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All Coop Are Bastards

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di COMMONWARE

Con buona pace delle retoriche del “fare” e dell’appeal mediatico superiore all’imbolsito governo Letta e ai primi della classe di Monti, è difficile vedere nella squadra renziana una solidità e una durata all’altezza dei progetti di ristrutturazione del capitalismo italiano. Non è un caso che il Fonzie de noantri abbia ricevuto molti rifiuti eccellenti, anche mediaticamente (Guerra, Farinetti, Baricco, ossia quello che viene sbandierato come il “meglio” del capitalismo italiano tra manifattura di qualità, slow food e impresa culturale; e poi soprattutto Lucrezia Reichlin, senza parlare dell’affaire Barca). Il governo nasce così come combinazione asimmetrica tra la continuità delle politiche rigoriste della BCE e la domanda di riforme a favore dell’economia e dei ceti produttivi del capitalismo industriale, uscito abbastanza massacrato dalla crisi. Perché asimmetrico? Perché l’uomo forte è senza dubbio Pier Carlo Padoan, probabilmente anch’egli una seconda scelta, ma poco importa. Il macellaio dell’Argentina nel 2001 quando era al FMI, l’uomo del “fiscal compact e del dolore che dà risultati” (frase che Krugman commentò più o meno con “le botte continueranno fino a quando non faranno salire il morale”), è l’uomo della continuità con l’austerity e dell’espressione di quel partito dei mercati che ha eletto direttamente gli ultimi tre governi senza bisogno delle vestigia formali della consultazione elettorale (l’aspetto non è per noi così dirimente, ma è utile comunque a ricordarci che non abbiamo avuto alcun vuoto di governabilità negli ultimi tre anni). A scanso di equivoci, la Banca d’Italia si è già premurata di ricordare all’uomo di Goldrake che il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil non è in discussione, giusto per far capire chi è che porta i pantaloni.

In posizione subordinata, sia pure con ministeri importanti, ci sono uomini e donne che bene esprimono quel capitalismo “delle reti” (energia, grandi opere, grande distribuzione, assicurazioni, Expo, ecc.) che da tempo ha lanciato una Opa sui territori, fatto di dismissioni e svendite del patrimonio pubblico. Non sono le grandi banche, ma quel sistema “intermedio” che prospera su commesse pubbliche, appalti, settori a regolazione statale, privatizzazioni possibilmente con poca concorrenza di mercato. In teoria, sono settori che dipendono da una certa “capacità di spesa” – e quindi, da un allentamento dei vincoli europei – ma che appaiono parimenti interessati a gestire dismissioni e privatizzazioni. Insomma, con il beneplacito del Partito di Repubblica, probabilmente Renzi avrebbe preferito altri nomi e altri personaggi, più in linea con l’idea del “made in italy che ce la fa”, ma solo i gonzi possono credere ancora alla favoletta del rottamatore. Diciamolo chiaramente: dopo il fallimento di Bersani e lo tsunami M5S, Renzi appare ai soliti noti come l’ultima carta, quello che sul piano dell’immagine può giocarsela, a patto però che non pensi di comandare sul serio (per dirla tutta, le battute di Grillo nello streaming erano sacrosanta verità).

La squadra fonziana

Passiamo velocemente in rassegna uomini e donne nei ruoli chiave della nuova compagine di governo. Federica Guidi allo sviluppo economico, bolognese, famiglia industriale e molto berlusconiana, a capo del gruppo Ducati Energia (che ha tra i suoi maggiori clienti Poste Italiane, società multiutilities, Enel, Ferrovie, è un’azienda bolognese che in realtà produce quasi tutto all’estero); figlia di Gianalberto, uomo forte di Confindustria e collezionista di cariche. Dovrà affrontare una serie di dossier importanti, dallo scorporo della rete Telecom alla strategia energetica nazionale (a proposito di conflitto d’interessi) alle crisi aziendali. Giovane confindustriale, con tanta retorica del merito e delle energie rinnovabili, e ovviamente grande contiguità con gli ambienti dove si allocano risorse, si danno commesse, si distribuisce potere.

A fianco del suo alter ego Giuliano Poletti (su cui ci concentreremo più avanti), c’è poi Maurizio Lupi, alle Infrastrutture, che non ha bisogno di presentazioni e che soprattutto rappresenta la mano politica di Compagnia delle Opere: opere pubbliche, sussidiarietà, privatizzazioni senza mercato, e via di questo passo. L’Emilia incontra la Lombardia, insomma, in un consociativismo degli affari che alterna logiche spartitorie e sistema cooperativo, come l’ospedale Niguarda di Milano e l’agenzia di lavoro somministrato Obiettivo Lavoro.

