemologie scientifiche si gioca una partita non dichiarata tra gruppi di tecnici del sapere pratico e centri di potere economico, complessi tecnologico-industriali e apparati statali o sovranazionali. Le reali poste in gioco di questi dibattiti non appaiono mai chiaramente nell'empireo della disciplina medica, intesa a mostrare che la malattia, come stato di interruzione o indebolimento della condizione desiderabile di salute, è identificabile con una “disfunzione”, la quale pone alla prassi umana la sfida costantemente al rialzo della definizione scientifica e della manipolabilità tecnica. Su tale definizione e tale manipolabilità, poi, il dibattito scientifico riporta mode, sofismi, scontri epocali seguiti da inaspettate alleanze, capovolgimenti di fronte e sopravvivenze impreviste di “teorie” e “modelli di cura” che carsicamente si contendono spazi del corpo sociale, cercando di piegare al loro vantaggio le esperienze concrete degli uomini.

Il fatto che, come ha segnalato Habermas, nelle democrazie occidentali lo spazio dell'opinione pubblica sia ridotto allo spazio della competizione tra privati produttori di merci culturali (Habermas, 1962) va assunto per capire come sia impossibile aspettarsi dalla produzione scientifica un “dibattito pubblico” che dia ragione della politicità di questi temi. Risulterà chiaro come specifiche tendenze della configurazione attuale della governance neoliberale concorrano a rendere ancora più opaco il discorso pubblico sui temi dei bisogni collettivi e della loro presa in carico, rendendo sempre più difficile leggere le contraddizioni sociali occultate dietro tale campo di elaborazione scientifica.

Così posta, la questione apre alla tematizzazione dei rapporti di potere che definiscono l'oggettivazione di salute e malattia: come ha argomentato Didier Fassin, le questioni della salute vanno collocate nel campo politico delle forme di presa in carico sociale, in cui il riconoscimento di ciò che è di rilevanza sanitaria è la posta in gioco di una relazione conflittuale in cui vari attori concorrono per definire la salute, in una dialettica di medicalizzazione e politicizzazione che costantemente rimette in questione i rapporti tra sfera pubblica e sfera privata, la legittimità dei “poteri di cura”, i rapporti di soggettivazione e oggettivazione. Attraverso la definizione sanitaria di questioni sociali si producono costantemente effetti di consenso e trattamento specialistico delle contraddizioni sociali che realizzano un “occultamento” del campo conflittuale nel quale si producono (Fassin, 1996). L'analisi delle politiche di salute mentale, dei saperi che le argomentano e delle pratiche che le realizzano, dovrà necessariamente tenere conto di queste dimensioni.

L'approccio di Didier Fassin, sulla scorta delle ricerche foucoultiane sulla biopolitica, considera la dialettica tra naturalizzazione medica e politicizzazione attraverso la salute come terreno di scontro politico, di successivi movimenti di soggettivazione e assoggettamento. Fassin considera che specifiche lotte politiche condotte da movimenti sociali organizzati possano usare il discorso della salute per un riconoscimento di diritti (l'esempio è quello del riconoscimento della silicosi come malattia professionale). Nello specifico della salute mentale, possiamo vedere se questo campo sia praticabile dai movimenti sociali e in che misura esso invece risulti, in quanto campo di “integrazione socio-sanitaria” come già sussunto entro lo spazio della governance neoliberale sotto forma di “tecnicizzazione della questione sociale”.

2. Per la critica della governance

La governance appare come una sterminata produzione di soggetti. Da un lato, osservare le qualità soggettive che popolano la scena delle politiche sociali può illuminare il ruolo istituzionale della salute mentale nella messa in forma di particolari modelli di socialità (Castel, 2013; 1982). Dall'altro, concentrare l'attenzione sulle forme di azione collettiva di queste soggettività significa investire pienamente con le armi della critica gli attuali modelli di governance, per evidenziare potenzialità e limiti dei movimenti.

La governance si afferma come nuova configurazione delle politiche pubbliche, dopo la “crisi di razionalità dell'ordine sociale” prodottasi all'acme del capitalismo fordista (Offe, 1977; Habermas, 1975; Cough, 1979; O'Connor 1977; Dal Lago, 1979). Nella questione sociale, la governance assume la figura del “welfare mix”, un modo di governo della sicurezza della popolazione basato su una nuova configurazione delle gerarchie tra stato e attori provenienti dal mercato, dal terzo settore e dalla società civile.

In pratica si tratta di una disarticolazione del territorio, della disseminazione dei meccanismi di controllo, del procedere parallelo di perdita della titolarità dei diritti sociali e nuova valorizzazione economica della riproduzione sociale. Come ogni assetto istituzionale capitalistico, la governance è un fatto conflittuale: un processo dialettico per cui ogni tentativo di messa in forma del reale produce resti, eccedenze, residui e interstizialità. La disseminazione dei meccanismi di controllo, la disarticolazione del territorio e la valorizzazione della riproduzione sociale sono pienamente integrate in un dispositivo di “crisi permanente”: la prestazioni di sicurezza sociale non sono più legate ad un diritto, esigibile perchè riconosciuto dal settore pubblico, ma alla fluttuazione del capitalismo finanziario e all'impetuoso sviluppo dell'economia dei rischi. A ciò si accompagnano la moltiplicazione dei livelli dell'azione pubblica, l'integrazione tra dinamiche economiche locali e globali, la perdita di centralità degli ambiti di mediazione politica.

