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Imparare una nuova lingua

on .

di COMMONWARE

→ Português

“Thiers, questo nano mostruoso, ha affascinato la borghesia francese per quasi mezzo secolo, perché è l’espressione intellettuale più perfetta della sua corruzione di classe”. A parlare non è qualche rancoroso attivista del Movimento 5 stelle, ma Karl Marx; in ballo c’era una guerra civile, per nulla simulata, quella che portò alla Comune di Parigi e poi alla sua repressione. Insomma, di fronte alla puzza sotto il naso con cui si guarda ad alcune categorie vorremmo provare a tranquillizzare tutti: nella nostra patristica rivoluzionaria non mancano autorevoli esempi di insulti popolari e di utilizzo di ambigue parole come “corruzione”.

A scanso di equivoci, non stiamo sostenendo la validità di tutto ciò che è utile: è ad esempio senza se e senza ma il disprezzo per qualsiasi tipo di offesa sessista, figlio purtroppo non di una qualche accezione “populista” della politica, ma di un “popolo” formato dalla controrivoluzione sociale e dei comportamenti cominciata alla fine degli anni ’70. Ci fa quindi sorridere che a gridare allo scandalo sia una parte di quel popolo, quello anti-berlusconiano di sinistra, che fino a ieri inneggiava agli show di Sabina Guzzanti contro le presunte prestazioni sessuali delle ministre di centro-destra. Sui soldi alle banche, invece, la coerenza dei rappresentati di quel popolo è indubbia: li regalavano ieri, li continuano a regalare oggi. Il canto di “Bella ciao”, al di là di ogni facile ironia, dovrebbe far riflettere: quando le parole a cui siamo affezionati non corrispondono più al sentire comune che le ha prodotte, è ora di cambiare musica. Vi si può rimanere affezionati, è giusto non dimenticarle, scontato rivendicarne la continuità; ma ostinarsi a utilizzarle come se nulla fosse successo serve non a parlare, bensì a gratificare il nostro bisogno di identità in un contesto che non capiamo e che perciò ci sembra completamente ostile.

Ci sono fasi, infatti, in cui è necessario ripensare i propri vocabolari, imparare una nuova lingua, produrre lessici inediti. Non sono i geni individuali a determinare queste fasi, bensì le necessità imposte dalla composizione e dalla lotta di classe – anche quella condotta dai padroni. Ascoltiamo ancora Marx: “Così il principiante che ha imparato una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna, ma non riesce a possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando si muove in essa senza reminiscenze, e dimenticando in essa la propria lingua d’origine”. Ecco, la nostra ipotesi è che ci troviamo in una di queste fasi. E imparare una nuova lingua, cioè produrla in comune, è per noi difficile quanto dimenticare alcune reminiscenze della nostra lingua d’origine. Farlo, tuttavia, ci sembra oggi indispensabile.

In partibus infidelium

Se così è, corruzione è uno dei lemmi con cui dobbiamo confrontarci. Non ripetiamo le considerazioni che ci hanno portato ad aprire un dibattito su “spine e possibilità della lotta alla corruzione”. Ribadiamo solo il nodo centrale, a partire da cui segnaliamo l’urgenza della discussione politica: negli ultimi anni (in Italia a partire dall’Onda) registriamo una nostra incapacità a confrontarci con il tema della corruzione et similia. O ancora meglio: la nostra incapacità è direttamente proporzionale alla rilevanza che il tema ha avuto nei movimenti globali dentro la crisi. In Italia, le reazioni prevalenti tra i militanti, gli ambiti organizzati e gli studiosi radicali sono state di due tipi. Da un lato, si è negata la rilevanza del tema, riducendolo a semplice ideologia da decostruire o da attaccare sul piano retorico, ovvero sostituendolo con un’altra ideologia. Dall’altro, si è accuratamente smontato l’ordine del discorso sul piano concettuale, mostrandone la mistificazione: incentrare l’attenzione sui corrotti serve solo a nascondere i reali interessi di classe che sottendono quell’ordine del discorso, finendo quindi per salvare un sistema che produce esso stesso corruzione. Questa operazione apparentemente non fa una grinza, sembrerebbe anzi la bussola teorica con cui orientarsi.

Nel dibattito che abbiamo aperto sul tema, Marco Bascetta – ripercorrendo la storia del pensiero politico – ha impeccabilmente spiegato la natura fisiologica-naturalistica del termine corruzione, impiegato per salvaguardare un sistema da ciò che lo può far degenerare. La corruzione è un ordine, non la sua assenza; perciò non si dà lotta contro di essa che non sia al contempo lotta contro il potere costituito. Assumendo l’origine del termine, anzi, dovremmo lottare per la corruzione, in quanto disfacimento del sistema. Se volessimo fissare questo discorso come punto di partenza e di arrivo, il problema è ciò che sta in mezzo: nel nostro caso la materialità della crisi, delle concrete specificità territoriali, soprattutto delle soggettività. È su questo “medio raggio”, quello politicamente decisivo, che il discorso sconta i suoi maggiori limiti e alla fine gira a vuoto. Il problema, dunque, è come l’astrazione concettuale diviene determinata. Altrimenti i concetti smettono di essere arnesi per agire nella realtà per trasfigurarsi in categorie a priori, a cui la realtà deve essere continuamente ridotta.

