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Presentazione del libro “La nuova ragione del mondo”

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di CHRISTIAN LAVAL

Pubblichiamo il testo dell’intervento che utilizzerà Christian Laval per le giornate di incontro a Bologna del 3-4-5 giugno (a seguire la versione francese)

Introduzione

La necessità di scambi e confronti, l’importanza della circolazione di idee ed analisi da un paese all’altro non si fanno mai così sentire come nei periodi di crisi quali stiamo vivendo oggigiorno. Ecco perché mi felicito di questa traduzione, di questi scambi attorno al libro scritto con Pierre Dardot, il quale è molto dispiaciuto di non essere riuscito a venire.

Vorrei innanzitutto descrivervi un po’ ciò che ci ha motivati a scrivere e pubblicare nel 2009 “La nuova ragione del mondo”. In seguito cercherò non tanto di riassumere un libro di quasi 500 pagine ma di indicare i punti importanti di ciò che abbiamo voluto mostrare in questo libro, che è un’opera scientifica, come si suole dire, o “accademica”, ma che si vuole anche un libro utile al fine di decriptare la situazione sociale e politica e quindi utile per lottare contro un certo tipo di politiche cosiddette a giusto titolo “neoliberali”. Si tratta dunque di un’opera che assume la sua doppia natura, il suo doppio statuto di libro “scientifico” e di libro politico.

Siamo partiti dalla doppia constatazione seguente:

- pensavamo di sapere ciò che era il neoliberalismo e in realtà non sapevamo esattamente ciò con cui ci saremmo confrontati;

 - resistere efficacemente, lottare contro una situazione intollerabile suppone non soltanto della forza morale e delle risorse soggettive, una buona organizzazione e una buona strategia, ma anche e soprattutto un’intelligenza collettiva della situazione, la quale non può giungere che attraverso la condivisione e la discussione di analisi serie, approfondite, scrupolose e puntigliose.

Ecco perché abbiam voluto fare quest’analisi del neoliberalismo, considerandolo come un fatto politico e sociale centrale del momento storico attuale. Un neoliberalismo di cui volevamo per l’appunto mostrare la novità, ciò che c’è di nuovo in esso.

La nostra ipotesi centrale è che abbiamo a che fare con ciò che Michel Foucault ha chiamato una “razionalità” nella maniera di governare gli individui, intendendo con ciò una messa in coerenza di discorsi, politiche, forme di vita, relazioni sociali e soggettività, una coerenza che è propria di certe fasi della storia. Ciò non rimette in questione le grandi analisi economiche o sociologiche alle quali teniamo, e al cui riguardo abbiamo contratto dei debiti, penso in particolare alle analisi di Marx o a quelle di Weber.

Questa analisi foucaltiana o d’ispirazione foucaultiana ha per registro e per oggetto il modo di governare le persone, di comandarle e di orientarle nei differenti ambiti, secondo l’ipotesi per cui ogni epoca ha una maniera dominante di governare, possiede una certa forma di potere che sovrasta le altre. Questa è la grande ipotesi di Foucault.

Rimanendo molto liberi nel nostro utilizzo di Foucault, ma prendendo a prestito da lui quest’ipotesi dei tipi storici di governamentalità, e servendoci delle analisi sviluppate in un corso al Collège de France nel 1979 [sulla nascita della biopolitica], abbiamo voluto gettare una luce sugli ultimi tre o quattro decenni di ciò che comunemente si chiama “neoliberalismo”.

Perché andare a cercare presso Foucault e in un corso del 1979 degli strumenti di lettura e interpretazione degli ultimi trenta o quaranta anni di storia mondiale? Pare in effetti piuttosto curioso come approccio.

Siamo tornati un po’ indietro per tentare di andare più lontani, se così posso dire, ossia per superare una certa paralisi nell’analisi. È poiché le interpretazioni che erano fornite da movimenti di sinistra, partiti, associazioni altermondialiste (ATTAC) o sindacati ci parevano parziali o false, ad ogni modo fonti di illusioni o confusioni che potevano avere delle conseguenze negative sul piano politico, abbiamo voluto rinnovare, affinare e pure emendare certe maniere d’interpretare la natura del neoliberalismo.

Cerco di spiegarmi meglio poiché è importante: la nostra motivazione non è consistita nel fare la storia delle fonti del neoliberalismo, ma nel fare una diagnosi della situazione presente a partire dalla caratterizzazione del neoliberalismo. In effetti, non comprendere che cos’è il neoliberalismo, significa non comprendere la situazione nella quale ci troviamo. Abbiamo perciò voluto combattere certi errori e illusioni che ci sembravano pericolosi.

1) Una serie di illusioni o di errori

Ne rileverò quattro o cinque, al fine di situare adeguatamente ciò che abbiamo tentato di correggere rispetto alle abituali interpretazioni del neoliberalismo:
- il primo errore consiste per esempio nel credere che la crisi economica, monetaria o budgetaria, fosse sufficiente a scalzare l’ipotesi neoliberale – come ritenuto da molti nel 2008. Stiglitz, per esempio, parlava di “fine del neoliberalismo” in quel periodo, e non fu l’unico. Tutto il nostro libro mostra come il neoliberalismo abbia una lunga storia, una profonda coerenza e una consistenza istituzionale, ossia delle caratteristiche che spiegano perché il neoliberalismo non sia crollato né nel 2008 né successivamente, ma, anzi, si sia addirittura approfondito, radicalizzato, esteso con la crisi del debito pubblico, la quale è servita da pretesto e da leva per accelerare la trasformazione della società.

Il nostro libro – che è stato pubblicato per la prima volta a inizio 2009 – spiega perché il neoliberalismo se la passi bene dal 2008. Si tratta di un sistema che ha mostrato di avere una sua logica propria, inerziale, quasi automatica, la quale, da un punto di vista sociale è senza dubbio negativa e distruttrice, ma che per essere compresa deve essere colta nella positività di tutta la sua forza, come una razionalità specifica, come un modo di “fare società”.

- Il secondo errore, legato al primo, contro cui ci siamo opposti, consiste appunto nel vedere nel neoliberalismo nient’altro che un’“illusione”, un’ideologia, un dottrina economica falsa, arcaica. Ora, con ogni evidenza il neoliberalismo non è solamente una dottrina falsa; è molto di più di un’ideologia menzognera. È un insieme di pratiche e norme che sono state costruite politicamente, istituzionalmente, giuridicamente. Si tratta di una costruzione che si presenta senz’altro in modo ideologico come naturale, che vorrebbe ogni tanto presentarsi come un’emanazione della natura umana, ma che non è semplicemente riducibile a questo, sebbene ciò che è proprio dell’ideologia è il naturalizzare ciò che è politicamente costruito.

- Questa illusione dell’illusione, se così si può dire, è legata all’idea corrente che non vuole vedere nel neoliberalismo che un ritorno del liberalismo classico del XVIII° secolo, sotto il suo aspetto più naturalista e spontaneista, così come lo si pensa di poter trovare presso Adam Smith per esempio. Denunciare il neoliberalismo come se avessimo a che fare con il “naturalismo” liberale del XVIII° secolo, significa sbagliare epoca e bersaglio. Credere che il neoliberalismo consista in un semplice rinnovamento della dottrina di Smith comporta, in modo paradossale, l’accettazione dell’operazione propria dell’ideologia, la quale consiste nel mascheramento della costruzione giuridico-politica prodotta dalle politiche neoliberali. Ma comporta soprattutto il rifiuto di considerare ciò che c’è di “neo” nel neoliberalismo, di storicamente inedito. È un po’ come se nulla fosse accaduto nel XX° secolo. Il paradosso di questa posizione che non vede nel neoliberalismo che dell’archeoliberalismo, del vecchio sotto mentite spoglie, è che il neoliberalismo storico, l’autentico neoliberalismo, si è costituito a partire dagli anni ’30 del Novecento in differenti paesi (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Austria, Germania) col fine di rifondare il liberalismo su nuove basi. Il neoliberalismo è il frutto storico di una moltitudine di sforzi eterogenei al fine di rifondare il liberalismo classico che aveva manifestamente fallito nello stabilire la prosperità e la pace.