All'interno delle dinamiche della governance, la definizione dello spazio della “società civile” si può riconoscere come collettore di queste tendenze. Entro la società civile si producono, mobilitano, catturano soggettività investite dal conflitto sulla governance. Qualunque ipotesi di “movimento sociale” in questo campo ripropone quindi la contraddizione tra “mutamento sociale” e “transizione” (Donolo, 1978)[1].

È opportuno leggere le politiche di salute mentale nell'orizzonte della governance neoliberale per cogliere due fenomeni:

-      un processo di accumulazione (espulsione delle categorie deboli, concentrazione di poteri e capitali, creazione di nuova domanda per nuove merci e nuove forme di valorizzazione che si presentano come “innovazione sociale”)

-      possibili processi di resistenza (nuove soggettività che spiazzano le definizioni categoriali, forme di ricostruzione conflittuale della realtà, ricerca di metodi alternativi di riproduzione sociale[2]).

A questa identificazione deve seguire una precisa collocazione degli oggetti di studio nella geografia politica ed economica dei contesti, per individuare le modalità peculiari in cui interagiscono forme di “innovazione sociale” sempre contraddittorie con la particolare composizione sociale dei territori.

Ad oggi non esiste una letteratura sugli effetti della governance neoliberale in salute mentale. Sappiamo che è in corso un processo di concentrazione di capitali; che sul welfare sono in corso grandi investimenti che rinforzano specifici assi di potere clientelare, attraverso la gestione delle Fondazioni Bancarie o della Cassa Depositi e Prestiti. Si tratta spesso degli stessi grandi attori economici che investono sulle grandi opere inutili. Sicuramente, è questo il terreno centrale della lotta, quello dell'accumulazione dei capitali[3]. Per capire l'esito qualitativo di questi processi calati nei concreti sistemi di welfare qui è utile richiamare alcune acquisizioni della letteratura sociologica sulla governance del welfare in generale, per vedere poi come queste tendenze si riproducano nel settore più specifico della psichiatria.

a) sussidiarietà e partecipazione

I temi della sussidiarietà e della partecipazione sembrano compensare nelle elaborazioni attuali il richiamo all'efficienza e alla riduzione delle spese introducendo elementi di solidarismo, coesione sociale, empowerment di gruppi emarginati e legittimazione democratica. Tuttavia la presenza di questi temi non può essere sbrigativamente letta come sufficiente contrappeso alle spinte neoliberali. Una proficua ipotesi di ricerca identifica oggi il richiamo ai temi della relazionalità e della cooperazione sociale come una penetrazione performativa di logiche di valorizzazione capitalistica (Minelli, 2012). Secondo queste ipotesi la valorizzazione del capitale sociale come alternativa locale alla crisi di politiche redistributive va inscritta in una lunga manovra di reificazione e alienazione della produzione sociale, la quale si svolge lungo i due filoni delle pratiche di governance e delle pratiche sociali dei ricercatori, introducendo concetti e definizioni che hanno il doppio esito performativo di rappresentare una realtà sociale senza conflitti e di indirizzare la lettura dei bisogni sociosanitari. Sullo sfondo di queste analisi ci sono le ricerche di tipo etnografico sulle pratiche sociali che si accompagnano ai processi di innovazione. Come ha evidenziato Harzfeld (Harzfeld, 2009) nel suo studio sui processi di gentrificazione dei quartieri romani, le retoriche e le programmazioni politiche facenti leva sulla sussidiarietà si accompagnano a fenomeni di segmentazione della qualità dell'ambiente e processi espulsivi di displacement. Parallelamente va considerata la tendenza delle politiche della sussidiarietà a mettere al lavoro la morale nelle pratiche neoliberali. Come ha mostrato Andrea Muhehelebach (Muhehelebach, 2012) la moralizzazione delle relazioni è uno strumento indispensabile delle trasformazioni capitalistiche nella misura in cui lo stato mobilita il volontarismo sociale nella destrutturazione dei programmi di assistenza. Allo stesso tempo, l'analisi delle narrative anticapitaliste nel lavoro sociale viene mostrata in quest'ottica come promotrice di sviluppi inattesi.

