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Enrico Berlinguer, un maestro di cui occorre fare a meno

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di FRANCO PIPERNO

A trent’anni dalla morte, non mancano le commemorazioni dell’ultimo segretario generale del Partito Comunista Italiano – il partito fondato dagli “operaisti torinesi” guidati da Antonio Gramsci e dai militanti napoletani raccolti attorno ad Amedeo Bordiga.

Il maggiore officiante di questo rito celebrativo è, manco a dirlo, Walter Veltroni – il dissociato per antonomasia, l’unico dirigente del PCI che abbia pubblicamente confessato non solo di non essere comunista ma di non esserlo mai stato, neanche quando partecipava agli organismi dirigenti di quel partito. Il nostro Walter, già impegnato a tradurre in volgare il pensiero di Clinton, si è fatto, per l’occasione, regista,sceneggiatore e produttore di un lungometraggio sulla vita di Berlinguer; nei media poi il film è divenuto una sorta di biografia ufficiale – particolare che la dice lunga sulla confusione che avvolge l’eredità etico politica berlingueriana.

Soleva dire Giancarlo Pajetta, con una battuta folgorante, che “Enrico si iscrisse fin da piccolo alla direzione del PCI”. In effetti, il politico sardo era cresciuto più dentro l’apparato che nel grembo della lotta di classe. Aveva aderito giovanissimo al partito scegliendo per sé, forse, il destino di rivoluzionario di professione; certo, la prassi politica lo aveva ridimensionato, facendo di lui un funzionario di partito.
Va da sé che siamo in presenza di una personalità singolare, un comunista moralmente integro. E tuttavia la ragione per la quale i libri di storia lo ricorderanno non sarà l’onestà e ancor meno l’opera da intellettuale comunista; ben al contrario, Berlinguer è destinato alla storia italiana per aver dato il colpo di grazia all’anima rivoluzionaria del PCI; e quindi, da lì a poco, anche al corpo del PCI, per intero. A ben vedere, Berlinguer, nel suo piccolo, ha assolto un compito analogo a quello, ben più tragico, di Gorbaciov: questo è divenuto il simbolo della dissoluzione autoritaria dell’Unione Sovietica; quello della liquidazione burocratica della prassi sovversiva dei comunisti italiani.

Per farla breve, le cose sono andate più o meno così: una volta registrato, per altro con colpevole ritardo, il fallimento del socialismo di stato,del regime economico-sociale vigente nell’Unione Sovietica, il gruppo dirigente del PCI ha abiurato ogni idea di trasformazione sociale radicale, ha accettato, come orizzonte obbligato del suo agire, l’economia capitalistica ed il sistema della rappresentanza parlamentare. Privati della ragione per la quale erano nati – di quella fede nella rivoluzione che aveva penetrato il senso comune del nostro paese – i comunisti italiani si ritrovavano nudi, privi della loro determinazione, membri di un partito come gli altri, insomma normalizzati, riassorbiti nel ceto politico.

In questo scenario si configura e ha successo la proposta di Berlinguer per sfuggire alla omologazione: regredire dalla politica alla morale,sollevare la questione morale, traghettare il partito dalla lotta di classe alla lotta senza fine al crimine e alla corruzione.

Il presupposto, in verità mal fondato, di questa strategia riposava su una presunta differenza antropologica dei politici comunisti, un loro essere geneticamente immuni da ogni corruzione.
Questa strategia ha portato il PCI a promuovere la legislazione liberticida per distruggere le insorgenze degli studenti e degli operai negli anni settanta del secolo scorso; e ha finito col consegnare il partito ai giustizieri delle procure, cosa mai avvenuta sotto il cielo.

Allo stesso tempo, circostanza non meno grave, la strategia berlingueriana ha promosso la menzogna per omissione e la pubblica ipocrisia nella vita morale e civile del nostro paese: Berlinguer pronunciava le sue catilinarie contro il finanziamento degli altri partiti ma rimuoveva le ingenti risorse che i tanti “compagni Gregante” procuravano al suo partito.

Le reliquie ideologiche del berlinguerismo giacciono ora disponibili alla bisogna del ceto politico: tutti, o quasi, si affannano a farne propria qualcuna, perfino Casaleggio l’oscuro. Il compromesso storico si chiama ora larghe intese e l’eterna questione morale continua ad alimentare la retorica politica. Tutto è come prima, solo un po’ peggio.

Quel che nei trent’anni trascorsi dalla morte di Berlinguer è cresciuto in forma smodata, come un cancro delle coscienze, è l’ipocrisia, il male estremo della repubblica italiana. Male al quale, messe a parte le buone intenzioni, grandemente ha contribuito l’agire politico di Enrico Berlinguer.