- Vi è un altro errore di comprensione che consiste nel pensare che il neoliberalismo non concerna che l’economico, o la finanza, o la moneta o la politica budgetaria; ossia nel pensare che il neoliberalismo sia una sorta di “politica economica” e dunque che concerna innanzitutto gli economisti. È evidente che il neoliberalismo riguarda l’economia, ma non riguarda esclusivamente l’economia. Thatcher aveva una formula formidabile per introdurre bene la tematica foucaultiana; a modo suo Thatcher era foucaltiana quando diceva: “l’economia non che un mezzo, l’obiettivo è cambiare l’animo e il cuore”. Ciò precisamente significa che l’economia, ossia, secondo lei, il mercato, deve essere compresa come un mezzo per governare gli individui, per cambiare le soggettività stesse. Il neoliberalismo per noi concerne addirittura la forma di società – ecco perché parliamo di “società neoliberale [nel sottotitolo] – e persino la forma di esistenza. È la maniera di vivere, i rapporti con gli altri e pure il modo in cui ci rappresentiamo noi stessi che è in questione. Non abbiamo semplicemente a che fare con una dottrina e con una politica economica, ma con un autentico progetto di società che si sta costruendo, e anche con una certa fabbricazione dell’uomo. Dunque non una realtà economica nel senso corrente del termine, ma una realtà che implica e coinvolge tutto l’umano.

- Infine l’errore del pensare, molto presente in Francia, che il neoliberalismo sia un prodotto estraneo all’Europa, importato dagli Stati Uniti o dalla Gran Bretagna. Si tratta dell’errore che consiste nel credere che il neoliberalismo sia esterno rispetto all’Europa continentale, che sia l’espressione o la traduzione del dominio americano o anglo-americano. Si tratta dell’idea propagata dalla maggior parte dei socialdemocratici europei, secondo i quali il modo migliore per proteggersi da tale invasione consiste nel “costruire l’Europa”. Si tratta dell’errore più grave e, diciamolo, dell’inganno più profondo, che la socialdemocrazia europea sta pagando a caro prezzo, in Francia, per esempio, con l’ultima tornata elettorale. Cerchiamo al contrario di mostrare che se si vuole trovare una delle espressioni più pure di ciò che c’è di nuovo nel neoliberalismo, è proprio in Europa che lo si può trovare, e più precisamente nella costruzione europea. A tal punto che oggi persino il FMI si rende conto degli effetti assolutamente disastrosi, suicidari e auto-distruttori delle rigidità delle politiche perseguite dalla Commissione europea con il vigile sostegno dei dirigenti tedeschi.

2 Ciò che è il neoliberalismo

Appoggiandoci dunque liberamente sulle analisi e i concetti di Michel Foucault, abbiamo voluto mostrare come si è storicamente elaborata e costruita la norma neoliberale di governo, la razionalità propria del neoliberalismo.

Per noi, il neoliberalismo si definisce come una forma di intervento politico che obbedisce a delle norme, che diffonde nella società delle norme. È ciò che denominiamo una logica normativa, nel senso che impone delle norme sia ai governanti nella loro azione che ai governati, nelle loro pratiche sociali. Ciò che bisogna spiegare, è la prevalenze di certe norme di condotta indipendentemente dall’adesione degli attori a queste norme e ciò a livello dei governi come degli individui ordinari. È a questa necessità che risponde precisamente il concetto di “razionalità” proposto da Michel Foucaul: una razionalità non è un sistema di rappresentazioni soggettive, si tratta innanzitutto di una maniera di ordinare dall’interno le pratiche, maniera che può senz’altro essere completata da sistemi di rappresentazioni molto differenti in funzione delle necessità del momento.

L’intervento del governo deve essere pensato come un motore della trasformazione di tutta la società. Questa trasformazione consiste del dispiegare la logica del mercato ben aldilà del mercato economico stricto sensu, nel dispiegarla a tutte le sfere dell’esistenza umana. Non si tratta più ormai di fermare la mano dello Stato come nel liberalismo classico, ma di estendere la mano dello Stato: non più limitare l’azione di governo, ma piuttosto moltiplicarla in modo reticolare al fine di dispiegare la logica del mercato all’insieme della società.

Che cosa bisogna intendere allora per “logica del mercato”? La norma che fa esistere il mercato è quella della concorrenza tra le unità di produzione che sono le “imprese”. L’estensione della logica del mercato a tutti i rapporti sociali implica di conseguenza l’elevazione della concorrenza a norma sociale generale. Il neoliberalismo si configura come un intervento generale, senza limite assegnabile che mira ad estendere tramite tutti i mezzi la logica della concorrenza a livello mondiale, nazionale, regionale, professionale fino all’intimità dei rapporti sociali elementari e persino nell’interiorità delle soggettività.

Non ad estenderla principalmente tramite la persuasione ideologica, ma tramite la costruzione di situazioni di mercato che obbligano gli individui a comportarsi in modo determinato come individui in concorrenza gli uni con gli altri, come degli investitori, dei calcolatori massimizzatori, dei consumatori. Il neoliberalismo mira a trasformare gli individui in “uomini economici” o più precisamente ancora in uomini-impresa, o in individui identificati a un capitale (“capitale umano”), piazzandoli in situazioni in cui ognuno deve far giocare il suo solo interesse personale in un contesto di rivalità per delle “risorse rare”, come dicono gli economisti. E ciò tramite una pluralità di mezzi, di cui non sempre si riesce a comprendere il nesso: il più evidente e manifesto è chiaramente la consegna diretta al settore privato di pezzi interi dei servizi pubblici, tramite l’estensione della sfera lasciata all’accumulazione del capitale privato. Lo Stato a livello nazionale e mondiale (lo si vede chiaramente tramite il progetto del trattato transatlantico [per una zona di libero scambio Usa/Europa] attualmente in corso di negoziazione) organizza la propria defezione e la propria subordinazione alle regole del mercato. Ma ciò non è tutto, in quanto sono tutti i rapporti tra individui e istituzioni che sono riconfigurati come dei rapporti tra clienti e imprese, come delle attività che rilevano di una logica di concorrenza e di redditività, come lo si vede nell’ambito della sanità o dell’educazione, anche quando si tratta ancora del settore pubblico.

Il neoliberalismo appare allora essenzialmente come un progetto di trasformazione della società. Mira a costruire una società di mercato con degli strumenti giuridici, istituzionali, politici che cerca di determinare ogni volta a partire da dei fini che si propone.

Lo Stato, in questo dispositivo non cede semplicemente il posto al mercato secondo un movimento di semplice ritiro. Lo Stato riorganizza attivamente i campi di attività e di esistenza secondo la logica del mercato. “Costruisce dei mercati” e si ricostruisce lui stesso come un sistema di azione regolato da una logica di mercato. Lo Stato cerca di strutturare la società imponendo un sistema di norme e di riforme istituzionali, le cosiddette “riforme strutturali” direttamente ispirate dal mondo capitalista. Lo Stato si riorganizza, si rifonda e si reistituisce esso stesso secondo la medesima logica di mercato. Non si ritira davanti ad una forza proveniente da fuori che gli sarebbe estranea, ma si piega esso stesso alla norma della concorrenza da lui prodotta prendendo come modello per ogni cosa l’Impresa. Ciò è particolarmente manifesto nell’ambito dell’educazione o della sanità. L’Impresa è divenuta un modello universale e il compito pratico delle politiche neoliberali consiste nel fare entrare le istituzioni esistenti in questo unico modello.