b) produzione di soggettività spoliticizzate

Un altro proficuo filone di ricerca riguarda le modalità con cui i principi della governance hanno operato una subordinazione progressiva della riproduzione sociale alle norme della concorrenza (Laval, Dardot, 2013). La governance appare qui come una particolare forma di “governo spoliticizzato”, che rende impossibile ogni arena pubblica di discussione in quanto realizza la propria mission includente nella misura in cui preventivamente mette in atto pratiche di depoliticizzazione dei conflitti (Harcourt, Brown). Ricerche di matrice biopolitica (Foucault, 2005) o che fanno uso del concetto di habitus (Bourdieu, 1995) considerano le pratiche e le teorie della governance come parte attiva in un processo di “produzione di soggettività” funzionali agli interessi del neoliberismo. Il neoliberismo appare come una razionalità sotterranea e onnipervasiva che invade la globalità, nelle dimensioni politiche, economiche, interpersonali, producendo relazioni sociali, forme di vita e soggettività adeguate (Boltanski, Chiapello, 2005; Laval, Dardot, 2013).

c) controllo sociale

Un ampio filone di studi può suffragare la tesi di un crescente peso delle domande di controllo sociale sulla progettazione delle politiche pubbliche e sulle pratiche che le sostanziano. La questione del controllo sociale sembra oggi aver superato la dimensione “disciplinare” per pervenire ad una nuova dimensione definita di controllo sociale automatico (Melossi 2008), fondato sulla incapacitazione preventiva, sulla neutralizzazione e il non-riconoscimento della possibilità di agire al di fuori degli schemi definiti. Il controllo sociale diffuso (Deleuze, 2010) corrisponde ad una forma di “democrazia custodiale” nella quale il riconoscimento dello statuto giuridico vige ma in uno stato di “sospensione”, sottilmente legato al permanente “stato d'eccezione” (Agamben, 2005). Le politiche della sicurezza, facendo leva su una specifica definizione dell'insicurezza che ne tralascia le dimensioni sociali, (Castel, 2007) riproducono in un circolo vizioso tale stato di eccezione. Il “fuori” rispetto al controllo è invaso da uno scarto di popolazione da cui “ci si può solo difendere” (Foucault, 1995). Un dibattito oggi molto sviluppato sui temi del neo paternalismo nelle politiche pubbliche tende a leggere anche le pratiche della presa in carico sociale[4]. Questo tema ha particolare rilevanza nel campo della salute mentale, vista la forte presenza di pratiche coercitive nei servizi di Salute Mentale, negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e nelle carceri. In termini più generali, Robert Castel (Castel, 2007) ha messo in evidenza come l'ultima metamorfosi della questione sociale riguardi proprio lo status da attribuire ai sovrannumerari, strutturalmente espulsi dalle condizioni dell'inclusione, ma chiamati ad aderire alle politiche di assistenza in modo sempre impossibile, fino a giustificare una sorta di “doppio vincolo” che porta a scaricare sul soggetto che si trova in una condizione di disaffiliazione la gran parte della responsabilità per la sua condizione. A fronte dei “poveri abili al lavoro” si sviluppa invece l'handicappologia degli inabili, a cui non spetta una piena inclusione nella cittadinanza ma il destino di un paternalismo caritatevole e fortemente assoggettante. L'impostazione contrattuale delle politiche sociali, che per certi aspetti sembra assecondare i principi dell'individualizzazione delle prestazione e la maggiore corrispondenza alle preferenze individuali, se sottoposta all'analisi del “potere contrattuale” degli utenti, (Monteleone, 2007) rivela che in molti casi per l'utenza diminuisce sensibilmente la possibilità di scelta.

d) discorsi ambigui, opacità

Sulla saturazione di concetti ambigui nel welfare mix, specificatamente nei richiami sulla solidarietà, l'attivazione e la partecipazione, ha insistito Ota De Leonardis (De Leonardis, 1998). Tale prolificazione di concetti ambigui emergenti con il superamento dello “stato sociale” a vantaggio delle nuove forme istituzionali del welfare mix è particolarmente evidente nei nuovi frame in cui si colloca la relazione tra servizi e cittadinanza. Rispetto al lessico dei diritti sociali, della redistribuzione e dell'uguaglianza, nuove categorie come l'efficienza, la responsabilità e la sostenibilità hanno orientato la ristrutturazione delle politiche pubbliche. In questo nuovo “ordine del discorso”, scompare la questione della giustizia sociale. Al suo posto si produce una rappresentazione della socialità di matrice “privatistica” ma con forti venature di “comunitarismo a-conflittuale”, in virtù del quale il valore della “coesione sociale” finisce per assumere il significato univoco di “consenso”, “controllo sociale”, “assenza di conflitti”. Il tema delle politiche redistributive, non solo in termini di salari quanto in termini di servizi, che era stato a fondamento del welfare nel secondo dopoguerra viene così derubricato dal dibattito pubblico, così come la relativa questione della “proprietà pubblica” che era parte integrante dei diritti di cittadinanza (Castel, 2007).

e) divaricazione tra residualismo e innovazione sociale

Le politiche pubbliche, al di là della retorica sulla solidarietà, sulla sussidiarietà e sulla partecipazione, si strutturano come politiche residualiste. In questo approccio, i destinatari dei servizi pubblici assumono un ruolo passivo, la crescente aziendalizzazione dei servizi e del management sanitario, del tutto incapace di concettualizzare logiche di processo e “fattori di conversione” (Sen, 1982) dai diritti alle capacità, eroga prestazioni riproducendo la logica istituzionale che riconsegna gli utenti ad un “infinito intrattenimento” (Saraceno, 1995). Quando l'infinito intrattenimento non basta, il welfare residualista mostra il volto più escludente, securitario e repressivo (Dell'Aquila, Esposito, 2014; Waquant, 2007). I servizi del welfare mix si ricompongono attorno a un tessuto organizzativo intriso di tendenze alla oligarchizzazione a tutti i livelli, dal management alla relazione singola con l'utente.

