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Oltre le elezioni – Dibattito

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Commenti di Carlos Heras Rodiguez, Franco Piperno, Carlo Cuccomarino

Il crollo del bipartitismo - di CARLOS HERAS RODRIGUEZ

Le elezioni del 25 lasciano in Spagna uno scenario di crisi di regime in cui lo scenario bipartitista crolla a vari livelli.

Il primo dato è che con una partecipazione del 45,84% (vicina al minimo storico), la somma dei voti di PP e PSOE non arriva al 50%. È la prima volta nel periodo democratico. Il PP (centro-destra) prende il 26% dei voti e il PSOE (socialdemocratici) il 23%; la “vittoria” per i primi non è tale, il disastro per i secondi è clamoroso. Se la tendenza si confermasse nelle elezioni comunali e regionali (tra un anno) e in quelle statali (nell’autunno del 2015), l’unica ipotesi di governabilità sarebbe la grande coalizione tra le due forze di regime. Un’ipotesi suggerita come ragionevole da dirigenti di entrambi i partiti... anche durante la campagna elettorale!

In Catalogna la partecipazione elettorale sale più del 10% (fino al 47,63%) rispetto al 2009 ed ERC (indipendentisti con un’origine di sinistra che governano insieme a CiU, di destra) diventa la prima forza politica della regione, legittimandosi così come leader del processo indipendentista. Non è una sorpresa, ma è comunque un piccolo terremoto: è anche la prima volta nel periodo democratico che ERC vince le elezioni, e lo fa a meno di un anno del referendum per l’indipendenza. Tra le due grandi forze del nazionalismo catalano, ERC è la più apertamente indipendentista. L’indipendentismo catalano, man mano più legittimato in ogni processo elettorale, sarà un elemento in più di tensione politica e instabilità istituzionale. Insieme alla mobilizzazione dell’indipendentismo si dà una crescita significativa di nuove formazioni unioniste a livello nazionale (come UPyD, che si consolida con un milione di voti e quatto seggi) e con particolare forza Ciudadanos, più radicato in Catalogna, che guadagna due seggi. Entrambi rappresentano il rinnovamento della destra spagnola.

Podemos, candidatura prossima ai movimenti nata a gennaio e articolata intorno alla figura mediatica di Pablo Iglesias, irrompe con più di 1,2 milioni di voti e cinque rappresentanti. Diventa quarta forza politica dello stato (col 7,97% del voto) dietro a Izquierda Unida (9,9%, sei seggi), che anche se triplica i suoi risultati precedenti ha poco da festeggiare. Il suo successo dimostra il bisogno di parlare un altro linguaggio oltre le identità vecchie della sinistra e indica la potenza dell’uso strategico delle figure di leadership mediatica (Pablo Iglesias, addetto a dibattiti politici nazionali, era il terzo candidato più conosciuto e il meglio valutato). Oggi è anche un buon momento per ricordare che il politologo iniziò con un programma proprio trasmesso via Youtube, mentre IU si lamentava (e si lamenta ancora) di non essere chiamata in televisione. Podemos è diventata la terza forza politica in regioni come Madrid, dove la somma dei suoi voti con quelli di IU supererebbe il PSOE. Podemos emerge sopratutto in regioni dove non c’erano nuovi partiti nati sopratutto intorno alla polarizzazione della componente nazionale, ma è comunque un fenomeno significativo in Catalogna e nei Paesi Baschi. Non a caso riconosce il diritto di autodeterminazione senza ambiguità (al contrario di IU). Merito di Podemos è aver dato vita a più di 400 circoli durante questi quattro mesi (strutture assembleari locali), realizzando un processo di primarie che ha coinvolto più di 30.000 persone e producendo l’immaginario di gente normale che fa politica, anche rappresentativa. Pablo Iglesias, nel discorso di celebrazione ieri sera, dopo aver preso cinque deputati quando i sondaggi ne assegnavano un massimo di due, ha detto: “i risultati sono stati ragionevolmente buoni” perché “i partiti della casta hanno subito un duro colpo, ma ancora non abbiamo adempiuto al nostro obiettivo. Domani governerà ancora la casta e ci saranno ancora sfratti”. Un discorso tanto sensato quanto insolito dopo decenni di subalternità della sinistra istituzionale: un discorso di maggioranza, di chi vuol vincere.