Il neoliberalismo è un insieme di fenomeni e tendenze che sono il prodotto di politiche deliberate obedienti alla logica della concorrenza e al modello dell’impresa, le quali generano come conseguenza la messa in concorrenza di tutti i paesi nella globalizzazione, come effetto il dominio della finanza di mercato, come esito del processo sociale l’estensione della soggettivazione capitalista generalizzata attraverso il debito privato e come altre ripercussioni la pauperizzazione e la crescita delle diseguaglianze.

Il neoliberalismo è dunque l’estensione della logica del capitalismo all’insieme delle altre sfere della società, e per questo ci insegna molto sul modo in cui bisogna concepire il capitalismo stesso come tipo di rapporto sociale, il quale deve molto all’armatura giuridico-politica che ne permette l’estensione, come del resto deve molto ai tipi di soggettività di cui necessita per funzionare.

Il capitalismo non cresce solamente perché conquista dei nuovi territori, si sottomette delle popolazioni via via più numerose e trasforma in merci tutti i frutti dell’attività umana. Sicuramente, questa è la via classica dell’accumulazione capitalista così come l’ha analizzata Marx. Ma il capitalismo cresce ugualmente tramite un’altra via, che, sebbene meno percepibile, risulta non di meno determinante: quella della diffusione sociale di un sistema di norme di azione. In ciò, come diciamo nell’opera, il neoliberalismo non è nient’altro che la ragione del capitalismo diffusa a tutta la società, una ragione che è una ragione di Stato, che è la ragion di Stato. E qual è il nome oggi della ragion di Stato neoliberale? È la “competitività”.

Per riassumere ciò che intendiamo con neoliberalismo, nella conclusione delineiamo quattro caratteristiche che specificano la sua novità:

In primo luogo, contrariamente a ciò che pensano gli economisti classici, il mercato non costituisce un dato naturale, ma una realtà costruita che richiede in quanto tale l’intervento attivo dello Stato così come la costituzione di un sistema specifico di diritto. Si tratta di un “progetto costruttivista”.

In secondo luogo, identifichiamo l’essenza dell’ordine di mercato nella concorrenza, definita essa stessa come relazione di disuguaglianza tra differenti unità di produzione o “imprese”. Costruire il mercato implica di conseguenza far valere la concorrenza come norma generale delle pratiche economiche, come una forma generale di relazione e di esistenza.

In terzo luogo, ciò che è ancora più nuovo, è che lo Stato non è semplicemente il guardiano vigile di questo quadro, ma è esso stesso sottomesso nella sua propria azione alla norma della concorrenza. Lo Stato è ormai obbligato a considerarsi esso stesso come un’impresa, tanto nel suo funzionamento interno che nelle relazioni con gli altri Stati. Così, lo Stato, al quale tocca costruire il mercato, deve allo stesso tempo costruirsi secondo le norme di mercato.

In quarto luogo, l’esigenza di una universalizzazione della norma della concorrenza eccede largamente le frontiere dello Stato, per raggiungere direttamente gli individui considerati nel rapporto che intrattengono con loro stessi. Lo Stato imprenditore deve condurre indirettamente gli individui a condursi essi stessi come degli imprenditori. L’impresa è promossa al rango di modello di soggettività. Ognuno è condotto a condursi come l’investitore di un capitale da valorizzare. Il “sempre più” del capitale diviene la maniera di essere, diviene norma. Il capitalismo si fa mondo, si fa antropologia.

3) Come si è costruita storicamente la logica neoliberale ?

Il nostro libro cerca di mostrare come si è costruita e imposta questa logica normativa. Il neoliberalismo non è una dottrina né un insieme di dottrine, ma delle norme che si sono costruite in risposta a delle difficoltà, impasse, contraddizioni e lotte generate da altre maniere di governare. Esse hanno trovato la loro coerenza amalgamando degli elementi del passato e degli orientamenti nuovi, come lo si vede in Europa. Si tratta dunque di una storia molto complessa, che non può riassumersi in una storia di idee come neppure in un complotto, ma di cui ciononostante bisogna tentare di comprendere quali sono gli ingredienti fondamentali che ne hanno composto la razionalità e in quali circostanze storiche questa logica ha potuto concretizzarsi.

Non posso qui rifarne la storia nei minimi dettagli. Mi concentrerò perciò sui momenti decisivi:

- Il primo momento ha luogo durante gli anni ’30. Un certo numero di autori intendono rifondare intellettualmente il liberalismo, dinanzi a una crisi generale del modello capitalistico dell’epoca. Producono al contempo una serie rinnovata di argomentazioni per difendere il capitalismo dinnanzi ai totalitarismi ma sviluppano anche delle idee innovatrici, in particolare l’idea secondo cui il mercato è una creazione istituzionale. Vi si ritrovano dei teorici tedeschi, come gli ordoliberali, che hanno giocato un ruolo fondamentale. Vi si ritrovano anche degli autori come Hayek, i quali sviluppano l’idea secondo cui l’ordine del mercato suppone delle regole intangibili, inaccessibili alle rivendicazioni popolari. In questa rifondazione degli anni ’30, la missione impartita allo Stato va ben aldilà del tradizionale ruolo del “guardiano di notte”, al fine di allestire “l’ordine-quadro” a partire dal principio “costituente” della concorrenza, di “soprintendere al quadro generale” e di vegliare al suo rispetto da parte di tutti gli agenti economici.

- Il secondo momento è quello della costruzione europea, la quale, nell’essenziale, è risultata da un compromesso tra Tedeschi e Francesi, a cui si sono allineati i responsabili degli altri paesi fondatori. I primi vogliono stabilire un’“economia sociale di mercato” secondo i precetti degli ordoliberali, ossia esattamente un’economia di mercato inquadrata e protetta da dei quadri giuridici e istituzionali stretti, delle regoli stabili che sono di tre tipi:

Il principio della concorrenza

Il principio della stabilità monetaria

Il principio della neutralità budgetaria

I francesi, invece, sono meno compatti. Qualcuno aderisce a questo modello, che potremmo definire disciplinare, altri vorrebbero sviluppare delle politiche di cooperazione e di solidarietà più attive. Questa suddivisione è ben visibile negli anni ’50 e la si vede ancora oggi. Ma come lo mostriamo, la costruzione europea si è progressivamente fatta sulle basi dell’ordoliberalismo tedesco.

Si può affermare senza alcuna esitazione che non si può comprendere nulla della crisi che attualmente sta attraversando l’Europa senza avere in testa che cos’è l’ordoliberalismo. Questa forma di neoliberalismo ha per principio che l’ordine politico dello Stato di diritto non può riposare che su un ordine di mercato che assicuri la “sovranità del consumatore”, un ordine che esso stesso non può essere stabilito che attraverso la costituzione. E si traduce dunque tramite la costituzionalizzazione della “concorrenza libera e non falsata” e tramite l’indipendenza della Banca Centrale. Non viviamo di certo la mancata compiutezza del modello ordoliberale, come preteso dai dirigenti europei che vorrebbero costituzionalizzare la politica budgetaria degli Stati membri, ma le sue contraddizioni e le sue impasse.

- Il terzo momento è la crisi economica e sociale degli anni ’70, che ha fatto dire a degli autori della Commissione Trilaterale nel 1975, nell’importante rapporto The Crisis of Democracy, che le società occidentali sono divenute economicamente e socialmente ingovernabili a causa dell’“eccesso di democrazia”, a causa cioè di rivendicazioni egualitarie e dell’accresciuta partecipazione politica. Questi autori, Crozier, Huntington e Watanuki, scrivevano che i governi non potevano esercitare il loro potere che grazie “a un certo grado di apatia e di non-partecipazione di certi individui e di certi gruppi”, aggiungendo che vi è “un limite desiderabile all’estensione della democrazia”.