Sul medio raggio, infatti, dalle insorgenze in Nord Africa alle acampadas spagnole, da Occupy alla Turchia, dal Brasile alla Bosnia-Erzegovina, il tema della corruzione è stato pur in forme diverse in primo piano nei movimenti e nel suo sentire comune. Raffaele Sciortino mette la questione in prospettiva storica, identificandone le peculiarità nel passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale. Tale prospettiva ci permette da un lato di sottrarre il tema alle retoriche anti-berlusconiane e della presunta anomalia assoluta del contesto italiano, dall’altro di individuarne le specificità, evitando dunque di ricadere in un’immagine liscia ed omogenea dello spazio globale. Possiamo così vedere il coacervo di istanze che si aggrovigliano nella lotta alla corruzione: frustrazione per i processi di declassamento, reazione istintiva e perfino disperata ai processi di finanziarizzazione e alle promesse tradite di progresso, paura di perdere i propri privilegi, desiderio di trovare soluzioni individuali laddove non si riescono a immaginare possibilità collettive. E al contempo, non possiamo non vedere le istanze di classe che, in modo confuso e magari mistificato, in quel groviglio si agitano.

Nel maneggiare con cura le spine della scivolosa questione, prestiamo molta attenzione a ciò da cui mettono in guardia le compagne e i compagni rispetto ad America Latina ed Europa dell’est, nei cosiddetti paesi “periferici” (definizione sempre più incerta e discutibile, al cui interno potremmo inserire l’Italia e i “piigs”). Hanno ragione nel fotografare la lotta alla corruzione “dall’alto”, interna cioè alle elite e per aumentare i livelli di spoliazione. Qui l’ordine del discorso contro i corrotti è immediatamente funzionale alla preservazione di un sistema in crisi, una sorta di ciclica epurazione attraverso cui la classe capitalista mantiene il suo dominio. Esiste però una lotta alla corruzione “dal basso”, certo non autonoma e anzi spesso intrecciata – lessicalmente e concretamente – a quella dall’alto. Il punto è: esiste un’eccedenza, tale da consentire una trasformazione o un vero e proprio sovvertimento della direzione di quella lotta? O per riprendere i termini proposti da Bascetta: è possibile che la lotta contro i corrotti possa trasformarsi in lotta per la corruzione del sistema, cioè per il disfacimento dell’ordine costituito? E per contro, come è possibile una lotta contro la corruzione sistemica che non passi attraverso la lotta contro i corrotti, trasformandola e curvandola in una direzione radicalmente differente? Abbiamo l’impressione che, per il carattere tendenzialmente permanente della crisi, nel momento in cui le “promesse” (peraltro spesso inquietanti) contenute nelle purghe dei corrotti e nelle retoriche meritocratiche non possono essere strutturalmente mantenute, si apre la possibilità di un rovesciamento, di un’eterogenesi dei fini: correndo continuamente il rischio di oliare la macchina, queste istanze possono invece finire per incepparla e romperla. Navigando sui confini incerti e pericolosi tra lotta contro la corruzione sistemica e i singoli corrotti (la cui chiarezza è definibile solo a un livello astratto), crediamo di essere qui vicini a quello che Adrià Rodríguez – sulla base del movimento spagnolo – chiama “giustizialismo tattico”. A questo aggiungiamo, sulla scorta del contributo di Gian Luca Pittavino e dell’esperienza del movimento No Tav, un elemento decisivo: questa imbrogliata matassa è tagliata continuamente da un forte bisogno di cooperazione, che possiamo forse chiamare un desiderio di comune. Qui si scioglie e si spacca la retorica dell’interesse generale (su cui poggia il discorso contro la corruzione “dall’alto”) e irrompe la parzialità degli interessi di classe.

Proprio la collocazione di classe del tema traccia allora confini che ne trasformano il significato. Nell’accusa rivolta ai “politici” da parte di ampi settori proletari e impoveriti prevale cioè la dimensione “sistemica” e non “individuale” della corruzione, proprio per una diffusa percezione dell’avvenuto ribaltamento dei rapporti tra economia, politica e società: “voi politici siete corrotti e ve ne fregate di chi lavora, paga le tasse e non arriva a fine mese, perché rispondete ai grandi poteri (finanza, banche, corporation, padroni dei media)”. Siamo qui molto distanti (senza che ciò preluda necessariamente a scenari luminosi) dalla critica anti-corruzione funzionale alla liquidazione di parti della classe politica, burocratica e amministrativa a favore di altre, o di una disintermediazione tout court tra economia e società, come avvenuto all’epoca di Tangentopoli.

