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Mercatizzazione dei servizi collettivi

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Nota introduttiva al secondo incontro del ciclo seminariale “La questione urbana nella crisi neoliberale” (Torino, 27 maggio 2014)

Nel secondo incontro, la riflessione sulle forme di accumulazione e le modalità di governance nella città neo liberale sarà focalizzata sulle trasformazioni e la mercatizzazione dei servizi collettivi, con attenzione particolare ai casi del lavoro sociale e delle public utilities.

Il riferimento principale sarà la città europea, per il ruolo che il welfare (o meglio i differenti modelli di welfare) hanno avuto nel disegnare lo spazio urbano in maniera peculiare rispetto alla città americana o dei paesi emergenti, pur nella consapevolezza delle aporie della realtà europea e dell'interdipendenza globale tra i sistemi urbani, che rende di fatto impossibile isolare la scala locale se non in funzione meramente euristica.

Partendo da alcuni nodi problematici messi in luce nel corso dell'incontro introduttivo – nuove forme di accumulazione e combinazioni inedite tra finanza, rendita urbana e produzione di beni e servizi; spazialità urbana fratturata e compresenza di economie gerarchizzate; concorrenza e interdipendenza tra poli urbani, accompagnati da politiche (e retoriche) volte ad “attirare investimenti”, che producono trasferimenti di sovranità dal pubblico al privato – ci si interroga sulle specifiche forme e gli effetti che tali processi producono nel contesto della creazione e fruizione dei beni comuni, nonché sull'analisi degli attori in campo in questa dinamica.

Le pratiche di imprenditorializzazione dell'attore pubblico hanno messo sotto torsione il ruolo sociale dell'ente locale, sino a cambiarne radicalmente il profilo: da regolatore ed erogatore di servizi per la collettività a facilitatore dell’espansione dei capitali finanziari e del controllo sociale delle comunità.

In questo contesto si danno processi di aziendalizzazione dei servizi e di mercatizzazione del lavoro sociale dove, più che una vera privatizzazione (presente in parte in ambito sanitario), si assiste alla nascita di forme ibride e mutevoli di welfare mix dal profilo incerto.Senza nessuna nostalgia per le forme di intervento pubblico standardizzate e calate dall'“alto” – spesso sorde ai bisogni e alle pratiche che emergono dai corpi sociali – e senza negare le responsabilità dell'attore pubblico in quanto “parte del problema” nella ridefinizione di linee programmatiche e di apertura al mercato, in questa sede ci interessa indagare la logica – o meglio le logiche, non necessariamente monolitiche e coerenti – e i diversi modelli di azione e che si dispiegano in questo processo. Comprendere, da un lato, chi sono gli attori (pubblici, privati for profit e no profit) e quali gli asset di governo e, dall'altro, coglierne le conseguenze.

Conseguenze in termini di appropriazione di valore (e dunque di sfruttamento) del lavoro sociale – in potenza uno dei terreni del nuovo processo di accumulazione – e conseguenze in termini di qualità delle prestazioni, di governance e di controllo sociale.

La creazione di un mercato o un quasi-mercato nel sociale sta, difatti, producendo erogazioni diversificate, condizionate e discriminanti per alcuni segmenti della popolazione, rivelandosi meccanismo disciplinare molto potente, acuito, in questi anni di crisi, dalla concentrazione delle risorse tra pochi soggetti che assumono ruolo decisionale crescente e sempre più svincolato dai bisogni e dalle pratiche agite dal basso.

Contestuale alla mercatizzazione dei servizi sociali, la progressiva trasformazione degli assetti proprietari, regolativi, gestionali dei servizi di pubblica utilità (trasporto pubblico, acqua, gestione del ciclo dei rifiuti, eccetera).

Qui non si può non porre una questione italiana, che si traduce in una relativa asfissia dei processi di privatizzazione mediante investimenti privati, contestuale a una “de-pubblicizzazione”delle logiche d’intervento. Più che a reali investimenti sul terreno delle utilities, che rappresentano in prospettiva settori strategici emblematici di un ciclo di accumulazione ove produzione, rendite garantite politicamente e dalla natura di monopoli “quasi naturali” di alcune infrastrutture, asset finanziari si compenetrano, dando vita a un ibrido né pubblico né privato in senso tradizionale, sembrano darsi dunque pratiche mimetiche e parassitarie, con l’occupazione da una parte di asset protetti da parte di grandi attori privati, ma anche con la formazione (dall’altra) di ba dcompanies cui gli enti locali scaricano debiti e i costi di gestioni fallimentari. L’esigenza di una “modernizzazione delle reti” spinge retoricamente l’idea di una imprescindibilità dei capitali privati, quella dell’efficienza gestionale promuove la formazione di multiutilities macroregionali, ma entrambi i processi sembrano scontrarsi con dei vincoli. Da un lato il limitato interesse dei detentori di capitali all’ingresso in questo business (molte vendite di quote degli enti locali vanno infatti “deserte”: percezione di una ancora eccessiva regolazione? Moral Hazard, poiché l’indebitamento di Stati ed Enti Locali consentirà di acquisirle a costi ancora più “convenienti”?). Dall’altro le “resistenze” di molti enti locali: permanenza di culture “municipalistiche” o c’è dell’altro (es. finanziare, attraverso la vendita di questi servizi, le casse degli enti locali, occupazione clientelare di potere da gestirsi in loco)?

Proprio intorno ai servizi pubblici locali divengono espliciti alcuni tratti del neoliberalismo, ma anche la ristrutturazione delle forme della governance urbana, con l’intreccio perverso tra “privatizzazioni senza liberalizzazioni”, abbattimento dei confini tra pubblico e privato (le attese di redditività e i criteri adottati per valutarne efficienza e funzionamenti sono gli stessi, qui la cultura del new public management rivela la sua intima natura “privatistica”, anche in assenza di attori privati), trasferimento all’utenza di quote crescenti di costi di gestione, piuttosto che prestazioni differenziate in base alla capacità di spesa dei gruppi sociali (e dei quartieri). E proprio su questo terreno appare necessaria una riflessione non schematica sulle alternative praticabili (apparendo infatti problematica, qualora utilizzata al fine di prefigurare formule gestionali dei servizi, la stessa nozione di “bene comune”). Non può infine essere taciuto, dal punto di vista delle pratiche di cittadinanza connesse alle lotte per l’abitare, il recente decreto legge sul piano casa, che prevede l’esclusione ex lege dall’accesso alle utenze collettive delle abitazioni occupate.

É evidente che intorno ai servizi collettivi si gioca una partita importante, sia dal punto di vista degli assetti di potere e delle gerarchie capitalistica, sia per quanto attiene la qualità delle esistenze e il “diritto alla città”. Come si lotta su questo terreno? Il referendum sull’acqua e la rivolta degli autoferrotranvieri di Genova hanno costituito importanti campi di mobilitazione, ma d’altra parte i processi di dismissione di alcuni servizi e di mercatizzazione procedono.