L’offensiva neoliberale alla quale si è assistito allora, con Thatcher e Reagan, mira a limitare la democrazia, a schiacciare i sindacati che non giocano il loro gioco, a rinchiudere la società nelle discipline monetarie e budgetarie, a sviluppare la concorrenza; tutti mezzi di governo obliqui e indiretti per isolare, individualizzare e costringere gli individui a rinunciare all’azione collettiva e alla partecipazione democratica. Il mercato generalizzato è il mezzo per disciplinare la società e cambiare gli individui.

Il dispiegamento pratico del neoliberalismo è dunque una risposta che mira a governare con la minore partecipazione popolare possibile, e a restaurare le condizioni ottimali dell’accumulazione del capitale, messa in difficoltà dall’alto grado allora raggiunto dal conflitto sociale e dalla contestazione. Il neoliberalismo appare dunque manifestamente come un mezzo di contro-rivoluzione democratica. È il Cile di Pinochet che fornisce il laboratorio per il mondo intero, che ne costituisce il modello più completo di applicazione. Il mercato è sperimentato in quanto tale come un mezzo di potere e di dissoluzione dell’azione collettiva e della partecipazione democratica.

- Il quarto momento, è quello che stiamo vivendo. Il neoliberalismo era una risposta a una crisi di governo, mentre ora è il neoliberalismo che, pur non apparendo più in grado di rispondere a tutta una serie di questioni (crisi sociale, minacce finanziarie, crisi ecologica, etc.), continua lo stesso a dispiegarsi e a imporsi nella maniera più brutale. Si tratta di un momento inedito di minimo di pertinenza e di massimo di forza: un momento di contraddizione esplosiva.

All’inizio, nel 2008, si trattava di uscire dal neoliberalismo “moralizzando” e “regolando” il capitalismo. Poi, piuttosto in fretta, si è imposta l’idea tra le classi dirigenti che conveniva utilizzare la crisi come giustificazione di una radicalizzazione delle politiche neoliberali, lanciando un appello a deregolamentare ancora di più, a rimettere in causa un certo numero di acquisizione sociali, in particolare in Europa, ma, più in generale su scala mondiale. Ecco un effetto di auto-sostentamento delle politiche neoliberali in favore della crisi. Non si tratta di una volontà cospirativa, non si sono detti “adesso utilizziamo la crisi per…”, ma, ciononostante, prese nella logica che era la loro, si sono dette “bisogna continuare, bisogna continuare con più forza ora”, poiché abbiamo versato alle banche delle somme considerevoli, bisogna che salariati e contribuenti paghino. Come? Utilizzando le stesse ricette, servendosi più che mai della concorrenza, della moneta e del budget come strumenti di discipline sociali, come motori di trasformazioni sociali verso la società di mercato. Sempre più concorrenza, dunque, sempre più necessità di essere “competitivi” riducendo le acquisizioni sociali e riformando i mercati del lavoro, diminuendo i salari: sempre più stabilità monetaria e sempre più discipline budgetarie.

La crisi è allora divenuta un formidabile mezzo per normalizzare le società attraverso le “riforme strutturali” imposte dai tecnocrati, i “men in black” della Troika, ossia operare delle trasformazioni dei servizi pubblici in nome della razionalità economica, effettuare delle privatizzazioni massicce presso chi non aveva ancora condotto a fondo questo tipo di politiche, ri-mercificare la relazione tra salariati e datori di lavoro. La crisi è un modo per “recuperare il ritardo”, perlomeno è così che i dirigenti europei la intendono. Si tratta di profittare dello choc economico per rinforzare l’armatura disciplinare sul piano economico e sociale. Come sempre col neoliberalismo, si tratta di una maniera di governare obliquamente in nome dell’adattamento a delle situazioni che si sono in realtà costruite o lasciate sviluppare. È così che ci si serve dei mercati finanziari come motori disciplinari, come poteri normativi supremi.

È sufficiente constatare come sono state utilizzate le agenzie di notazione. In una prima fase della crisi, si è trattato di mettere al passo, facendo in modo che imponessero delle norme non definite unicamente da loro. In realtà, è esattamente il contrario che è successo, ossia si è finito col magnificare il loro potere, aggrandendolo, facendo di loro delle emettitrici di giudizi divini, per meglio giustificare l’ingiustificabile. La disciplina budgetaria si trova legittimata dall’invocazione della potenza di queste autorità finanziarie e la potenza finanziaria si trova legittimata dal bisogno degli Stati di prendere in prestito.

Ciò che è seguito allo scatenamento della crisi, non soltanto ha dato ragione alle nostre analisi poiché “non abbiamo finito col neoliberalismo”, per riprendere la frase dell’introduzione, ma poiché sotto molto riguardi, è proprio l’asse fondamentale della politica neoliberale su scala mondiale ad essersi rinforzato. Non che questa politica sia più legittima di prima, ma nel senso che continua con più forza esattamente nella stessa direzione, poiché i suoi partigiani credono o piuttosto non possono pensare che una sola cosa, nella loro (auto)ristrettezza: ossia che il neoliberalismo funge suo proprio rimedio, che è il rimedio alle conseguenze disastrose che ha esso stesso generate. I neoliberali sono prigionieri delle regole che hanno loro stessi stabilite. Bisogna affrancarsi da esse e solo la società autonoma ne è capace, compiendo fino alla fine la rivoluzione democratica intrapresa.

Conclusione

Si sarà capito che cosa vogliamo dire nel libro. Non si tratta dunque solo di teorie false da combattere, non si tratta nemmeno solo di condotte immorali che bisogna denunciare, sicuramente tutto ciò, ma è soprattutto un quadro normativo che bisogna smantellare per rimpiazzarlo con un altro. Questa la posta in palio delle lotte sociali e politiche attuali, le quali decideranno del prolungamento, persino della radicalizzazione, della logica neoliberale.

La rinascita della democrazie è centrale, e ancora una volta la risposta che il movimento sociale può apportare sarà decisiva. Questa l’alternativa politica: insurrezione democratica o regressione generalizzata della democrazia e ascesa del nazionalismo xenofobo, più o meno fascistoide.

L’attualità più recente in Europa mostra a che punto la democrazia sia in agonia. I segni di una “deriva della democrazia” non sono più inquietanti, sono terrificanti. Questa deriva si opera su più livelli che si completano e fanno sistema. Xenofobia anti-immigrazione, nazionalismo, potere poliziesco, violenza manageriale, ricatto degli organismi finanziari: vi è una congiunzione di fattori che fa uscire le nostre società dalla democrazia. Ma, al contempo, la rivoluzione democratica, la molto vecchia rivoluzione democratica, e riprendo qui una parola del liberale Tocqueville, ha ripreso corso.

Nessuno può dire se vincerà contro la forma moderna di potere dispotico. Ci sono delle condizioni che dobbiamo soddisfare e che al momento rivelano la debolezza della resistenza. Il neoliberalismo è impiantato da lungo tempo, sarà dunque difficile da sradicare e rimpiazzare. Difatti, non è per nulla semplice istituzionalizzare l’autonomia del movimento democratico, unica condizione per la sua durata nel tempo.

Il neoliberalismo è trasversale in quanto coinvolge tutti i settori e le attività, tutte le relazioni sociali. Bisogna dunque costituire delle coordinazioni durevoli tra i settori della società e i legami tra gli universi professionali.

