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Neoliberismo e razionalità a-democratica

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Intervista a CHRISTIAN LAVAL - di DAVIDE GALLO LASSERE

Riprendiamo da “Alfabeta” (maggio 2012) questa intervista fatta da Davide Gallo Lassere a Christian Laval, autore insieme a Pierre Dardot de La nuova ragione del mondo (libro di recente edito da DeriveApprodi e di cui abbiamo anticipato la prefazione nella nostra Common Gallery). Per l’inizio di giugno Commonware ha organizzato delle iniziative a Bologna con Laval e Dardot, per discutere della loro “critica alla razionalità neoliberista” e del nuovo volume sul comune, che sta per uscire in Francia. Chi vuole prendere parte alla costruzione delle iniziative può contattarci.

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Christian Laval, lei è sociologo a Nanterre presso il laboratorio Sophiapol, membro del consiglio scientifico di Attac e ricercatore all’istituto della Fédération syndicale unitaire; in qualità di specialista di Jeremy Bentham, ha dedicato negli ultimi anni diversi studi alla ricostruzione critica del pensiero e delle politiche liberali e neoliberiste[1].Contrariamente all’idea corrente, che vede nel neoliberismo una progressiva, multiforme e sempre più pervasiva deregolamentazione in ogni ambito della società, lei sostiene che si tratti piuttosto di un’edificazione attiva e zelante di un quadro complessivo di circostanze favorevoli al buon funzionamento della concorrenza e del mercato. Questo interventismo continuo e sempre più generalizzato del potere statale affonda le proprie radici in una concezione scientifica dell’uomo inteso come homo oeconimicus. In che misura, ormai, lo Stato stesso si fa promotore di una tale interpretazione economicistica dell’uomo, delle relazioni sociali e delle istituzioni?

Ciò che designo con “uomo economico”, e che distinguo dall’homo oeconomicus, espressione latina inventata nel XIX secolo in un senso ironico e peggiorativo, è un certo tipo umano di lontana provenienza, frutto di molteplici elaborazioni avvenute dall’Italia rinascimentale e cristallizzatesi in questa forma antropologica tra la fine del XVII e nel XVIII secolo in Francia, Inghilterra e Scozia. Il governo moderno, come mostrato da Foucault, ha per riferimento, bersaglio e materiale questo uomo economico, come si vede in maniera esemplare nell’opera filosofica, giuridica e politica di Jeremy Bentham. Non è dunque una novità radicale. La novità del neoliberismo, però, consiste nella congiunzione di un costruttivismo dichiarato e di un’antropologia economica generalizzata.

Il neoliberismo è essenzialmente un progetto di trasformazione della società. Mira a costruire una società di mercato con strumenti giuridici, istituzionali e politici determinati a partire dai fini che si propone di realizzare.

Lo Stato, in questo dispositivo, non si ritira affatto, non cede il suo posto al mercato secondo un movimento di semplice arretramento, come ripetuto dalla vulgata anti-neoliberista da venti o trent’anni. Lo Stato riorganizza attivamente i campi di attività ed esistenza secondo la logica di mercato; “costruisce dei mercati”, per riprendere un’espressione della sociologia economica. Ciò significa che trasforma anche più direttamente gli individui in “uomini economici”, piazzandoli in situazioni in cui ciascuno deve far giocare il suo solo interesse personale in un contesto di rivalità per delle “risorse rare”, secondo la formula dogmatica degli economisti. Ma lo Stato si riorganizza, si rifonda e si ridefinisce esso stesso secondo questa medesima logica di mercato. Non arretra, ma si piega alla norma della concorrenza e prende in ogni caso a modello l’Impresa. Questo è tutto il segreto delle politiche neoliberiste di “modernizzazione” del settore pubblico. Più che mai, è importante comprendere che Stato e mercato non sono due realtà storicamente indipendenti. La novità, in altre parole, è che lo Stato cerca di strutturare la società imponendo un sistema di norme e di riforme istituzionali direttamente tratte dal mondo capitalistico. Ciò è particolarmente manifesto nell’ambito dell’educazione o della sanità. L’Impresa è divenuta un modello universale e il compito pratico delle politiche neoliberiste consiste nel far entrare le istituzioni esistenti all’interno di questo modello unico. Mettere in luce questa natura profondamente costruttivista, interventista, del neoliberismo implica la rinuncia a scrivere una “storia intellettuale del liberismo” a vantaggio di una genealogia dei rapporti tra la riflessione teorica e le pratiche politiche.

Nel libro scritto a quattro mani con Pierre Dardot, per qualificare la nuova forma di razionalità dominante nel capitalismo contemporaneo, avete coniato l’aggettivo “a-democratica”. Questo tipo di razionalità, benché si pretenda assiologicamente neutro, scatena numerosi processi “post-democratici” o di “de-democratizzazione”, per riprendere le espressioni di Colin Crouch e Wendy Brown da voi stessi adottate. In che modo una certa idea della scienza, in particolare della scienza della natura – la quale si pone al di là dei giudizi di valore –, ha confezionato un tipo di ragione impermeabile alle istanze che scuotono la società civile?

