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Oltre i confini delle nuove geografie del potere

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di ANNA CURCIO

Capire il presente vuol dire rovesciare l’ottica parziale della tradizione europea, spiazzare il punto di vista e analizzare la pluralità delle forme di dominio e sfruttamento così come delle esperienze di lotta e insubordinazione che accompagnano la produzione capitalistica. È questa, in estrema sintesi, la proposta di La Cultura e il potere. Conversazione sui cultural studies (Meltemi 2007, pp.66, € 10), dialogo a due voci tra Stuart Hall, figura chiave del panorama intellettuale europeo degli ultimi cinquanta anni, e Miguel Mellino, attento interprete critico del dibattito postcoloniale in Italia. È un’agile introduzione ai Cultural Studies, che spazia tra i momenti più significativi dell’esperienza, gli aspetti controversi del dibattito, la diffusione oltre i confini geografici della Gran Bretagna e l’istituzionalizzazione del campo di studi, concentrandosi sui temi della razza, dell’etnicità e della diaspora.

Chi fa cultural studies, è noto, lavora sul nesso cultura-potere alla ricerca di «ciò che cambia», di «ciò che è storicamente specifico»; identifica, per dirla con Hall, «le differenze nella continuità» e l’ambivalenza dei processi. Analogamente, di ambivalenze, discontinuità e pluralità di esperienze è fatto il presente «postcoloniale». Rotto il compromesso welfarista del novecento, al contempo conquista e pacificazione della conflittualità operaia e delle lotte di donne, studenti e antirazzisti, le coordinate dello sfruttamento capitalistico hanno assunto una nuova dimensione spaziale e temporale. Le multinazionali hanno dislocato la produzione, «la sede a Manhattan e i lavoratori in Indonesia», ripristinando gli antichi rapporti coloniali all’interno di una nuova configurazione politica, sociale ed economica. Mentre il lavoro vivo – sempre meno coincidente con l’operaio, maschio, bianco di cui “grande fabbrica” e fordismo si sono nutriti – si è messo in movimento valicando confini simbolici e materiali, rimanendo imbrigliato in nuove gerarchie da attraversare e rovesciare. Per riprodursi, il capitalismo contemporaneo costruisce frontiere e passaggi lungo le differenze di sesso, etnia, religione, nazionalità. Segmenta il mercato del lavoro così come le relazioni sociali e lo spazio della cittadinanza: dentro chi sa essere produttivo e si assimila al modello egemonico delle whiteness, fuori tutti gli altri. Un processo di inclusione selettiva e di etnicizzazione delle differenze, trama del progetto multiculturalista.

Il New Labour britannico, nella conversazione tra Hall e Mellino, è attore di una «strategia neocivilizzatrice», un progetto storico di «(auto)costruzione egemonica» pervaso dalla logica del mercato. «Deve produrre soggettività per immettere le persone nelle proprie “strutture del sentire”» e così facendo intreccia «i modi di pensare, i media, la cultura, la lingua, la filosofia, l’economia, la Chiesa». È un processo aperto, sempre reversibile, aleatorio nei termini di Althusser, che vive tra forme disciplinari e di controllo, e momenti di insubordinazione e rottura conflittuale. Da una parte l’ansia securitaria e l’assimilazione alla Britishness, dall’altra la surdeterminazione del sentimento religioso, ovvero la produzione di conflitti lungo le nuove linee di stratificazione della società britannica postcoloniale: la crescente attenzione dei giovani musulmani britannici per gli imam radicali così come la rivendicazione all’uso del hijab da parte di ragazze anche giovanissime.

Ma la politicizzazione delle differenze – dell’Islam in questo caso – è un processo delicato, dal portato ambivalente. Le differenze sono un prodotto del capitalismo, non solo spazio di resistenza alle discriminazioni e allo sfruttamento. Possono dunque riprodurre linee di separazione e barriere, e sostenere la produzione di identità chiuse e separate che resistono al cambiamento, riproponendo il fantasma dello scontro di civiltà. Compito di chi fa Cultural Studies diventa dunque indagare la condizione politica e culturale dei soggetti, problematizzare i comportamenti: agency, soggettività, resistenza culturale, articolazione delle differenze e sutura dell’identità, sono gli strumenti analitici.

Stuart Hall è un intellettuale diasporico: in prima persona ha fatto i conti con «la cultura del colonial-master a casa “sua”», ha dislocato la sua esperienza attraverso confini geografici e disciplinari. La diaspora è il filo conduttore della sua riflessione; un progetto di disseminazione, di ibridazione dell’esperienza culturale, legato al colonialismo, alla schiavitù, alle migrazioni forzate e volontarie, alla governance neoliberista. È Una condizione comune del presente e, tuttavia, un concetto controverso: a tratti «estetizzante», a tratti incapace di rovesciare la retorica essenzialista dello scontro di civiltà, di «spezzare la gabbia “razziale” o gli “orientalismi” costruiti dal potere». Certo è che la diaspora segnala la necessità di mettersi in traduzione, di articolare le differenze: rompere confini e barriere per produrre nodi, legami, giunture. E questo non può darsi al di fuori del potere. I Cultural Studies non possono dunque chiudersi dentro un vuoto formalismo, devono al contrario operare con «spirito antagonista», «connessi con la critica politica del regime al potere». E quando questo non si dà, sono finiti fuoristrada.