Infine, il neoliberalismo è internazionale, costituisce un internazionalismo pratico davanti al quale opponiamo delle resistenze nazionali non coordinate nel tempo. Mi sembra giunto più che mai il momento di creare un movimento democratico e sociale europeo ed evidentemente mondiale, ma già europeo. Era già, più di dieci anni fa, l’ambizione del sociologo Pierre Bourdieu, e rimane sempre attuale.

A tal fine bisogna reinventare la democrazia, rifondare un pensiero rivoluzionario, ricreare una concettualizzazione. La sfida è immensa, ma il compito al quale siamo convocati è esaltante.

 

* Traduzione di Davide Gallo Lassere.

 

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Présentation du livre La nuova ragione del mondo” en Italie

Introduction

La nécessité des échanges et confrontations, l’importance de la circulation des idées et des analyses d’un pays à l’autre ne se font jamais autant sentir que dans des périodes de crise comme nous en connaissons aujourd’hui. C’est pourquoi je me réjouis de cette traduction, de ces échanges autour de ce livre écrit avec Pierre Dardot qui regrette beaucoup de ne pas avoir été en mesure de venir.

Je voudrais un peu vous décrire ce qui nous a motivé Pierre Dardot et moi-même à l’écrire et à le publier en 2009. Ce sera le premier moment de mon exposé. Puis j’essaierai non pas de résumer un livre de près de 500 pages mais d’indiquer des points importants dans ce que nous avons voulu montrer dans ce livre qui est un ouvrage savant comme on dit ou « académique » mais qui se veut aussi un livre utile pour décrypter la situation sociale et politique et donc aussi utile pour lutter contre un certain type de politiques que l’on appelle à juste titre des « politiques néolibérales ». C’est donc un ouvrage qui assume sa double nature, son double statut de livre savant et de livre politique.

Nous sommes partis du double constat suivant:

- nous pensons savoir ce qu’était le néolibéralisme et en réalité nous ne savons pas exactement ce à quoi nous nous confrontions;

- résister efficacement, lutter contre une situation intolérable suppose non seulement de la force morale et des ressources subjectives, une bonne organisation et une bonne stratégie, mais aussi et surtout une intelligence collective de la situation, laquelle intelligence ne peut venir que par la mise en commun et la discussion d’analyses sérieuses, fouillées, scrupuleuses et pointilleuses.

C’est pourquoi nous avons voulu faire cette analyse du néolibéralisme, en le considérant comme un fait politique et social central du moment historique actuel. Un néolibéralisme dont nous voulons montrer ce qu’il y a de néo en lui, de nouveau en lui.

Notre hypothèse centrale est que nous avons affaire à ce que Michel Foucault a appelé une «rationalité» dans la façon de gouverner les individus, entendant par là une mise en cohérence de discours, de politiques, de formes de vie, de relations sociales et de subjectivités, une cohérence qui est propre à certaines phases de l’histoire. Cela ne remet aucune en question les grands analyses économiques ou sociologiques, auxquelles nous tenons, et à l’égard desquelles nous avons tous une dette, je pense en particulier aux analyses de Marx ou celles de Weber.

Cette analyse foucaldienne ou d’inspiration foucaldienne a pour registre et pour objet la façon de gouverner les gens, de les commander et de les orienter dans différents domaines, avec cette hypothèse qu’à chaque époque il y a une manière dominante de les gouverner, il y a une certaine forme de pouvoir qui l’emporte sur les autres. C’est cela la grande hypothèse de Foucault.

En restant très libre dans notre usage de Foucault, mais en lui empruntant cette hypothèse des types historiques de gouvernementalité, et en nous servant des analyses qu’il a produites dans un cours du Collège de France en 1979, nous avons voulu éclairer les trois ou quatre dernières décennies de ce que l’on appelle « néolibéralisme ».

Pourquoi aller chercher chez Foucault et dans un cours de 1979 des outils de lecture et d’interprétation des trente ou quarante dernières années de l’histoire mondiale ? C’est en effet assez curieux comme démarche.

Nous sommes revenus un peu en arrière pour essayer d’aller plus loin, si je puis dire, c’est-à-dire dépasser une certaine paralysie de l’analyse. C’est parce que les interprétations qui en étaient données dans les mouvements de gauche, les partis , les associations altermondialistes (ATTAC) ou les syndicats, nous semblaient partielles ou fausses, en tout cas sources d’illusions ou de confusions, qui pouvaient avoir des conséquences négatives sur le plan politique, que nous avons voulu renouveler, affiner et même amender certaines façons d’interpréter la nature du néolibéralisme.

Comprenons bien ce point il est important : notre motivation n’a pas été de faire l’histoire des sources du néolibéralisme, mais de faire un diagnostic de la situation présente à partir de la caractérisation du néolibéralisme. En effet, ne pas comprendre ce qu’est le néolibéralisme, c’est ne pas comprendre la situation dans laquelle nous sommes.

En fait, nous avons voulu combattre certaines erreurs et illusions qui nous semblaient dangereuses.

1) Une série d’illusions ou d’erreurs

J’en relèverai quatre ou cinq, ce qui permettra en premier lieu de situer un peu ce que nous avons essayé de corriger dans l’appréhension habituelle du néolibéralisme :

- La première erreur par exemple a consisté à croire que la crise économique, monétaire ou budgétaire, suffisait à lever l’hypothèque néolibérale. C’est ce que beaucoup ont cru en 2008. Stiglitz parlait de «fin du néolibéralisme» à cette époque et il n’était pas le seul. Tout notre livre montre que le néolibéralisme a une longue histoire, une grande cohérence et une consistance institutionnelle, c’est-à-dire des caractéristiques qui expliquent pourquoi le néolibéralisme ne s’est pas écroulé ni en 2008 ni depuis 2008, qu’il s’est même approfondi, radicalisé, étendu avec la crise de la dette publique qui a servi de prétexte et de levier pour accélérer la transformation de la société.

Notre livre qui a été publié pour la première fois au début de l’année 2009, explique pourquoi le néolibéralisme continue de plus belle depuis 2008. C’est un système qui a montré qu’il a sa logique propre, son inertie, et presque son automaticité. Il a sa propre logique, laquelle, d’un point de vue social est sans conteste entièrement négative et destructrice , mais qui pour être comprise doit être saisie, dans la positivité dans toute sa force, comme une rationalité spécifique, comme une manière de «faire société».

- La seconde erreur ou illusion, qui est liée à la première, que nous voulions combattre est celle qui, ne voyait justement dans le néolibéralisme qu’une «illusion», qu’une idéologie, qu’une doctrine économique fausse, archaïque. Or, à l’évidence le néolibéralisme n’est pas seulement une doctrine fausse, il est beaucoup plus qu’une idéologie mensongère, c’est un ensemble de pratiques et de normes qui ont été construites politiquement, institutionnellement, juridiquement. C’est une construction qui se donne bien sûr idéologiquement pour naturelle, qui voudrait parfois se donner comme une émanation de la nature humaine, mais qui n’est pas seulement cela. Le propre de l’idéologie consiste à naturaliser ce qui est politiquement construit.

- Cette illusion de l’illusion, si l’on peut dire, est liée à une idée très courante qui ne veut voir dans le néolibéralisme qu’une résurgence du libéralisme classique du XVIIIe siècle, sous son aspect le plus naturaliste et spontanéiste que l’on pense trouver chez Adam Smith par exemple. Dénoncer le néolibéralisme comme si nous avions affaire au «naturalisme» libéral du XVIIIe siècle, c’est se tromper d’époque et de cible. Croire que le néolibéralisme n’est qu’une rénovation de la doctrine de Smith c’est d’une façon paradoxale, accepter l’opération propre de l’idéologie qui est de masquer la construction juridico-politique que produisent les politiques néolibérales. Mais c’est surtout refuser de considérer ce qu’il y a de «néo» dans le néolibéralisme, de nouveau historiquement. C’est un peu comme si rien ne s’était passé au XXeme siècle. Le paradoxe de cette position qui ne voit dans le néolibéralisme que de l’archéolibéralisme, de l’ancien sous des couleurs rafraîchies, c’est le néolibéralisme historique, le véritable néolibéralisme s’est constitué à partir des années 1930 dans différents pays (Grande-Bretagne, France, Etats-Unis, Autriche, Allemagne) pour refonder le libéralisme sur de nouvelles bases. Le néolibéralisme est le fruit historique d’une multitude d’efforts d’ailleurs hétérogènes pour refonder un libéralisme classique qui avait manifestement échoué à établir la prospérité et la paix.

