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Vecchie e Nuove Pratiche Predatorie

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Nota introduttiva al terzo incontro del ciclo seminariale “La questione urbana nella crisi neoliberale” (Torino, 3 giugno 2014)

Nella seconda giornata saranno indagate le forme di accumulazione della città neoliberale, la loro crisi e i tentativi di rilancio in corso. In specifico, gli interventi introduttivi saranno focalizzati su due ambiti: l’ascesa e la crisi del Real Estate e i mutamenti del mix produttivo urbano.

Il Real Estate, com’è noto, è stato il principale motore della crisi iniziata nel 2007 e mai conclusa, attraverso il meccanismo dei mutui subprime. Scoppiata la bolla, l’industria immobiliare ha subito per prima gli effetti della crisi: le famiglie sbattute fuori dalle villette negli USA, interi quartieri nuovi deserti in Spagna, le gru ferme a Dubai sono immagini classiche eppure difficili da trovare. Il Real Estate non fallisce mai veramente, e ha cura di nascondere le défaillances. A Londra, grazie alla scellerata detassazione, o nella Silicon Valley, archetipo della Smart City, il suo rifiorire produce più diseguaglianza di prima.

Cambiano le forme della rendita immobiliare, con la sua finanziarizzazione, e cambiano continuamente i modelli da comunicare, fondamentali per ribadire la necessità delle trasformazioni urbane. La creative city di Richard Florida è stata sostituita oggi dalla Smart City, ma lo schema è uguale: un’immagine nebulosa e ottimista per “attirare investimenti” che inevitabilmente si trasformano in trasferimenti di sovranità e beni materiali dal pubblico al privato, con l’esclusione sempre più accentuata della popolazione dalle aree urbane, e dalle decisioni sul loro uso e sull’allocazione dei fondi pubblici.

Mentre la questione abitativa torna a essere sempre più centrale anche nei paesi più ricchi, nessuno riesce a mettere seriamente in mora il paradigma proprietario, che informa le politiche della casa a New York come a Modena a scapito dell’incentivazione del regime di affitto. A questo proposito, urge anche un’analisi sulla scarsa pressione esercitata dai pur numerosissimi movimenti urbani uniti da una comune lotta per il “diritto alla città”. Le pratiche di riappropriazione diretta di spazi pubblici e privati non vanno quasi mai oltre l’autogestione, evitando per lo più qualsiasi rivendicazione strategica sulle politiche pubbliche.

L’affermarsi, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, di un Real Estate “finanziario” con logiche mutate rispetto alla rendita nel ciclo industriale, è intrecciato ai mutamenti produttivi e della composizione del lavoro. Sia pure con modalità eterogenee e differente intensità nei diversi contesti (globali e nazionali), infatti, il “ritorno alla città” ha tratto impulso sia dalle logiche localizzative delle imprese di servizi – più che mai dipendenti dalle economie di agglomerazione e di rete, dalle istituzioni del welfare, dall’esistenza di un esercito “cognitivo” di riserva – sia dalle pratiche sociali e delle nuove leve di forza-lavoro.

La “terziarizzazione” produttiva delle città, anche dei centri emblematici della produzione di massa del Novecento, è stata concettualizzata dagli apologeti delle “nuove geografie del lavoro” – ma anche da studiosi “non allineati” o antisistema – come transizione ad un’economia della cultura e della conoscenza, secondo le varianti più creativa o più tecnologica. Lo stesso paradigma della smart city s’inquadra in questa narrazione che, del farsi terziario della città, ha enfatizzato la capacità egemonica dei lavoratori istruiti, che si presumono integrati in una nuova classe media cosmopolita, tollerante e consumatrice di prodotti evoluti, sostenibili, ad alto contenuto simbolico ed esperienziale.

Il problema non è tanto decostruire l’ideologia sottostante a questa narrazione o rintracciare i confini tra realtà empirica e vis retorica (tema non secondario), quanto leggere scomposizioni e ricomposizioni che prendono forma nella compresenza – nello spazio urbano – di diverse e variamente intrecciate vie dell’accumulazione. Le città neoliberali non sono mai state, neanche prima della crisi, “fabbriche diffuse dell’economia della conoscenza”, ma poli internamente articolati di economie disposte gerarchicamente, in cui un posto importante è occupato dalle operaietà terziarie nei servizi di produzione e riproduzione della città, dai nuovi mcjobs e dai circuiti dell’economia informale. 

La crisi incentiva la domanda di nuove combinazioni tra finanza, rendita urbana e produzione di beni e servizi. Lungi dal perseguire uno sradicamento definitivo dalla cosiddetta economia reale, ipotizziamo oggi che siano gli stessi poteri finanziari a ricercare basi materiali (profitti “industriali”, rendite, mercatizzazione di beni collettivi) per rilanciare la redditività. Rendere più efficiente e produttivo il territorio, il lavoro, i servizi, la riproduzione, la città intesa come piattaforma tecnico-produttiva, è l’imperativo su cui convergono finanza, immobiliare, imprenditori, attori pubblici (componente non passiva né “esterna” di questo processo). Così, se la (residua?) manifattura deve farsi intelligente, le attività ad alta intensità “intellettuale” – grazie a una nuova generazione di tecnologie - devono farsi “industria”, a partire dai luoghi emblematici dell’economia smart – come le Università.

Interrogarsi su cosa siano o cosa divengano le “industrie urbane” nella crisi neoliberale, dunque, serve a ricostruire il frame entro cui ricercare i confini – spesso anche spaziali – e le linee di divisione, ma anche la possibilità di comporre e “produrre classe”, tra le molteplici frazioni del lavoro sussunto nella nuova economia.