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Teoria - e prassi - critica

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di GIANLUCA POZZONI

Nel 1992, commentando le allora rampanti tesi sulla presunta “fine della Storia” determinata dall'affermarsi del libero mercato su scala globale, Perry Anderson ipotizzava i possibili sviluppi con cui il socialismo – tradizionale alternativa al sistema economico capitalistico – sarebbe potuto tornare a dimostrare che la Storia era in realtà lontana dall'essere giunta a conclusione. Per Anderson era senz'altro possibile che le esperienze del socialismo realizzato appaiano agli occhi degli storici futuri come una mera parentesi che non ha di fatto turbato il corso lineare degli eventi. Ma era nondimeno possibile che questa stessa agenda politica venisse in futuro interamente riabilitata per l'ineguagliata attualità della sua critica all'ordine sociale esistente. Una terza possibilità è che dalle ceneri del socialismo prenda vita una tradizione politica nuova ma epigonale, allo stesso modo in cui si può dire della Rivoluzione francese che abbia aperto la strada, quasi un secolo dopo, all'esperienza Comune di Parigi. Infine, ed è la quarta possibilità, una nuova ideologia potrà riprendere le originarie istanze egualitarie e di giustizia sociale del socialismo mutandone tuttavia profondamente l'armamentario ideologico e politico, così come il liberalismo religioso della Guerra civile inglese riecheggiava nella Rivoluzione francese in una versione radicalmente secolarizzata e anzi tendenzialmente anticlericale.

Per Razmig Keucheyan, sociologo delle idee alla Sorbona di Parigi, l'ipotesi più verosimile a vent'anni di distanza dalla profezia di Anderson è proprio quella che l'epoca in cui viviamo, dopo il crollo del socialismo reale e la crisi dei vari movimenti antagonisti e di liberazione, sia paragonabile a quei cento anni e più che separarono la Rivoluzione inglese da quella francese. Il suo ultimo libro, Hemisphère Gauche (Emisfero sinistro), appena pubblicato in edizione inglese e spagnola, parte proprio da questo presupposto per costruire una mappa dello stato dell'arte del pensiero critico attuale e cercare di delinearne i possibili sviluppi futuri. Una mappa, quella di Keucheyan, che abbraccia quelle teorie filosofiche, politiche e sociologiche elaborate negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino e che ambiscono non ad una mera analisi di questo o quell'aspetto della realtà storico-sociale quanto piuttosto ad una critica della modernità nel suo insieme.

Tale ricostruzione muove dalla considerazione che la mutata geografia del pensiero critico contemporaneo – che per la prima volta si apre ad aree come quella orientale (specialmente indiana) e africana, e più in generale ai paesi postcoloniali – richieda un aggiornamento della sua rappresentazione cartografica, fino a pochissimi decenni fa necessariamente limitata al settore accademico euroamericano. La mappa che propone Keucheyan si svolge su diverse coordinate trasversali l'una all'altra. Una prima coordinata è quella che individua delle categorie “idealtipiche” in cui catalogare i differenti approcci dei singoli pensatori in risposta alla crisi di pensiero apertasi negli anni '70, classificandoli a seconda dei casi come “convertiti”, “pessimisti”, “resistenti”, “innovatori”, “leader” o “esperti”.

Alla categoria dei “convertiti” appartengono non solo gli intellettuali che in conseguenza di una mutata congiuntura politica hanno abbandonato qualunque attitudine critica, come i nouveaux philosophes francesi o il nostro Lucio Colletti (passato nel giro di pochi anni da Trotskij a Berlusconi), ma anche coloro che hanno seguito una corrente opposta, come Bourdieu e Derrida, sostanzialmente disimpegnati negli anni di maggiore fermento politico ma radicalizzatisi negli anni '90 del neoliberismo imperante. Ai “pessimisti” appartengono invece coloro che, pur mantenendo intatto il proprio radicalismo, hanno uno sguardo sostanzialmente disincantato sulla possibilità di un miglioramento della società, incarnando così la massima gramsciana su ottimismo della volontà e pessimismo della ragione. L'esempio più eclatante è probabilmente quello di Adorno, con il suo sguardo critico ma disilluso sulla “gabbia d'acciaio” cui la razionalità occidentale sembra avviata.