D’altro canto, non è per nulla facile sbrogliare la matassa, separare concretamente e in modo netto gli interessi di classe dalla capacità di cattura e utilizzo della controparte. Forse, azzardiamo, il problema è sganciare la lotta contro la corruzione dalla magistratura, cioè sottrarla al terreno dalla legalità ed esercitarla autonomamente. In questa direzione si può arrivare a mettere in discussione il piano della decisione sull’utilizzo delle risorse e della ricchezza collettivamente prodotta. Consapevoli di tale azzardo, ripetiamo che quello della corruzione è un campo discorsivo che probabilmente non ci appartiene, ma su cui siamo obbligati a misurarci. Temiamo dunque di non avere altra scelta che muoverci nelle terre degli infedeli, perché quelle terre sono materialmente abitate dalle soggettività del lavoro vivo contemporaneo. E purtroppo le comunità dei santi e dei puri, certo più gratificanti, non ci faranno guadagnare il paradiso.

Per una nuova sostanza del discorso politico

Al primo ciclo di autoformazione di Commonware, Christian Marazzi leggeva la finanziarizzazione nei termini di uno sganciamento del denaro da ogni referente sostanziale. Dal momento in cui si è liberato dalla sostanza per distruggere la classe operaia, sostiene Marazzi, il capitale non ha però più avuto tregua, costruendo un sistema monetario che si è ripiegato su se stesso e rischia di implodere nella sua autoreferenzialità. Anche il nodo della corruzione si situa dentro questo processo di desostanzializzazione del valore. Abbiamo però l’impressione che il venire meno di quella specifica sostanza operaia (“la classe che si contrappone al capitale”, seguendo ancora Marazzi) ci abbia esposto al ricorrente rischio di una desostanzializzazione della teoria, cioè al riferimento dei soggetti di classe. Fatichiamo perciò a tenere insieme lettura della tendenza e costruzione dei rapporti di forza per realizzarla o rovesciarla. Sia chiaro: con buona pace di ricorrenti nostalgie paleo-operaiste, non si torna alla sostanza del rapporto tra operai e capitale, e sarebbe illusorio pensare che quella misura possa tornare a vivere altrove; non pensiamo nemmeno che si possa semplicemente trovare una nuova misura. Il problema della sostanza soggettiva, però, è qui davanti ai nostri occhi, a separare per esempio il discorso sul reddito dalla forza dei soggetti di classe. Senza quella forza si rischia di trasformare la tendenza in ciò che non vuole essere, cioè un tecnicismo depoliticizzato che si risolve nello spazio della mediazione istituzionale. È lo stesso problema che riscontriamo sul comune: senza una nuova sostanza di classe rischia di appiattirsi su una proposta gestionaria, continuamente schiacciata nella morsa del pubblico-privato.

Parlare delle spine e delle possibilità della lotta alla corruzione è quindi un modo per porre il problema dell’individuazione del nemico (come sta avvenendo in Bosnia-Erzegovina e nelle altre esperienze di conflitto prima menzionate); non solo affermando la generica necessità della rottura, ma ipotizzando dei punti concreti e soggettivamente praticabili. A questo punto sporcarsi le mani non basta più, la questione va posta in termini di un programma capace di fondarsi non su una teoria desostanzializzata e perciò autoreferenziale, bensì sulla nuova sostanza – per quanto spuria e confusa – delle istanze ed espressioni di classe, trasformandola e curvandola.

Abbiamo iniziato con un riferimento storico, concludiamo con un altro. Il 9 gennaio 1905 famiglie di operai e lavoratori di San Pietroburgo, guidate dal pope Gapon (capo di un sindacato zubatovista, ossia di regime, e che più tardi si sarebbe scoperto essere una spia della polizia politica), marciarono davanti al Palazzo d’Inverno per chiedere allo zar, padre della patria, di far fuori i suoi funzionari corrotti e ascoltare il popolo. Le truppe aprirono il fuoco, la giornata passò alla storia come la “domenica di sangue” e da lì inizio quella che dopo sarebbe stata ricordata come la prima rivoluzione russa. Retrospettivamente tutto pare semplice, perché sui libri di storia i soggetti sono sempre puri e i processi lineari. Per fortuna allora alcuni rivoluzionari non persero tempo a dare lezioni astratte, spiegando perché Gapon era un Casaleggio ante litteram e le rivendicazioni irrimediabilmente populiste. Si misero ad ascoltare, imparare e parlare una nuova lingua. E presto le sacre icone cedettero il posto ai soviet. È di questa nuova sostanza discorsiva, piantata nella sporca materialità del reale, che sentiamo un maledetto bisogno.