L’ultimo dato significativo che può passare inavvertito nei risultati globali è l’ascesa di EH Bildu, il partito della sinistra abertzale basca, dopo 10 anni fuori delle istituzioni europee (le diverse formazioni abertzale sono state rese illegali per non aver condannato esplicitamente l’ETA). Prende un deputato insieme al BNG (indipendentisti galleghi), ma sopratutto si conferma prima forza in Gipuzkoa (provincia dei Paesi Baschi, suo feudo principale) e anche Alava (la parte più “spagnola” della regione). È seconda forza in Bizkaia dietro il PNV (destra indipendentista) e anche in Navarra (regione rivendicata come territorio di Euskal Herria per l’indipendentismo), con un incremento spettacolare, dietro il PP. Ciò vuol dire che EH Bildu, una forza popolare e di rottura sociale, ha l’assoluta egemonia dello spazio della sinistra in Euskal Herria e minaccia quella dell’indipendentismo.

Un ultimo dato, aneddotico. Il Partito X si è mostrato come una bolla degli ambiti attivisti, non arrivando ai 100.000 voti. Anche riconoscendo il merito che ha avuto come sperimentazione formale e organizzativa, il suo esito ci mostra che senza impianto territoriale c’è poco da fare. E anche che, magari, c’è stato un eccesso di avanguardismo hacker nei suoi discorsi.

Insomma, la caduta del bipartitismo è stata più forte di quanto si poteva pensare. Il divario indipendentista si conferma sia in Catalogna che nei Paesi Baschi, con un giro a sinistra. I nuovi spagnolismi reazionari salgono, ma non tanto, e sembra che ci sia più spazio alla sinistra dal PSOE che alla destra del PP. Se si fanno le cose bene, una candidatura unica di rottura potrebbe seppellire definitivamente la socialdemocrazia del PSOE in questo anno e mezzo di ciclo elettorale... La sfida grossa verrà dopo, nei quartieri, nei centri di lavoro, nell’università e nelle piazze.

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La vittoria mancata di Beppe Grillo - di FRANCO PIPERNO

Per paradossale che possa sembrare, la sconfitta di M5S deriva a perpendicolo dal privilegio accordato da Grillo e Casaleggio,ormai da molti mesi,alla campagna elettorale – divenuta via via se non la sola certo la principale attività pubblica del movimento, alla quale ricondurre ogni altra iniziativa. Promettere la rottura del sistema etico-politico dominante tramite la cattura del consenso elettorale degli onesti, prima d'essere un ossimoro, è un “bluff” qualche po’ irresponsabile, destinato ad essere facilmente scoperto.

A memoria d’uomo, gli onesti, in quanto tali, non hanno mai fatto una rivoluzione, non è cosa loro; in Italia poi l’impresa risulta ancora più improbabile, dato, che morto don Gallo, gli onesti sono rimasti solo tre – sotto soglia secondo il precetto biblico.

Un tratto inusuale ed intrigante dei discorsi originari di Grillo è stato quel suo negare la democrazia rappresentativa, quel rievocare la democrazia diretta come una alternativa praticabile “qui ed ora”.
Ma, all’atto pratico, M5S ha confuso la democrazia diretta con la sua caricatura americana: la democrazia “elettronica”, ovvero scambiare informazioni a distanza, abitare il non-luogo.

La democrazia diretta vive di partecipazione corporea; e questa partecipazione può svolgersi, si svolge solo localmente, nei luoghi comuni. Niente o quasi ha fatto M5S per costruire le istituzioni locali della democrazia diretta e federarle tra di loro.

Senza questa cooperazione tra i luoghi, qualsiasi critica del sistema parlamentare dal suo interno viene masticata e digerita dal sistema stesso come uno dei tanti programmi di governo – considerata giustamente come una manifestazione della libertà politica che il sistema parlamentare autorizza.
Insomma, nel deputato che critica il parlamento non si realizza né la democrazia diretta né rappresentativa ma la degenerazione di quest’ultima, il parlamentarismo.

Va da sé che la severa contrazione del consenso per Grillo non è certo dovuta ad una divergenza dell’elettore sulla interpretazione del concetto politico di democrazia. Intendiamo piuttosto constatare come l’addomesticamento delle idee radicali provocato dalla necessità di catturare il consenso, ha finito col fare emergere anche tra i penta stellati la passione triste del governare, omologandoli al ceto politico, ai difetti intrinseci, dirò così ontologici, della rappresentanza – il più grave dei quali è lo “statalismo”, l’illusione cognitiva che pretende di sostituire la politica con la macchina dello stato, con il governo degli uomini.