La particolare formula del “contracting out”, fondata sullo strumento legislativo di appalti e convenzioni, alla base di un sistema in cui privati, cooperative sociali, associazioni di volontariato, enti profit e no profit competono per stipulare contratti con la pubblica amministrazione, espone il sistema a forti elementi critici: il controllo da parte dei destinatari su servizi e beni che ricevono è molto limitato, la domanda è predefinita dall'offerta dei servizi su cui è più vantaggioso investire. Questo sistema provoca una sistematica scrematura di “casi difficili” dai servizi più avanzati, cioè degli utenti con problematicità relazionali o di complessa integrazione socio-sanitaria, difficilmente trattabili come “prodotti individuali” (Fazzi, Gori, 2004; Bifulco, Vitale, 2005). In altri termini, ci troviamo in una condizione in cui blocchi di potere economico-politico, attraverso meccanismi di partecipazione clientelare – populistica o corporativa, strutturano l'intero servizio attorno a risposte preformate che presuppongono solo “buoni clienti”. Qui funziona l'innovazione sociale, una forma di investimento capitalista che scarica, con la connivenza della legislazione e dell'azione giudiziaria, su una serie di altre istituzioni (carceri, strutture protette, Ospedali Psichiatrici Giudiziari) i clienti indesiderati, destinati così ad un altro circuito di etichettamenti diagnostici e prese in carico coercitive[5].

f) socialità individualizzata

Queste osservazioni richiamano la necessità di tenere in seria considerazione gli approcci critico-genealogici alla questione del “sociale” che sono stati sviluppati osservando le forme di governamentalità (Ewald, 1986). Le dimensioni governamentali che assume la “questione sociale” possono essere analizzate secondo la prospettiva della individualizzazione e delle tecnologie del sé. La presa in carico “tecnica” della questione sociale non fa riferimento a una posizione negoziale ma è direttamente associata con una prestazione tecnica che riproduce l'istituzione delegata a soddisfare un determinato bisogno. L'organizzazione razionale della soddisfazione di bisogni inerti, oggettivati, è il riflesso di quella dinamica più generale per cui il diritto è il riconoscimento di una “inclusione escludente” (Castel, 2007). Il diritto infatti non è rappresentazione di una esigibilità collettiva, determinata da rapporti di forza sociali, ma una apposizione individualizzata, parcellizzata e desocializzata ad un individuo che altro non è che un consumatore asociale e apolitico (Donzelot, 1994). Le tendenze alla individualizzazione della questione sociale, della redistribuzione dei rischi e dei costi della crescita viene dunque analizzata nelle sue configurazioni governamentali anche attraverso i vari gradi dell'offerta sociale rivolta alla normalità (Castel, 1982; Vrancken, Macquet, 2006; Ierna, 2013). Le pratiche e l'impostazione teorica delle forme di presa in carico rivelano una pervasività degli strumenti tecnici individualizzanti, come le svariate forme di “psicologizzazione”. “Il lavoro sulla normalità, che è il terreno comune a queste tecniche, sta ormai prendendo la forma di una cultura specifica: al suo centro, una nozione della normalità come “sintomo” delle costrizioni, della disciplina, delle forzature che la socialità impone alla spontaneità del soggetto, ostacolandone il pieno sviluppo; di conseguenza un sospetto sulla socialità, e la proposizione di un ideale del Sé la cui realizzazione è un compito senza fine, e che richiede il sistematico impiego di tecniche psicologiche. Ma al suo centro anche, inevitabilmente intrecciata, una nuova forma di socialità che il lavoro psicologico stesso inventa, con una sopravvalutazione della relazione interpersonale quale momento costitutivo di questo lavoro per sviluppare il proprio potenziale: una cultura dunque, della relazione, oltre che una cultura del Sé” (Procacci, 1982).