Quanto al consociativismo politica-affari, che dire del giovane Maurizio Martina, ex segretario PD di Milano (il due di spade a briscola quando regna bastoni) e neoministro delle Politiche agricole, ma che manterrà il ruolo di coordinamento delle attività di Expo2015, luogo di sperimentazione reale del connubio tra Compagnia delle Opere, cooperative rosse e retoriche slowfoodiste e farinettiane? Insomma, per quanto seconde scelte, la compagine è molto meno raccogliticcia di quanto appaia ad un primo sguardo. Sotto la cupola intoccabile delle politiche rigoriste, assurge a ceto governativo un mondo a cavallo tra associazionismo economico e politica con una particolare vocazione al tema della privatizzazione all’italiana, dove il pubblico è uno dei veri motori dell’accumulazione privata.

Non va trascurato neppure il ruolo delle “giovani e belle” Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, e Marianna Madia, ministro della Semplificazione e della Pubblica Amministrazione. L’una è renziana doc, l’altra no, ma ha un giro di conoscenze e appoggi lungo come un elenco telefonico. Non saranno ministeri-chiave, ma sono meno marginali di quanto sembri. E chiaramente sono allineate al mandato di riduzione dei costi della politica e dello smantellamento soft dei corpi sociali intermedi e dei grumi di potere locale, uno dei veri mandati del governo Renzi. Non ci appassiona il tema dell’abolizione delle province, delle camere di commercio, dell’associazionismo economico. Ma è chiaro che la parziale disintermediazione tra mercato e soggetti (imprese, ma anche singoli lavoratori), è uno dei passaggi cruciali del processo di divorzio tra mercato e democrazia in fase di avanzata formalizzazione. Nella visione di questo governo, si tratta di un passaggio “dolce” ma inevitabile. L’attacco al lavoro pubblico è pronto: probabilmente non avverrà frontalmente e per tutte le categorie, né verosimilmente prevede licenziamenti di massa, ma sulla sua realizzazione vi sono pochi dubbi.

Last but not least: diversi ministri (Federica Guidi, non a caso pompata dai giornali vicini al cavaliere, Andrea Orlando alla giustizia, presumibilmente lo stesso Lupi), sono molto graditi o perlomeno non sgraditi a Berlusconi. Non possiamo prevedere quale sarà la durata del governo Renzi, ma all’orizzonte si sta profilando una più o meno “grossa coalizione”. Ad oggi, Forza Italia compare a pieno titolo come socio esterno, senza una partecipazione diretta al consiglio di amministrazione, ma con un pacchetto di azioni niente male.

Il ministro dello sfruttamento cooperativo

E veniamo a Giuliano Poletti al Lavoro, per noi una vecchia conoscenza. È da lungo tempo al vertice di Legacoop, che da dieci mesi è controparte diretta nella lotta dei 51 facchini licenziati dalla cooperativa Sgb – che lavora in subappalto per Granarolo e Cogefrin – dopo un sciopero indetto per migliorare le proprie condizioni di lavoro. Come Guidi è romagnolo, di Imola; ha scalato il sistema Legacoop arrivando al vertice anche di Alleanza Cooperativa Italiana, il raggruppamento tra Lega e Confindustria che punta ad una rappresentanza unitaria del sistema cooperativo. A parte la retorica del mutualismo e delle origini risalenti ai probi pionieri di Rochdale, Legacoop è oggi una oligarchia con al vertice il gruppo Unipol-Sai; un ristretto nucleo di grandi general contractor di costruzioni di opere più o meno pubbliche, ma quasi sempre dipendenti da denaro pubblico, sono Coopsette, CMC, Unieco, CCC, CDC, CMB, Ravennate e altre, tutte emiliane. Vi sono alcuni colossi dei servizi dequalificati ribattezzati di “facility management”, come Manutencoop e Coopservice, entrambe emiliane, o la fiorentina Cooplat, tutti raggruppati nel Consorzio Nazionale Servizi qualora debbano acquisire commesse nazionali, poi di fatto subappaltate ai soci minori e locali del Consorzio, tra cui non poche cooperative sociali, più alcuni grandi imprese di conferimento (Granarolo e Conserve Italia, marchi Cirio e Valfrutta), e il peggio del vinicolo, quello che si trova però in tutti i supermercati. Si aggiunge un po’ di ristorazione collettiva, da Camst a Cir Food (emiliane, tanto per cambiare), e ovviamente la grande distribuzione, con il sistema delle Coop. È un coacervo di interessi a cavallo tra pubblico e privato, o meglio della dissoluzione dei suoi confini. Poletti è uomo di “sussidiarietà” (ovvero, per l’outsourcing del pubblico), ma anche adeguato portavoce delle imprese, soprattutto di quelle clienti dello Stato.

