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La leggerezza sovversiva dell’affettività

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di ANNA CURCIO

Era l’inizio degli anni Novanta quando tra incredulità e fascinazione ho infilato il guanto e la maschera per l’interazione in un ambiente di realtà virtuale. “Meglio di un acido”, ricordo di aver pensato mentre mi addentravo nell’esplorazione di quel mondo, così artificiale perché mediato dall’ingombrante strumentazione che indossavo, ma al contempo così reale per le sensazioni che lasciava. È lì, forse, che per la prima volta ho messo a fuoco il rapporto tra reale e virtuale, spingendomi incuriosita alla sperimentazione, sensoriale e non solo, delle tecnologie digitali. Ma mai avrei immaginato che quello che, appena vent’enne, stavo vivendo come la mia esperienza del cyborg sarebbe rapidamente diventata ordinaria quotidianità. Per capirci - e per contestualizzare - in quegli anni Internet non girava ancora e le prime BBS avevano appena cominciato a stregarci. Analogamente, qualche anno prima, quando avevo visto Blade Runner non avrei mai immaginato che quello spazio urbano costellato da megaschermi sarebbe  potuto appartenere al mio presente, salvo poi, più di recente, trovarmi a fare i conti con una Pechino che osserva il suo tramonto attraverso un maxischermo. Insomma, come il cyberpunk aveva largamente anticipato, la fantascienza si è nel frattempo fatta realtà, aprendo scenari inediti del nostro essere e stare nel mondo. Ed è questo, forse, il sottotesto di Her: il futuro che è già presente.

La storia che Spike Jonze costruisce non è infatti così estranea o lontana da noi – si pensi ad esempio ai google glasses che richiamano nettamente l’auricolare con cui nel film sono gestiti sistemi operativi efficientissimi che aiutano lo svolgimento di pratiche quotidiane, dallo smaltire la email all’ingresso nelle chatroom. Ed è una Los Angeles futuristica ma non troppo, a metà strada appunto tra Blade Runner e la Pechino contemporanea, quella in cui si muovono Theodor e Samantha, i due protagonisti. Lui è un ingrigito lavoratore cognitivo sensibile e visibilmente annoiato, con una relazione importante alle spalle e come amico il piccolo alieno di una realtà virtuale – ormai accessibile, senza ingombranti marchingegni, direttamente nell’appartamento di Theodor; lei è un audace sistema operativo d’ultima generazione, dal nome e la voce alquanto sexy, capace di autosvilupparsi e provare emozioni.

La storia d’amore tra i due che il film mette in scena ci parla evidentemente di affetti e relazioni al tempo del capitalismo cognitivo e della rete. E apre scenari solo in parte battuti che ci interrogano sulla possibilità di trasformare radicalmente relazioni sociali e rapporti di potere, sperimentando nuove forme di affettività e relazionalità.

Dove il capitalismo ha messo a valore le più intime abilità umane, gli affetti appunto, il linguaggio, le emozioni, il film dischiude nuovi spazi di possibilità. Un inconsueto terreno relazionale dove amore e amicizia, cura di sé e degli altri, solitudine e vicinanza assumono significati inediti e si declinano dentro coordinate che sono ignote, tutte da esplorare, con i rischi del caso di quando ci si addentra in territori non battuti. Un salvifico ed emozionate moto di gioia, gioia dell’ignoto, della sperimentazione, del rischio, capace di rompere l’isolamento e l’anomia, che del film sono lo sfondo. È la riappropriazione del piacere come rovescio delle psicopatologie sociali del tempo. La leggerezza dell’innamoramento come interruzione del senso di inadeguatezza ai ruoli e alle norme sociali che danno forma al nostro disciplinamento.

In questo senso, il film è decisamente audace, perfino sovversivo a tratti. Le stesse istituzioni e norme sociali, che del capitalismo contemporaneo sono pilastro e corollario, vacillano, sotto i colpi di un mondo che cambia rapidamente. La profonda e romantica storia d’amore tra Theodor e Samantha ci parla anche della crisi conclamata della famiglia, delle forme tradizionali della relazione tra i sessi e di una forma dell’amore romantico carnale e materialissimo che prova ad eccedere il corpo, senza tuttavia superarlo. Allo stesso modo gelosia, senso del possesso e timore dell’abbandono, le note tristi dell’affettività, ritornano a ricordarci quanto ancora ci sia da fare. Mentre il rischio del ripiegamento intimistico, del ritagliarsi un cantuccio riparato all'ombra dello sviluppo anomico della società, resta un rischio sempre concreto.

Tuttavia il cyborg non è più utopia. Le tecnologie digitali, tutt’altro che mera estensione dell’umano ne sono, a tutti gli effetti, parte integrante, spazio per l’esercizio delle proprie passioni e sentimenti, amplificazione e proiezione di sé da e verso gli altri.

Non è, dunque, entusiasta tecnofila. Ciò che emerge tra le pieghe del film è piuttosto la profonda ambivalenza della rete sempre in bilico tra accettazione e sovversione, tra scelte individuali e potenza collettiva. E ciò ne fa un campo di tensione cruciale su cui si gioca oggi almeno una delle più importanti battaglie per trasformare lo stato di cose presente.