- Il y a une autre erreur d’appréhension qui consiste à penser que le néolibéralisme ne concerne que l’économie, ou même que la finance, ou la monnaie ou que la politique budgétaire; c’est-à-dire de penser que le néolibéralisme est une certaine sorte de «politique économique» et donc qu’il concerne avant tout les économistes. Il est évident que le néolibéralisme concerne l’économie, mais il ne concerne pas que l’économie. Thatcher avait une formule formidable qui introduit bien la thématique foucaldienne, à sa manière Thatcher était foucaldienne quand elle disait: «l’économie n’est qu’un moyen, l’objectif est de changer l’âme et le cœur». Ce qui signifie très exactement que l’économie, c’est-à-dire pour elle, le marché doit être compris comme un moyen de gouverner les individus, de changer même leur subjectivité. Le néolibéralisme pour nous concerne beaucoup plus encore la forme de société – c’est pourquoi nous parlons de «société néolibérale», – et même la forme de l’existence. C’est la manière de vivre, les rapports aux autres et même la façon dont nous représentons nous-mêmes qui est en question. Nous n’avons pas affaire seulement à une doctrine et à une politique économique, mais à un véritable projet de société qui est en train de se construire, et même à une certaine fabrication de l’homme. Donc pas une réalité économique au sens courant du terme, mais une réalité qui implique et engage tout l’humain.

- Enfin l’erreur de penser, qui a été très présente en France, que le néolibéralisme est un produit étranger à l’Europe, qu’il a été importé des Etats-Unis ou de Grande Bretagne. C’est l’erreur qui consiste à croire que le néolibéralisme est venu de l’extérieur de l’Europe continentale, qu’il est l’expression ou la traduction de la domination américaine ou anglo-américaine. C’est encore l’idée propagée par la plupart des sociaux-démocrates européens que la meilleure façon de s’en protéger est de «construire l’Europe». C’est là l’erreur la plus grave et disons-le, la tromperie la plus profonde, que la sociale-démocratie européenne est en train de payer cher, que les socialistes français par exemple sont en train de «payer cash».

Nous montrons tout à l’inverse que si l’on voulait trouver l’une des expressions les plus pures de ce qu’il y a de nouveau dans le néolibéralisme, c’est en Europe qu’on peut le trouver, et plus précisément dans la construction européenne. Au point que même aujourd’hui le FMI se rend compte des effets absolument désastreux, suicidaires, auto-destructeurs, des rigidités de la politique poursuivie par la Commission européenne avec le soutien vigilant des dirigeants allemands.

2-Ce qu’est le néolibéralisme

En nous appuyant donc de la façon la plus libre sur les analyses et les concepts du philosophe Michel Foucault, nous avons voulu montrer comment s’était historiquement élaborée et construite la norme néolibérale de gouvernement, la rationalité propre du néolibéralisme.

Le néolibéralisme se définit pour nous comme une forme d’intervention politique qui obéit à des normes, qui diffuse dans la société des normes. C’est ce que nous appelons une logique normative, en ce sens qu’elle impose des normes aussi bien aux gouvernants dans leur action qu’aux gouvernés, dans leurs pratiques sociales. Ce qu’il s’agit d’expliquer, c’est la prévalence de certaines normes de conduite indépendamment de l’adhésion des acteurs à ces normes et ceci au niveau des gouvernements comme des individus ordinaires. C’est à cette nécessité que répond précisément le concept de «rationalité» proposé par Michel Foucault : une rationalité n’est pas un système de représentations subjectives, elle est avant tout une manière d’ordonner de l’intérieur les pratiques, manière qui peut fort bien s’accompagner de systèmes de représentations très différents en fonction des nécessités du moment.

L’intervention du gouvernement doit être pensée comme un levier de la transformation de toute la société. Cette transformation consiste à étendre la logique du marché bien au-delà du marché économique stricto sensu, à l’étendre à toutes les sphères de l’existence humaine. Il s’agit désormais non plus d’arrêter la main de l’État comme dans le libéralisme classique mais d’étendre la main de l’État : non plus arrêter l’action du gouvernement, mais bien plutôt la démultiplier par voie de réticulation de façon à étendre la logique du marché à l’ensemble de la société.

Que faut-il entendre alors par «logique du marché»? La norme qui fait exister le marché est celle de la concurrence entre les unités de production que sont les «entreprises». L’extension de la logique du marché à tous les rapports sociaux implique par conséquent d’ériger la concurrence en norme sociale générale. Le néolibéralisme est une intervention générale, sans limite assignable qui vise à étendre par tous les moyens la logique de la concurrence au niveau mondial, national, régional, professionnel, et jusque dans l’intimité des rapports sociaux élémentaires et dans l’intériorité des subjectivités.

Mais à l’étendre non pas principalement par la persuasion idéologique, mais par la construction de situations de marché qui obligent les individus à se comporter d’une manière déterminée comme des individus en concurrence les uns avec les autres, comme des investisseurs, des calculateurs maximisateurs, des consommateurs. Le néolibéralisme vise à transformer les individus en «hommes économiques» ou plus précisément encore en hommes-entreprises, ou en individus identifiés à un capital («capital humain») en les plaçant dans des situations où chacun doit faire jouer son seul intérêt personnel dans un contexte de rivalité pour des «ressources rares» selon la formule des économistes. Et ceci par des moyens variés dont on ne comprend pas toujours le lien: le plus évident et le plus manifeste c’est bien entendu la remise directe au secteur privé de pans entiers des services publics, par l’extension de la sphère laissée à l’accumulation du capital privé. L’Etat au niveau national et mondial (on le voit bien avec le projet de traité transaltantique actuellement en train d’être négocié) organisent leur propre défection et leur propre subordination à la règle du marché. Mais cela va beaucoup plus loin car ce sont tous les rapports entre individus et institutions qui sont reconfigurés comme des rapports de clients à entreprises, comme des activités qui relèvent d’une logique de concurrence et de rentabilité, comme on le voit dans le domaine de la santé ou de l’éducation, y compris lorsqu’il s’agit encore du secteur public.

Le néolibéralisme apparaît alors essentiellement comme un projet de transformation de la société. Il vise à construire une société de marché avec des outils juridiques, institutionnels, politiques qu’il cherche à déterminer à chaque fois à partir des fins qu’il se propose.

L’Etat, dans ce dispositif ne laisse pas seulement la place au marché selon un mouvement de simple retrait. L’État réorganise activement les champs d’activité et d’existence selon la logique de marché. Il «construit des marchés» et se reconstruit lui-même comme un système d’action régulé par une logique de marché. L’État cherche à structurer la société en imposant un système de normes et des réformes institutionnelles, appelées « réformes structurelles » directement tirées du monde capitaliste. L’État se réorganise, se refonde et se réinstitue lui-même selon cette même logique de marché. Il ne recule pas devant une force du dehors qui lui serait étrangère, il se plie lui-même à la norme de la concurrence qu’il produit et prend de lui-même modèle en toutes choses sur l’Entreprise. C’est particulièrement manifeste dans le domaine de l’éducation ou de la santé. L’Entreprise est devenue un modèle universel et la tâche pratique des politiques néolibérales consiste à faire entrer les institutions existantes dans ce moule unique.