La sua nomina è di quelle notizie che fanno tornare in mente Macbeth: “non ho mai visto una giornata così brutta e così bella allo stesso tempo”. Bella perché in qualche modo ci dà ragione nell’aver sostenuto fin dall’inizio che sulla lotta alla Granarolo si gioca una partita più complessiva rispetto a una semplice vertenza di settore, in quanto ha a che fare con l’organizzazione del lavoro nella crisi. È una verità che nelle scorse settimane si è delineata con una certa chiarezza, quando abbiamo visto la controparte, i media e le istituzioni (dal Sindaco di Bologna Virginio Merola alla Cgil) insistere compatte nell’additare questa lotta come una mera ancorché decisiva questione di ordine pubblico, che esigeva l’immediato ripristino della legalità. Proprio in quell’occasione lo stesso Poletti aveva dichiarato che scioperi e proteste devono andare di “pari passo con il rispetto del diritto dell’impresa di continuare a svolgere le sue attività”: insomma, una dichiarazione a dir poco anti-sindacale, perché nega nei fatti il diritto di scioperare, laddove per sciopero si intende la sacrosanta pratica dei lavoratori di interrompere l’attività produttiva. L’ovvia parte brutta della notizia sta invece nell’ormai evidente farsi modello del sistema di organizzazione e sfruttamento del lavoro attraverso le cooperative. Il sistema che ha permesso di spingere sull’acceleratore della deregolamentazione – visto che per statuto le cooperative non sono obbligate all’applicazione delle normative in materia – e che oggi garantisce la gestione di una buona fetta del lavoro precario.

Tutele progressive, autoimprenditorilità, terzo settore, volontariato: queste le parole chiave che emergono dalle prima dichiarazioni del neo-ministro del lavoro. Tradotte nel lessico renziano vogliono dire Jobs Act, ovvero più flessibilità (per le imprese) e meno diritti (per i lavoratori), il tutto in salsa workfarista. D’altra parte, il cosiddetto “modello emiliano” di gestione cooperativa del lavoro, di cui Poletti è un illustre rappresentante, dopo aver completamente cancellato anche solo il ricordo del ruolo mutualistico delle origini, ha da alcuni decenni mostrato il suo vero volto, quello di complesso sistema di affari e precarizzazione atto a governare la dismissione del welfare e la sua privatizzazione. È un modello che, dietro la retorica dell’efficienza e della coesione sociale, ha saputo mettere a valore le sue “specificità”, tra cui la mercificazione della solidarietà, riorganizzando radicalmente il lavoro. E non sorprende che Renzi e Poletti condividano un medesimo orientamento rispetto al lavoro. Emilia e Toscana, le due regioni storicamente “rosse”, hanno fatto del modello cooperativo uno dei principali veicoli di precarizzazione attorno a cui si muovono ingenti volumi di affari e, soprattutto, un intero sistema che, sull’asse Bologna-Firenze, ha negli anni consolidato un potente gruppo di interesse oggi al governo del paese. È un sistema che funziona intorno a una ragnatela di organico clientelismo presso le amministrazioni locali: per esempio, nessuna cooperativa sociale può avere incarichi o appalti senza essere cliente di PD-Legacoop. E, considerando che una cooperativa sociale di servizi non può che lavorare con un’amministrazione, chi non partecipa alla rete clientelare viene inesorabilmente privata di fondi. Ecco all’opera un complesso sistema paramafioso: o porti consenso sul piano del mercato elettorale ed entri nella “famiglia”, o sei fuori.

Cooperazione contro cooperative

Al ministero del lavoro la posta in palio è oggi decisamente alta: è infatti in gioco la riorganizzazione del lavoro al settimo anno di una crisi economica di cui non si vede la fine. Non si tratta di un modello post-austerity, come qualcuno vorrebbe, quanto invece di una sua rimodulazione in quella chiave di gestione flessibile del sociale in cui il sistema cooperativo si è specializzato. Attraverso l’esportazione del modello cooperativo, cioè, le imprese italiane cercano di raggiungere i loro obiettivi: allentamento dei vincoli di spesa e riduzione generalizzata del costo del lavoro (attraverso la riduzione del cuneo fiscale e dei salari reali), senza che ciò si traduca in conflitti generalizzati. Da questo punto di vista, Poletti è un uomo della “cogestione” azienda-lavoratori, delle “garanzie crescenti”, della flessibilità regolata, dei sacrifici condivisi, del dialogo con i sindacati (che nel modello cooperativo costituiscono un ganglio del blocco di potere dominante). Il problema è che la flessibilità non basta più proporla ai giovani, alle donne e ai migranti, ma va estesa al corpaccione del lavoro salariato, partendo appunto dal pubblico.

Quello a cui stiamo allora assistendo in questi giorni è dunque il palesarsi con chiarezza e precisione di alcune intuizioni che avevamo già registrato negli anni: il “comunismo del capitale” assume oggi anche il volto delle cooperative, in quanto sistema di estrazione del plusvalore dalla cooperazione sociale. D’altra parte lo stesso Poletti, insediatosi al Ministero, si è affrettato a dire di non parlare di cooperative “rosse”. Almeno su questo ha ragione, a patto di non dimenticare che quel sistema – che nella regione di origine si traduce in un compatto e articolato blocco di potere economico, politico e sociale – è compiutamente un blocco di sinistra. Ognuno dia a questa parola il significato che vuole: però nella dura materialità delle cose e non nel mondo delle idee, la sinistra reale oggi indica un nostro nemico.