3. Tendenze dei servizi di salute mentale

È ora possibile gettare uno sguardo sulla situazione delle politiche di salute mentale in Italia. Alcune analisi hanno denunciato un processo di cambiamento solo formale e nominalistico delle forme di internamento manicomiale (de Girolamo, Cozza, 2000); sul territorio nazionale permane una estrema frammentazione di pratiche, strutture organizzative, forme ed entità dei finanziamenti (Burti, Mosher, 2001); l'impostazione dei servizi dopo la riforma psichiatrica ha dato luogo una dinamica complessa di “modificazione reciproca della domanda e dell'offerta dei servizi” (Micheli, 1986) che ha creato una segmentazione interna rispetto alle modalità di trattamento per diversi gruppi sociali; il sistema di cura territoriale non sembra realizzare gli obiettivi dichiarati dal punto di vista del reinserimento sociale e della dimensione comunitaria della cura (Sharp, 2004). Un elemento di criticità ampiamente indagato dalla letteratura riguarda la debolezza della elaborazione scientifica sulle prassi degli operatori psichiatrici. Tale debolezza riguarda una vasta gamma di ambiti: si registra una forte arretratezza e differenziazione di approcci riabilitativi e terapeutici (Pocobello, 2011), una scarsa presenza di ricerca epidemiologica orientata a mettere in luce le relazioni tra determinanti di salute e strutture organizzative dei servizi (Tansella, 2012), una tendenziale subordinazione dei programmi terapeutici alla dimensione farmacologica, spesso in maniera disattenta alle dimensioni soggettive dell'esperienza dell'utente (Tibaldi, 2013). A fronte di questo contesto così tratteggiato, la cultura dei servizi di salute mentale sembra globalmente impreparata ad affrontare le sfide poste dai nuovi bisogni dell'utenza (Carli, Paniccia, 2011) e rischia di riprodurre una forma di “inclusione” gravemente deficitaria, che lungi da realizzare l'acquisizione della piena cittadinanza, si traduce in una forma di “intrattenimento” dell'utenza (Saraceno, 1995). I contributi della letteratura orientati a delineare uno “stato dell'arte” dei servizi di salute mentale in Italia sono unanimi nel denunciare le gravi lacune che questa situazione presenta sul piano dell'equità. La Commissione di Inchiesta Parlamentare sul Sistema Sanitario Nazionale ha recentemente rilevato che esistono zone in cui le linee guida della legge 180\1978, e dei vari Progetti Obiettivo Salute Mentale sono stati “disattese”, producendo “lacune, anche gravi, nella rete globale dell’assistenza sanitaria, fino a situazioni di franco degrado”. La tendenza verso forme di neoistituzionalizzazione è stata individuata in molteplici ricerche. Particolarmente significativa è quella di Fioritti e Priebe, secondo cui la reistituzionalizzazione sembra essere un rischio connesso alle strutture sociali e al loro cambiamento nel senso di una generale tendenza al contenimento, piuttosto che un fenomeno legato a cambiamenti nella morbilità[6].

A fronte di queste evidenze, si sviluppano altri fenomeni di segno opposto. Parallelamente all'affermazione di politiche pubbliche sempre più caratterizzate dai richiami al coinvolgimento, all'inclusione sociale, alla sussidiarietà orizzontale e all'approccio comunitario, nei servizi di salute mentale italiani si vanno profilando negli ultimi anni esperienze di associazionismo, partecipazione e movimentismo diffuso fortemente caratterizzate da una presenza attiva degli utenti[7]. Tali esperienze si rapportano con un movimentismo diffuso a livello europeo, che ha prodotto anche termini, concetti, pratiche, gradualmente acquisiti e reinterpretati dalla produzione scientifica mainstream della psichiatria (Barnes, Bowl, 2003). Un segno di questa metamorfosi della relazione tra tecnici, amministratori, operatori e utenti dei servizi è dato dall'orientamento specifico che negli ultimi anni hanno assunto le politiche di salute mentale comunitaria, sempre più attente a ricollocare la tutela e la promozione della salute mentale secondo linee guida orientate alla promozione dell'autonomia e della soggettività degli utenti, al contrasto dell'esclusione sociale, a trattamenti rivolti al reinserimento e al recovery (Ferrannini, 2007; Comprehensive mental health action plan 2013–2020). Inoltre, la tendenziale trasformazione del ruolo degli utenti dei servizi di salute mentale è fenomeno emergente in vari filoni di indagine scientifica in campo psichiatrico, psicologico e sociologico, oltre a una crescita esponenziale di una letteratura “non professionale” sull'argomento, costituita da produzioni a carattere esperienziale e narrativo (Deegan, 1996; Coleman, 2001; Contini, 2013; Cervesato, 2012). Temi come “empowerment”, “partecipazione”, “capitale sociale” sono sempre più spesso indicati come variabili di salute mentale nei documenti di programmazione a vari livelli di governance (Van Westerhout, Cavagnini, 2009; Rossi, 2008)[8]; tuttavia l'epidemiologia sociale mantiene un pesante ritardo nell'indagare il legame tra questi determinanti di salute e la formulazione più appropriata della contrattualità sociale della cittadinanza nelle prestazioni di integrazione sociosanitaria.

Come è stato già segnalato[9] il Comprehensive Metal Health Action Plan 2013 – 2020 è un utile esempio del tipo di “tecnicizzazione della questione sociale” che si produce attraverso il discorso della salute mentale. La questione sociale vi appare solo come ambito di gestione tecnica, di mobilitazione di risorse e investimento sul capitale sociale. La questione sociale non è più determinante di salute in quanto componente della dignità di vita, ma diviene ambito di investimento di attori (governativi e della società civile) che devono investire sulla salute mentale come variabile per produrre coesione sociale e capitale umano[10]. Le esperienze di movimentismo che si agitano nella società civile svolgono la loro prassi in posizioni contraddittorie: vettori di investimento capitalista, stritolate negli assetti della governance consensuale dalla loro posizione di minorità, oppure spinti verso lotte in cui risulta difficile pervenire a un terreno di programmazione politica[11].