È facile prevedere che, proprio per la sproporzione tra l’importanza conferita alla consultazione elettorale e i risultati ottenuti, M5S entrerà in una fase critica; e rischia di uscirne male. Tuttavia, poiché le vie del Cielo anche se non infinite sono assai numerose, può anche accadere che M5S divenga saggio, impari dai propri errori, si rialzi e riprenda il suo cammino originario, la buona stella che ci fa sperare.

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La separazione tra istituzioni e territorio, in mezzo l’astensione - di CARLO CUCCOMARINO

Con l’astensione al voto, una buona parte del paese, quasi un italiano su due, ha confermato di non credere più alle menzogne raccontate e considerare questo sistema politico estraneo e nemico. La separatezza, la frattura che esiste oggi tra rappresentati e rappresentanti, tra società e sistema istituzionale, tra politica dei governati e dei governanti è stata dimostrata, ampiamente, tutta.

Il corteo del 10 maggio scorso a Cosenza ha segnato un passaggio ad una fase nuova: una fetta consistente della popolazione calabrese, quella più attiva e protagonista nei territori, che non si fa rappresentare, ma che si rappresenta. Una popolazione stanca di dichiarazioni e promesse, che si dichiara. Una popolazione combattiva, determinata e consapevole di avere iniziato una dura lotta contro chi rappresenta e governa questo sistema politico, perché la democrazia non sta nei partiti e nella sua reductio a momento elettorale o nell’aula parlamentare. La ritroviamo, la democrazia, dove si discute di come fare stare meglio le persone che vivono i propri territori e su quali possano essere le soluzioni ai problemi che vengano via via individuati; la ritroviamo,ancora,dove si discute di riposo e di lavoro, di costruzioni e distruzioni, di edifici e di alberi e quant’altro costituisce la fisionomia e la vita di una comunità. Democrazia è esperienza diretta della politica, è conflitto e vive soltanto nel conflitto.

Tutto ciò diventa particolarmente vero nell’attuale situazione calabrese, dove tutto traballa e tutto scivola e l’accelerazione della crisi sociale, politica ed economica diventa ogni giorno più violenta. Si pensi al disastro della spartizione partitica dei posti nella sanità pubblica, alle porzioni di territorio compromessi dagli esiti di conferimenti in discariche, spesso non a norma e ripetutamente sottoposte a sequestro giudiziario. Ai provvedimenti normativi straordinari che consentono di smaltire il “rifiuto non trattato”, sempre in nome di una emergenza ultradecennale, che giustifica l’eccezionalità e l’urgenza di tali provvedimenti. Si pensi alla collusione con organizzazioni criminali, nonché con costi per il loro funzionamento al di là di qualunque giustificazione.

Questo dilagante malaffare che ha visto coinvolte anche le istituzioni rappresentative, i nostri onorevoli, si fa per dire, i consiglieri regionali che guadagnano, entrambi, molto più dei loro colleghi europei e italiani, sono degenerati. I partiti sono diventati macchine per il potere di persone o gruppi di persone fondate quasi sempre sull’interesse personale, la corruzione, lo sperpero del pubblico denaro.

Realtà e rappresentanza sono separate e contrapposte, questa frattura si è evidenziata in Calabria come nel resto del paese, la forza di questo percorso intrapreso dai Comitati Territoriali rafforza la capacità di autogestione e di liberazione della potenzialità di autogestione della vita.

Ora i Comitati che sono interessati a “rilanciare” credo che debbano trovare i modi per prendere di mira una rappresentazione propagandistica della politica che ha finito col sancire ancora una volta la separazione tra rappresentati e rappresentanti, tra realtà e rappresentanza.

La mia impressione è che la sensazione diffusa, dopo la manifestazione del 10 maggio scorso e anche dopo questa tornata elettorale, è che questo sistema politico è possibile superarlo, il senso di potenza degli individui si è, a mio parere, intensificato. La prospettiva di cambiamento si è rafforzata. La persuasione che la democrazia è per forza di cose conflittuale, si è rafforzata nonostante i balletti, le dichiarazioni e le fantasmagoriche ricette evidenziate durante questa campagna elettorale che volevano illuderci che la società potesse vivere senza la fatica del conflitto e che la democrazia potesse essere il frutto di una pacifica convivenza tra egoismi.