L’attualità più recente in Europa mostra a che punto la democrazia liberale è in agonia. I segni di “uscita dalla democrazia” non sono più soltanto inquietanti, sono terrificanti. Questa uscita si opera a più livelli, che si completano e fanno sistema. Xenofobia anti-immigrati, nazionalismo, potere poliziesco, violenza manageriale, ricatto degli organismi finanziari: si tratta di una congiunzione di fattori che fanno fuoriuscire le nostre società dal letto della democrazia liberale. Ciò non significa che questa forma politica abbia costituito la quintessenza della libertà e nemmeno che potesse pretendere di costituirne l’ultima realizzazione. La democrazia liberale, come mostra Marx sulla scia di Rousseau ed Hegel, si definisce come scissione tra due mondi, il mondo economico dei bisogni e degli interessi, da un lato, e il mondo politico, quello delle idealità e dell’interesse generale, dall’altro. Nello specifico, l’articolazione tra i due mondi ha assunto la forma elettorale del suffragio universale. Regime sicuramente imperfetto, ma che aveva il merito di fornire all’emancipazione politica se non altro un minimo di realtà. Ciò detto, affidare al “popolo” una sovranità è stato l’oggetto delle più grandi inquietudini: in che modo delle decisioni politiche ragionevoli potrebbero emergere da popolazioni in preda alle passioni più vive e incontrollabili? Una delle “soluzioni” avanzate specialmente dagli economisti è consistita nell’inquadrare le decisioni politiche in un insieme di saperi dalle pretese scientifiche che forniscono non tanto dei consigli o delle “chiarificazioni” (secondo il modello dell’“aiuto alla decisione”) quanto delle norme da rispettare obbligatoriamente da ogni responsabile politico. Il modello è stato fornito dai fisiocratici francesi della metà del XVIII secolo, i quali hanno fatto a loro tempo la teoria del “dispotismo dell’evidenza” che si imponeva anche al monarca più assoluto. La scienza dell’economia e della società, che aspirava allo stesso grado di verità della scienza della natura, si è dunque “proposta” agli uomini politici come la vera scienza del politico. Ma nella democrazia liberale, questa scientificità del politico non poteva imporsi unilateralmente ed esclusivamente per il fatto stesso dell’esistenza di una sfera politica e di mobilitazioni sociali che obbedivano ad altre considerazioni e ad altre logiche. Per dirlo rapidamente, il conflitto politico e sociale, benché circoscritto e canalizzato istituzionalmente e ideologicamente, impediva la piena affermazione assolutista di una scienza del mondo economico e sociale.

Potrebbe focalizzare ora l’attenzione sulla centralità che un simile “interventismo” politico-scientifico ha assunto nella costituzione ideale ed effettiva dell’Unione Europea? Specialmente attraverso l’apporto dei teorici ordoliberisti, l’economia si è elevata a scienza “ancella del potere”, favorendo un’ingegneria sociale via via più normativa.

L’equilibrio della democrazia liberale, legato alla pluralità delle sfere o all’autonomia dei campi, ha cominciato a essere spezzato dalla “rivoluzione neoliberista”. Il discorso economico contemporaneo, nella versione cosiddetta “neoclassica”, costituisce da trent’anni una forza molto attiva che, attraverso le scuole del potere e dell’alta amministrazione pubblica, ha contribuito a trasformare l’economia e la società piegandole agli schemi dominanti: universalizzazione della concorrenza, primato dell’interesse individuale, libertà delle imprese, espansione della finanza di mercato, eccetera.

Il problema non è soltanto che questi economisti dominanti non hanno previsto la crisi attuale, ma sta nel fatto che l’hanno provocata in quanto nuovi Dottori della fede. Uno dei tratti che spiegano il loro successo dipende dal fatto che hanno saputo dotare di un aspetto matematicamente sofisticato dei precetti pratici risultanti dal funzionamento del capitalismo stesso. Ampia tautologia, la cosiddetta economia scientifica è anche una grande arte della formalizzazione astratta dei processi economici. Questa formalizzazione ha un’efficacia simbolica che fa di ogni riforma liberista non una politica tra le altre ma una necessità assoluta. La scienza economica dominante è essa stessa una forza antidemocratica che si dispone “naturalmente” al servizio delle forze economiche e politiche che intendono liquidare le conquiste democratiche del XIX e XX secolo. E la crisi che subiamo offre agli economisti dominanti un’occasione ancora più propizia di vedere i poteri applicare il loro modello di società. In particolare ciò accade quando i dirigenti politici sono stati loro stessi formati intellettualmente nelle business schools e nelle banche americane, come avviene sempre più sovente in Europa…