Non sono scevre da contraddizioni le nuove forme di rappresentanza degli interessi degli stakeholders che si affermano a livello di governance sia locale sia europea: i movimenti degli users, o clients, anche riprendendo posizioni radicali di autodeterminazione, finiscono per sposare impostazioni liberali che convergono con lo smantellamento del servizio pubblico in nome dei diritti civili[12].

4. L'etnografo, la politica e i movimenti

Se nella psichiatria risulta originaria quella commistione tra cura e controllo sociale (Basaglia, 1980) che ne fa un'istituzione strutturalmente residuale, si possono con maggiore chiarezza leggere in essa le caratteristiche di paternalismo, residualismo e ossessione securitaria che caratterizzano la china delle attuali politiche pubbliche nel campo del welfare mix neoliberale. Di conseguenza, l'etnografo deve saper guardare ai soggetti che si muovono in questo complicato campo di governance come attori politici, rispetto ai quali misurare la distanza sul percorso di una politicizzazione complessiva e di una ricomposizione delle lotte, ma anche come soggetti “messi in forma” dal potere. La generalizzazione dell'azione politica di questi soggetti all'insieme delle questioni sociali che sono in relazione con l'ambito della salute mentale si pone nel solco delle acquisizioni del movimento anti-istituzionale e può rivitalizzarne e riportarne a verifica concreta il lascito[13]. Si tratta di contrastare fenomeni complessi e sfaccettati, in cui sembrano coesistere, a volte nello stesso progetto, fenomeni di espulsione e fenomeni di valorizzazione.

Si tratta inoltre di definire strategie, alleanze e temporanei fronti di lotta con attori specifici di quel “mercato delle produzioni culturali” che si scontrano sul terreno delle teorie psichiatriche, entrando nel merito delle forme istituzionali di presa in carico, di etichettamento diagnostico, di competizione tra i gruppi di potere insistenti sulla governance (consorzi di cooperative, associazioni, industria farmaceutica, ospedalità privata, servizi sociali dei comuni, organizzazioni degli operatori sociali, ecc). Come ricorda infatti Richard Warner, “sia la nozione di trattamento che quella stessa di psicosi sembrano essere state influenzate da fattori economici e politici. L'ideologia e la pratica della psichiatria sono dipendenti, in misura significativa, dalle condizioni materiali”. (Warner, 1986)

La ricerca di “produzioni politiche dal basso” è dunque un tentativo di entrare nella definizione della politicità dei casi studio, immerso nei quali il ricercatore si confronta dialetticamente con le strategie (inventive, difensive) di attori sottoposti alla contraddizione tra tendenze divergenti. Nello specifico, come afferma Lanzara (Lanzara, 1997) gli attori stabiliscono programmi per l'azione sulla base di ricostruzioni incomplete e discontinue, aprendo spazi di sperimentazione pratica e teorica. Inevitabilmente, la lettura politica della propria condizione si fa “in situazione”: il ricercatore, orientato a un obiettivo politico di ricomposizione, deve confrontarsi con programmi politici frammentari o espressi in linguaggi “altri”, sottoposti alla pressione della pratica quotidiana. Il ricercatore non può che riconoscersi uno specifico ruolo politico, senza tralasciare nell'indagine come esso configuri specifici assetti istituzionali. Lo specifico sapere dello scienziato, infatti, rimanda al ruolo di potere e alla configurazione della sua disciplina come “istituzione”. L'obiettivo della ricomposizione impone un lavoro di sponda continua tra inchiesta e conricerca[14], in un rapporto dialettico con il movimento studiato, nel quale la ricerca sia anche elaborazione collettiva di progetti e verifica pratica di ipotesi, momento di messa in discussione anche personale per il ricercatore, abituato a vivere nel solco tra lavoro intellettuale e lavoro manuale tipico della divisione del lavoro nella società capitalista (Sohn Rethel, 1977).

L'apertura di spazi di “interlocuzione” rappresenta uno degli elementi fondamentali di questa dinamica di interrogazione sulle pratiche del welfare. Parliamo in fatti di un settore strategico nelle nuove forme di investimento capitalista: saldare le lotte che in esso si svolgono con le lotte dei lavoratori, con le organizzazioni della società civile e con i movimenti significa, inevitabilmente, ricreare un orizzonte di politica di classe chiaramente orientato al superamento del sistema capitalistico.