I “resistenti” sono invece coloro che rifiutano di mutare posizione in base al mutare delle condizioni storiche, di cui lo stile militante di Chomsky è l'esempio perfetto. Diversamente, si possono definire “innovatori” coloro che tendono a ibridare il proprio retroterra teorico, generalmente marxista o post-marxista, contaminandolo con altre tradizioni filosofico-politiche. La rilettura di Marx alla luce della psicanalisi lacaniana da parte di Žižek o la fusione del pensiero di Marx, Deleuze e Foucault che accompagna la più recente produzione di Toni Negri ben illustrano la categoria. Più concretamente, possono invece essere classificati come “leader” quegli intellettuali che, sebbene si distinguano anche sul piano teorico, ricoprono allo stesso tempo incarichi politici all'interno di partiti o movimenti, come era stato per Edward Said, capostipite del pensiero postcoloniale e allo stesso tempo membro della Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Infine, come “esperti”, o meglio, “contro-esperti”, si intendono i propugnatori di una critica al mainstream di un determinato ambito disciplinare, come fece Foucault negli anni '70 con le sue controinchieste sulla condizione carceraria.

Per quanto riguarda invece propriamente le teorie critiche contemporanee, Keucheyan distingue due sostanziali aspetti su cui esse tendono ad essere focalizzate. Il primo è l'analisi globale del sistema (economico, politico, culturale) volta a decifrarne meccanismi interni e potenziali contraddizioni; il secondo è invece il tentativo di individuare i soggetti collettivi che queste contraddizioni incarnano e manifestano conflittualmente. Sotto il primo aspetto, quello del “sistema”, vengono quindi rubricate le teorie che vedono nel fenomeno ambiguo della “globalizzazione” un superamento da parte del capitalismo globale delle vecchie sovranità nazionali (come nelle tesi esposte in Impero di Negri e Hardt) o, viceversa, il persistere di tradizionali dinamiche imperialistiche come quelle che hanno definito il “secolo americano”, oppure ancora trasferimenti di egemonia economico-politica, ad esempio dagli Stati Uniti all'emergente potenza cinese. Sull'aspetto della “soggettività” si concentrano invece non solo le teorie post-marxiste o neo-marxiste incentrate sull'analisi di classe, ma anche quelle post-femministe, volte a ridefinire e destabilizzare le tradizionali distinzioni di genere, e infine il postcolonialismo e in generale quelle teorie che intendono decostruire le tradizionali classificazioni di “identità”, politica o razziale. È su questo aspetto che si possono rilevare innovazioni interessanti, con il contributo apportato dalle nuove ondate delle teorie di genere e dalle più recenti teorizzazioni su multiculturalismo e identità “ibride” (rappresentativo in questo senso è il pensiero del camerunense Achille Mbembe).

Il quadro generale che emerge dalla cartografia di Keucheyan è quello di una costellazione di teorie critiche effettivamente “nuove” sotto molti aspetti. Il primo, come già accennato, è la loro apertura al mondo esterno tanto alle università nordamericane ed europee quanto all'ambito accademico tout court, con una maggiore attenzione rivolta alle elaborazioni teoriche da parte dei movimenti sociali reali. Il secondo è una prolifica reinterpretazione e applicazione in forma innovativa di concetti tradizionali (come la categoria gramsciana di “egemonia”, utilizzata nell'analisi delle relazioni internazionali ma anche delle dinamiche di decolonizzazione e ristrutturazione neoliberale in atto ad esempio America Latina), unita ad un eclettismo che ha trovato ispirazione, sia in positivo che in negativo, nel confronto con il pensiero liberale e persino con quello religioso. Vi sono infine elementi più propriamente sociologici, che vedono la produzione teorica in un processo di necessaria risintonizzazione con le mutate condizioni storiche in cui essa si trova ad operare.

Per tutte queste ragioni, osserva Keucheyan, se di renaissance del pensiero critico nel mondo post-1989 si può parlare, è tuttavia necessario che esso affronti alcune questioni di pressante attualità se ci si deve aspettare che esso si concretizzi in una “Rivoluzione francese”. L'urgenza della questione ecologica, ad esempio, o la problematizzazione delle istanze politico-sociali delle varie “periferie” del mondo moderno, non possono certamente essere eluse con troppa facilità. Ma soprattutto, ed è certamente l'aspetto più rilevante e problematico al tempo stesso, tutta questa produzione critica deve tradursi in ispirazione per l'azione politica se intende superare lo scollamento tra “teoria” e “prassi” che ha contribuito alla sconfitta del pensiero radicale sul finire degli anni '70. La sfida, sul piano del superamento teorico delle sconfitte politiche e ideologiche, sembra essere del tutto aperta e di cruciale rilevanza, ed è verosimilmente che su questo piano si giocherà il destino dell'elaborazione di un'alternativa reale. Per concludere con la frase del già citato Perry Anderson posta in esergo al libro di Keucheyan, “la sconfitta è un'esperienza dura da padroneggiare, e la tentazione è sempre quella di sublimarla”.