Ma dopo questa tornata elettorale, la democrazia desertificata che abbiamo di fronte ci dice che non è così. Il conflitto sociale è la linfa della democrazia e anche il costo che dobbiamo pagare perché essa viva. Diventa, comunque, vista la natura di queste elezioni, aggiungere qualche notarella sulla dinamica dalla governabilità vs la rappresentanza. Tale dinamica, difatti, è modellata sul funzionamento dell’Unione Europea, con un parlamento che è più o meno un vestibolo dove si scambiano opinioni che nulla pesano sulle scelte politiche invece proprie del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, che poi designa e delega governo quotidiano la Commissione Esecutiva (Ce), mentre quella monetaria appartengono alla Bce, e quelle economiche vengono prese dalla cosiddetta troika, Fmi, Bce, Ce. Insomma, per molti è evidente, che la volontà dei cittadini europei non compare mai nello schema, non è mai rappresentata. È l’attuale Europa della tecnocrazia e della finanza. Un’Europa a-democratica nelle sue dinamiche istituzionali e spesso antidemocratica nelle sue decisioni concrete.

Quest’Europa panliberista è sempre più abitata da poveri, disoccupati, precari, sta correndo alla sua disarticolazione, forse distruzione, e sta inoltre alimentando ogni giorno di più gruppi e forze di estrema destra, neonaziste e neofasciste, nazionaliste, populiste e reazionarie, il peggio del peggio emerge, una sorta di nero fascismo fondato sulla miseria e l’esclusione.

I dirigenti europei possono essere fieri del loro lavoro,la prussiana Merkel innanzitutto. In questo immondo bordello in cui l’Europa è precipitata,probabilmente si sentiva il bisogno di qualcuno candido e ingenuo,che portasse sulla scena un po’ di calore umano. Nessuno sembra accorgersi dell’incredibile presa in giro,ridicola se non fosse drammatica per milioni di persone, ma come altro dovremmo leggere il livello di astensione al voto di domenica 25 maggio?

Si è data una svolta alle politiche economiche finanziarie, sociali e di organizzazione del mercato del lavoro, compiutamente liberista. Ma per raggiungere questo obiettivo nel pieno di una crisi squassante bisogna esercitare una quota di violenza sociale assai grande, si pensi solo allo smantellamento della sanità pubblica o al numero impressionante di disoccupati specie giovani, e appare difficile riuscirci soltanto con la forza repressiva-militare dello Stato. Abbisogna anche di una quota di consenso da parte di chi subirà questa violenza sociale giustificata in nome della salvezza della patria. E per questo il Pd diventa fondamentale, come protagonista attivo in grado di proporre compromessi, che pur non cambiando la direzione della marcia, può rendere più accettabile lo smantellamento di diritti del lavoro e sociali. Quest’ultimo, difatti, in campagna elettorale non batte ciglio.

Negli ultimi 20 anni in Occidente, e in modo accelerato dal 2008 ad oggi, c’è stato un aumento del reddito forte, molto forte per i ricchi, e una riduzione forte, molto forte,per i lavoratori dipendenti, manuali e intellettuali, cognitivi e manifatturieri, precari e/o a tempo determinato, piccoli artigiani e partite Iva finte che mascherano un lavoro in realtà dipendente. Sono diminuiti in modo consistente i diritti sociali, scuola e diritto allo studio mortificati, università e ricerca pubblica ridotti al lumicino, sanità, previdenza, Tfr e diritto del lavoro ogni giorno aggrediti e ridotti.

Si tratta di un martellamento continuo che dice e ripete da anni e anni che lo stato sociale è il responsabile della crisi, del debito pubblico, del deficit di bilancio dello Stato, che i diritti dei lavoratori riducono la produttività e affossano la produzione, che i pensionati sono colpevoli di eccessive spese, insomma tutti conosciamo il refrain cui collaborano tutti i media, esclusi i pochi soliti noti. Il 41% dell’astensione ci dice che non crede più a queste menzogne raccontate chi si è visto sorreggere tali menzogne e la politica promettere ciò che non farà?