 

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[1] Citato da Federico Stame in “Movimenti e istituzioni nella crisi”: Se il mutamento, per usare le sue parole (di Donolo) “è un'evoluzione adattiva del sistema socioeconomico a nuovi livelli di sviluppo, a nuove tendenze nella divisione internazionale del lavoro... a nuove domande sociali, a nuovi rapporti di potere tra le classi e le forze politiche che li esprimono” sì che si può concludere che “il mutamento è l'aspetto sociale e istituzionale dell'accumulazione capitalistica”, mentre al contrario “la transizione è l'inizio di una fase (la cui durata ovviamente non è prevedibile, ma certo molto lunga) che porta fuori dalla formazione sociale capitalistica.”

[2] Varie organizzazioni attive nel campo della salute mentale stanno percorrendo questa strada. Un esempio è costituito dall'Associazione Insieme a Noi di Modena, che ha recentemente ottenuto l'utilizzo di uno spazio di proprietà della AUSL per svolgere, tra le altre cose, un'attività di orticoltura. In parte nello stesso orientamento, anche se con un programma differente, si pone la recente occupazione di uno stabile di proprietà dell'AUSL 2 di Torino da parte del Torino Mad Pride.

[3] Un preciso inquadramento di questi temi è venuto dall'incontro di Commonware “Trasformazione e mercatizzazione dei servizi collettivi: i casi del lavoro sociale e delle public utilities” tenutosi a Torino l'11 giugno 2014 all'interno del ciclo di dibattiti “La questione urbana nella crisi neoliberale”, con relatori Anna Tavella, Sandro Busso, Luca Martinelli. Gli interventi sono disponibili su InfoAut http://www.infoaut.org/index.php/blog/seminari/item/11899-la-questione-urbana-nella-crisi-neoliberale-audio-degli-interventi. Sullo stesso versante sta lavorando il cantiere di socioanalisi narrativa sul lavoro sociale che si svolge a Milano presso lo spazio “Piano terra” con la collaborazione di Renato Curcio e la Cooperativa “Sensibili alle foglie”. Una sempre maggiore attenzione su questi temi inoltre si sta affermando anche nella “Rete nazionale degli operatori sociali.” Tra i movimenti che si interessano alle questioni della salute menatale, un recente interesse su questi temi e nello specifico sulla loro declinazione siciliana, è venuto da Giuseppe Bucalo, tra i fondatori del rifugio sociale legato all'associazione Penelope.

[4] “Gli strumenti adottati per attuare politiche indirizzate a soggetti o gruppi con immagine negativa sono generalmente più coercitivi ed autoritari di quelli rivolti ai gruppi ritenuti meritori, per i quali si adottano interventi che promuovono la capacità di autogestione, quali l'informazione e l'apprendimento, in quanto viene loro implicitamente riconosciuta una maggiore capacità di scelta autonoma. Gruppi costituiti negativamente, o percepiti come particolarmente vulnerabili o fragili (come anziani o bambini) sono costruiti nelle politiche pubbliche come se abbisognassero non solo di nuove opportunità, ma anche di un certo grado di supervisione esterna o di costrizione rispetto alle scelte personali di ciascuno.” (Taroni, 2006) In generale sul ruolo della definizione dei destinatari nell'orientamento “repressivo” delle politiche pubbliche sono fondamentali gli studi di Tommaso Vitale e Gabriele Roccheggiani.

[5] Non si fa qui che confermare quanto osservava Basaglia, pure se in un diverso assetto istituzionale: “Per la classe dominante è possibile sottrarsi alle istituzioni repressivo-punitive da lei create a difesa della norma da lei stessa definita, non perché fra i suoi membri non ci siano malati, pazzi o delinquenti, ma perché il loro essere malati, pazzi, delinquenti può mantenersi inserito nel ciclo produttivo (grazie al potere economico di cui dispongono). È solo chi non ha un potere contrattuale da opporre che cade nel vortice delle istituzioni. Infatti il manicomio è l’ospedale per i matti poveri, il carcere è l’istituzione punitiva dei carcerati poveri, così come le case di correzione, gli istituti per minorenni, … e tutte le organizzazioni assistenziali sono popolate di poveri”. (Basaglia. Scritti, vol. 1, p. 50).

[6] Come ammettono gli autori, guardando al numero di ricoveri coatti, degenze prolungate in posti letto ospedalieri e forme di “cronicizzazione istituzionale” nei paesi occidentali è in corso un processo di reistituzionalizzazione che non è legato a significativi cambiamenti nelle diagnosi ma piuttosto alla scarsa accessibilità a posizioni sociali di “inclusione” sull'asse casa-lavoro. Gli autori inoltre concludono che il corpo professionale della psichiatria, in momenti di insicurezza e instabilità, torna ad essere investito di aspettative di controllo e di domande securitarie (Fioritti, Priebe et al 2007).

[7] Conny Russo mi ha fatto notare quanto queste dinamiche richiamino da vicino la retorica “partecipazionista” sviluppatasi nei progetti di cooperazione internazionale negli anni '80. Luca Lavino sta ricercando su questi temi attraverso l'osservazione etnografica delle assemblee nei servizi di salute mentale.