Le néolibéralisme, c’est un ensemble de phénomènes et de tendances qui sont le produit de politiques délibérées obéissant à une logique de la concurrence et au modèle de l’entreprise. Avec pour conséquence la mise en concurrence de tous les pays dans la mondialisation, avec pour effet la domination de la finance de marché, avec pour processus social l’extension de la subjectivation capitaliste généralisée à travers la dette privée et pour autre conséquence la paupérisation et la croissance des inégalités.

Le néolibéralisme c’est donc l’extension de la logique du capitalisme à l’ensemble des autres sphères de la société, et en ceci il nous apprend beaucoup sur la façon dont il faut concevoir le capitalisme lui-même comme type de rapport social, et ce que le capitalisme doit à l’armature juridico-politique qui permet son extension, comme d’ailleurs ce qu’il doit aux types de subjectivité qu’il réclame pour fonctionner.

Le capitalisme ne croît pas seulement parce qu’il gagne des territoires nouveaux, se soumet des populations de plus en plus nombreuses, transforme en marchandises tous les fruits de l’activité humaine. Assurément, c’est là la voie classique de l’accumulation capitaliste telle qu’elle a été analysée par Marx. Mais le capitalisme croît également par une autre voie, qui, pour être le plus souvent inaperçue, n’en est pas moins puissante : celle de la diffusion sociale d’un système de normes d’action. En ceci comme nous le disons dans l’ouvrage, le néolibéralisme n’est rien d’autre que la raison du capitalisme étendue à toute la société, une raison qui est une raison d’Etat, qui est la raison d’Etat. Et quel est le nom aujourd’hui de la raison d’Etat néolibérale ? C’est la «compétitivité».

Pour résumer ce que nous entendons par néolibéralisme, dans la conclusion nous dégageons quatre caractéristiques qui spécifient le néolibéralisme dans sa nouveauté:

Premièrement, contrairement à ce que pensaient les économistes classiques, le marché constitue, non une donnée naturelle, mais une réalité construite qui requiert en tant que telle l’intervention active de l’État ainsi que la mise en place d’un système de droit spécifique. C’est un «projet constructiviste».

Deuxièmement, l’essence de l’ordre de marché dans la concurrence, définie elle-même comme relation d’inégalité entre différentes unités de production ou «entreprises». Construire le marché implique par conséquent de faire valoir la concurrence comme norme générale des pratiques économiques, comme une forme générale de relation et d’existence.

Troisièmement, ce qui est encore plus nouveau, c’est que l’État n’est pas simplement le gardien vigilant de ce cadre, il est lui-même soumis dans sa propre action à la norme de la concurrence. L’État est désormais tenu de se regarder lui-même comme une entreprise, tant dans son fonctionnement interne que dans sa relation aux autres États. Ainsi, l’État, auquel il revient de construire le marché, a en même temps à se construire selon les normes du marché.

Quatrièmement, l’exigence d’une universalisation de la norme de la concurrence excède largement les frontières de l’État, elle atteint directement jusqu’aux individus considérés dans le rapport qu’ils entretiennent avec eux-mêmes. L’État entrepreneur doit conduire indirectement les individus à se conduire eux-mêmes comme des entrepreneurs. L’entreprise est promue au rang de modèle de subjectivité. Chacun est conduit à se conduire comme un investisseur dans un capital qui doit croître. Le «toujours plus» du capital devient manière d’être, devient norme. Le capitalisme se fait monde, se fait anthropologie.

3)   Comment la logique néolibérale s’est-elle construite historiquement ?

Notre livre cherche à montrer comment s’est construite et imposée cette logique normative. Le néolibéralisme n’est pas une doctrine ni un ensemble de doctrines ce sont des normes qui se sont construites en réponse à des difficultés, des impasses, des contradictions, des luttes engendrées par d’autres manières de gouverner. Elles ont trouvé leur cohérence en amalgamant des éléments anciens et des orientations nouvelles, comme on le voit en Europe . C’est donc une histoire très complexe, qui ne se résume pas à une histoire des idées pas plus qu’à un complot, mais dont il faut essayer de comprendre néanmoins quels sont les ingrédients majeurs qui ont composé la rationalité néolibérale et dans quelles circonstances historiques cette logique a pu se mettre en place.

Je ne peux ici refaire en détail toute l’histoire.

Je retiendrai ici quelques moments importants:

- Le premier moment a lieu durant les années 30. Un certain nombre d’auteurs entendent refonder intellectuellement le libéralisme, face à une crise générale du modèle capitaliste de l’époque. Ils produisent à la fois un argumentaire renouvelé pour défendre le capitalisme face aux totalitarismes mais ils développent aussi des idées nouvelles en particulier l’idée selon laquelle le marché est une création institutionnelle. On y trouve des théoriciens allemands comme les ordolibéraux qui ont joué un rôle fondamental. On y trouve aussi des auteurs comme Hayek, qui développent l’idée selon laquelle l’ordre de marché suppose des règles intangibles, inaccessibles aux revendications populaires. Dans cette refondation des années 30 la mission impartie à l’État va bien au-delà du traditionnel rôle du «veilleur de nuit», elle est de mettre en place l’«ordre-cadre» à partir de ce principe «constituant» de la concurrence, de «superviser le cadre général» et de veiller à son respect par tous les agents économiques.

- Le deuxième moment est celui de la construction européenne qui est pour l’essentiel issu d’un compromis entre Allemands et Français, auquel se sont ralliés les responsables des autres pays fondateurs. Les premiers veulent établir une «économie sociale de marché» selon les préceptes des ordolibéraux soit exactement une économie de marché encadrée et protégée par des cadres juridiques et institutionnels stricts, des règles stables qui sont de trois types :

Le principe de la concurrence

Le principe de la stabilité monétaire

Le principe de la neutralité budgétaire

Les Français sont plus partagés. Certains adhèrent à ce modèle, que l’on peut appeler disciplinaire, d’autres voudraient développer des politiques de coopération et de solidarité plus actives. Ce partage est visible dès les années 1950 et on le voit encore jouer aujourd’hui. Mais comme nous le montrons la construction européenne s’est de plus en plus faite sur les bases de l’ordolibéralisme allemand.

On peut dire sans aucune hésitation que l’on ne comprend rien à la crise actuelle que connaît l’Europe sans avoir en tête ce qu’est «l’ordolibéralisme». Cette forme de néolibéralisme a pour principe que l’ordre politique de l’État de droit ne peut reposer que sur un ordre de marché assurant la «souveraineté du consommateur», un ordre qui lui-même ne peut être établi que par la constitution. Il se traduit donc par la constitutionnalisation de la «concurrence libre et non faussée» et par l’indépendance de la banque centrale. Nous vivons non pas l’inachèvement du modèle ordolibéral, comme le prétendent les dirigeants européens qui voudraient maintenant constitutionnaliser la politique budgétaire des États membres, mais ses contradictions et ses impasses.

- Le troisième moment c’est la crise économique et sociale des années 1970. qui fait dire à des auteurs de la Trilatérale en 1975, dans un rapport très important The Crisis of Democracy , que les sociétés occidentales sont devenues économiquement et socialement ingouvernables du fait de «l’excès de démocratie», à cause des revendications égalitaires et de la plus grande participation politique. Ces auteurs Crozier, Huntington et Watanuki écrivaient que les gouvernements ne pouvaient exercer leur pouvoir qu’«avec un certain degré d’apathie et de non-participation de certains individus et de certains groupes». Ils ajoutaient «qu’il y a une limite désirable à l’extension de la démocratie».