[8] Le evidenze mostrano che i percorsi partecipativi non sono garanzia di una redistribuzione di poteri. Anzi, in alcuni casi la partecipazione approfondisce la distanza di risorse tra chi partecipa e favorisce redistribuzioni di tipo “personalistico” e arbitrario. Inoltre, nei percorsi partecipativi che “vanno di moda” oggi nelle pubbliche amministrazioni viene oscurato il tema delle forme di rappresentanza: quando si parla di “terzo settore”, per esempio, vi rientrano indistintamente una miriade di soggetti, dalle piccole associazioni di utenti che difendono i propri diritti ai grandi consorzi di cooperative che erogano servizi abbattendo i prezzi relativi al costo del lavoro. Non possiamo immaginare che soggetti tanto diversi abbiano interessi comuni e la stessa “quantità di potere”, quindi fatichiamo a pensare che possano essere riuniti sotto un’unica identità. Si veda a proposito, tra gli altri, Moini, 2012.

[9] Devo in particolare questa riflessione, come gran parte del mio lavoro di ricerca, al confronto con Riccardo Ierna.

[10] Meriterebbe un capitolo a parte una riflessione critica sul ruolo della “lotta allo stigma” nel globale processo di investimento sociale sui temi della salute mentale. La crescente tendenza alla medicalizzazione di aree sempre maggiori di disagio e fragilità rischia di svuotare del suo originario contenuto inclusivo il concetto di lotta allo stigma, facendone uno strumento di penetrazione sempre più pervasiva della “ragione diagnostica”. La diffusione delle diagnosi, più che concorrere all'inclusione sociale di chi soffre di disagio psichico, produce una lettura naturalizzante e totalmente spoliticizzata delle contraddizioni sociali che stanno alla base del malessere, oltre ad essere funzionale alla creazione di nuovi target per il mercato capitalista della cura del benessere. Su questi temi è particolarmente attiva la riflessione del Comitato di Lotta per la Salute Mentale di Napoli, di cui si consiglia l'ascolto dell'intervista a Marcello Piantadosi pubblicata qui http://radiofuorionda.com/?p=3879

[11] Si tratta dunque di sottoporre a critica quali pratiche e discorsi si svolgono oggi nel welfare: sempre maggiore investimento capitalista nel mercato del benessere personale, crescente individualizzazione dei rischi sociali e delle forme di presa in carico, egemonizzazione della questione dell'insicurezza sociale da parte di discorsi securitari e repressivi, “tecnicizzazione” delle risposte, nuovi modelli di governance che sottraggono l'operato dei servizi alla presa di parola pubblica e occultano sempre di più il legame originario tra “risposta ai bisogni” e questione della giustizia sociale – contraddizione dei nuovi modelli di “governo”: enfasi sempre maggiore sulle politiche di attivazione che si rivela spesso come un nuovo e più sottile dispositivo di esclusione; l'assegnazione della propria “parte” di diritto alla salute è vincolato alla acquisizione di ruoli di minorità sociale e politica. Si veda per un confronto: van Berkel, R. Borghi, V. 2007, Review Article: The Governance of Activation, Social Policy & Society, 7.

[12] Raffaella Pocobello ha di recente avviato una riflessione sul cosiddetto “user's pride” nei servizi di salute mentale. Questa riflessione, che si pone all'interno di un importante lavoro sulla valutazione dei servizi, apre molti interessanti interrogativi. Alla luce di alcune esperienze, si può dire che spinte all'empowerment da parte di gruppi organizzati di utenti e familiari producano tensioni che i servizi pubblici recepiscono spostando gradualmente la loro programmazione verso modelli di “presa in carico” orientati alla “recovery” (si prenda l'esempio delle Recovery House di Ravenna o del Social Point di Modena). Tuttavia resta urgente la domanda sui meccanismi di selezione di questa utenza, sulla generalizzabilità di questi programmi e la possibilità di contrastare attraverso di essi la divaricazione interna alla presa in carico sociale, tra “empowerment” e “istituzionalizzazione”.

[13] Sul rapporto tra movimenti anti-istituzionali, fase “istituzionale” della deistituzionalizzazione e movimenti politici in generale è fondamentale la testimonianza di Lucio Magri. Oggi un contributo fondamentale alla ricostruzione di questo lavoro di militanza teorica, pratica e politica è nelle riflessioni di Riccardo Ierna. La ricostruzione del legame tra pratica, teoria e politica anti-istituzionale impedisce la deriva sociologistica e le spiegazioni riduzionistiche del disagio: le posizioni a-dialettiche del tipo: “il malessere soggettivo non esiste, è solo una questione sociale” sono semplicistiche e perniciose. Il livello della sfida a cui qui si allude è necessariamente molto più profondo.

[14] Sulla dialettica continua tra inchiesta e conricerca sono fondamentali i contributi di Raniero Panzieri e Vittorio Rieser. Un frammento del loro dialogo è raccolto oggi in “Raniero Panzieri. Uomo di frontiera” a cura di Paolo Ferrero. Un importante contributo attuale alla riflessione su questi temi viene da “A sarà dura. Storie di vite e di militanza no tav” a cura del Centro Sociale Askatasuna.