L’offensive néolibérale à laquelle on assiste alors, avec Reagan et Thatcher, vise à limiter la démocratie, à écraser les syndicats qui ne jouent pas le jeu, à enfermer la société dans des disciplines monétaires et budgétaires, à développer la concurrence qui sont des moyens de gouverner obliques et indirects pour isoler, individualiser, et contraindre les individus à renoncer à l’action collective et à la participation démocratique. Le marché généralisé est le moyen de discipliner la société et de changer les individus.

Le déploiement pratique du néolibéralisme c’est donc une réponse qui vise à gouverner avec le moins de participation populaire possible, et à restaurer les conditions optimales d’accumulation du capital, mises à mal par le haut degré atteint alors de conflit social et de contestation. Le néolibéralisme apparaît alors ouvertement comme un moyen de contre-révolution démocratique. Et c’est le Chili de Pinochet qui en est le laboratoire pour le monde entier, qui en constitue le modèle d’application le plus complet. Le marché est expérimenté en tant que tel comme un moyen de pouvoir et de dissolution de l’action collective et de la participation démocratique.

- Le quatrième moment, c’est celui que nous vivons. Le néolibéralisme était une réponse à une crise de gouvernement, et c’est maintenant le néolibéralisme qui tout en n’apparaissant plus du tout en mesure de répondre à toute une série de questions (crise sociale, menaces financières, crise écologique, etc) est en même temps capable de se déployer et de s’imposer de la façon la plus brutale. C’est un moment inédit de mimimum de pertinence et de maximum de force. C’est un moment de contradiction explosive.

Au début en 2008, il était question de sortir du néolibéralisme en «moralisant» et «régulant» le capitalisme. Puis, assez vite, s’est imposée l’idée parmi les classes dirigeantes qu’il convenait d’utiliser la crise comme justification d’une radicalisation des politiques néolibérales. Elles ont lancé un appel à déréglementer plus encore, à remettre en cause un certain nombre d’acquis sociaux, en Europe tout particulièrement, mais plus généralement à l’échelle du monde. Il y a là un effet d’auto-entraînement des politiques néolibérales à la faveur de la crise. Ce n’est pas du tout une volonté conspirative, ils ne se sont pas dit «on va utiliser la crise pour...», mais, néanmoins, pris dans la logique qui était la leur, ils se sont dit «il faut continuer, il faut continuer de plus belle maintenant», parce qu’on a versé aux banques des sommes considérables, il faut que les salariés et les contribuables payent. Comment? En utilisant les mêmes recettes, en se servant plus que jamais de la concurrence, de la monnaie et du budget comme des instruments de disciplines sociales, comme des leviers de transformation sociale vers la société de marché. Toujours plus de concurrence, donc toujours plus de nécessité d’être «compétitifs» en réduisant les acquis sociaux et en réformant les marchés du travail, en diminuant les salaires toujours plus de stabilité monétaire et toujours plus de disciplines budgétaires.

La crise est devenue alors un formidable moyen de normaliser les sociétés par le moyen des «réformes structurelles» imposés par des technocrates, par les «men in black» de la Troïka, c’est-à-dire d’opérer des transformations des services publics au nom de la rationalité économique, d’opérer des privatisations massives dans les pays qui n’avaient pas encore mené complètement ce type de politiques, de remarchandiser la relation entre salariés et employeurs. La crise est une façon de «rattraper le retard», c’est du moins comme cela que les dirigeants européens surtout l’entendent. Il s’agit de profiter du choc économique pour renforcer l’armature disciplinaire sur le plan économique et social. Comme toujours avec le néolibéralisme, c’est une manière de gouverner obliquement au nom de l’adaptation à des situations que l’on a en réalité construites ou lassées se développer. C’est ainsi que l’on se sert des marchés financiers comme de leviers disciplinaires, comme des pouvoirs normatifs suprêmes.

Il suffit de constater comment on a utilisé les agences de notation. Dans la première phase de la crise, il était question de les mettre au pas, en faisant de sorte de leur imposer des normes qui ne sont pas uniquement définies par elles seules. En réalité, c’est exactement l’inverse qui s’est passé, c’est-à-dire qu’on a fini par magnifier leur pouvoir, par le grandir, par en faire les émettrices de jugements divins, pour mieux justifier l’injustifiable. La discipline budgétaire se trouve légitimée par l’invocation de la puissance de ces autorités financières et la puissance financière se trouve légitimée par le besoin des Etats d’emprunter.

Ce qui a suivi le déclenchement de la crise, non seulement a donné raison à nos analyses parce qu’«on n’en a pas fini avec le néolibéralisme» selon la première phrase de l’introduction, mais parce qu’à certains égards, c’est l’axe fondamental de la politique néolibérale à l’échelle mondiale qui s’est trouvée renforcé. Non pas que cette politique soit plus légitime qu’avant, mais au sens qu’elle continue de plus belle exactement dans la même direction parce que ses partisans croient ou plutôt ne peuvent penser qu’une seule chose, dans leur enfermement, leur auto-enfermement: à savoir que le néolibéralisme est son propre remède, qu’il est le remède aux conséquences désastreuses qu’il a lui-même engendrées. Les néolibéraux sont prisonniers des règles qu’ils ont eux-mêmes établies. Il faut les en délivrer et seule la société autonome en est capable en menant jusqu’au bout la révolution démocratique qu’elle a commencée.

Conclusion

On aura compris ce que nous voulons dire dans ce livre. Ce ne sont donc pas seulement des théories fausses qu’il faut combattre, ce ne sont pas seulement des conduites immorales qu’il faut dénoncer, c’est bien sûr tout cela, mais c’est surtout un cadre normatif qu’il faut démanteler pour le remplacer par un autre. Tel est l’enjeu des luttes sociales et politiques actuelles, lesquelles décideront de la prolongation, voire de la radicalisation, de la logique néolibérale.

La renaissance de la démocratie est centrale, et c’est encore une fois la réponse que le mouvement social peut apporter qui sera décisive. Soit insurrection démocratique soit régression généralisée de la démocratie et montée du nationalisme xénophobe, plus ou moins fascisant. C’est l’alternative politique.

L’actualité la plus récente en Europe montre à quel point la démocratie est à l’agonie. Les signes de «sortie de la démocratie» ne sont plus inquiétants, ils sont terrifiants. Cette sortie s’opère par plusieurs voies qui se complètent et font système. Xénophobie anti-immigrée, nationalisme, pouvoir policier, violence managériale, chantage des organismes financiers: il y a conjonction de facteurs pour faire sortir nos sociétés de la démocratie. Mais en même temps, la révolution démocratique, la très vielle révolution démocratique, et je reprends ici un mot du libéral Tocqueville, a repris son cours.

Personne ne peut dire si elle gagnera contre la forme moderne du pouvoir despotique. Il y a des conditions que nous devons remplir et qui pour l’instant font la faiblesse de la résistance. Le néolibéralisme est durablement implanté, il sera long à éradiquer et à remplacer. Or il n’est pas simple d’institutionnaliser l’autonomie du mouvement démocratique, condition de sa durée dans le temps.

Le néolibéralisme est transversal en ceci qu’il touche tous les secteurs, toutes les activités, toutes les relations sociales Il faut donc constituer des coordinations durables entre les secteurs de la société et des liens entre les univers professionnels.

Enfin, le néolibéralisme est international, il constitue un internationalisme pratique face auquel nous opposons des résistances nationales non coordonnées dans le temps. L’heure me semble plus que jamais à la création d’un mouvement démocratique et social européen et évidemment mondial mais déjà européen. C’était déjà, il y a plus de dix ans, l’ambition du sociologue Pierre Bourdieu, elle est toujours actuelle.

Pour cela il faut réinventer la démocratie, refonder une pensée révolutionnaire, recréer une conceptualisation. Le défi est immense, mais la tâche à laquelle nous sommes convoqués est exaltante.