Non dimentichiamoci però che la storia del neoliberismo non si riduce a una sorta di invasione anglo-americana nella nostra bella Europa continentale. Questa visione è completamente falsa. Nella Nouvelle raison du monde, scritto con Pierre Dardot, insistiamo su momenti e aspetti della costituzione europea dagli anni ’50 conosciuti ancora troppo male, in particolare sull’importanza teorica e politica della corrente della scuola di Friburgo sorta attorno a Walter Eucken[2]. Si può dire senza alcuna esitazione che non si comprende nulla della crisi attuale che attraversa l’Europa senza avere chiaro in testa che cos’è l’“ordoliberalismo tedesco”. Questa forma di neoliberismo ha per principio che l’ordine politico dello Stato di diritto non può riposare che su un ordine di mercato in grado di assicurare la “sovranità del consumatore”, un ordine che, a sua volta, non può essere stabilito che dalla costituzione. Ciò si traduce quindi nella costituzionalizzazione della “concorrenza libera e non falsata” e nell’indipendenza della banca centrale. Non viviamo certo l’incompiutezza del modello ordoliberista, come pretendono i dirigenti europei che ora vorrebbero costituzionalizzare la politica budgetaria degli Stati membri, ma le sue contraddizioni.

Per concludere, le domanderei di delineare brevemente il profilo di un’ipotetica relazione virtuosa tra saperi e politica; in che modo la scienza potrebbe porsi al servizio dell’estensione e intensificazione dell’esercizio della democrazia? La competenza militante volta ad affrontare l’avversario sul proprio terreno, l’intellettuale specifico à la Foucault o à la Bourdieu, può ancora giovare e trarre giovamento dai vari movimenti?

Tutto ciò che è appena stato detto indica che la resistenza al neoliberismo suppone un livello molto alto di conoscenze negli ambiti più disparati, un lavoro di ricerche molto lungo e difficile. Sarebbe molto rischioso pretendere che le lotte di oggi non abbiano più bisogno di studiosi, che non abbiano più niente a che fare con la produzione intellettuale che avviene al di fuori di esse e che possano generare da sole le “armi delle critica” di cui avrebbero bisogno. Questo genere di spontaneismo è molto antico ma si è riproposto grazie all’idea che il salariato avrebbe conosciuto una tale crescita d’intellettualità che ormai il lavoro critico potrebbe realizzarsi integralmente in seno al movimento sociale. Il rischio di questo genere di concezioni è di supporre che il superamento storico della divisione del lavoro tra “intellettuali” e altri lavoratori sia d’ora in avanti pienamente compiuto. Il momento in cui ci troviamo non è ancora questo. Ma è vero che il ritratto dell’intellettuale “profeta ispirato” come quello del dotto guida suprema delle masse sono stati completamente cancellati dalla storia.

Foucault o Bourdieu hanno entrambi incarnato in Francia delle figure alternative dell’intellettuale, che non bisogna confondere. Nella concezione di Foucault, nata nel corso delle sue esperienze politiche degli anni ’70, l’intellettuale specifico che prende la parola per denunciare le condizioni subite dagli operai, dai carcerati, dai malati, dagli alunni, è un lavoratore molto qualificato (un medico, un ingegnere, uno psichiatra, un professore, ecc.) che interviene in quanto appartenente al mondo che critica e a partire dalla sua conoscenza intima dei meccanismi di potere che vi funzionano. È proprio in quanto la sua pratica lo confronta a dei rapporti di potere insopportabili che prende la parola, come nel caso del GIP (Gruppo Informazione Prigioni).

L’intellettuale “bourdieusiano” è molto differente. Per certi versi, nel suo statuto e nelle sue funzioni, questo intellettuale rimane molto classico. È innanzitutto un ricercatore professionista che produce dei lavori “impegnati”, nel senso che opera uno “svelamento” delle forme d’oppressione, delle menzogne, dei “misconoscimenti” propri ai meccanismi di dominio. Ma le ricerche di questo studioso devono farsi in un campo scientifico “autonomo” rispetto ai poteri, affinché esse abbiano un’efficacia simbolica e politica. I due progressi di Bourdieu negli anni ’90 consistono nel richiamarsi a un “intellettuale collettivo”, ossia a un collettivo di intellettuali che riuniscano le loro forze per condurre questo lavoro critico. È l’esempio dell’associazione Raisons d’agir. Il secondo progresso, più audace, consiste nella volontà di creare dei dispositivi permanenti d’alleanza e di lavoro comune tra militanti e ricercatori.

Si capisce meglio, quando si ricordino queste due concezioni, quali possono essere le grandi forme della loro congiunzione oggi. Quest’ultima si realizza in tutte le iniziative e in tutti i luoghi che integrano gli “intellettuali specifici” à la Foucault negli “intellettuali collettivi” à la Bourdieu. È ciò che potremmo chiamare “l’apertura di campo scientifico” ai mondi professionali che fa sì che questi ultimi partecipino alla produzione di conoscenze. Un’altra forma di congiunzione si traduce, in un altro senso, tramite l’intervento via via più frequente di ricercatori nelle associazioni militanti, nei sindacati, nei movimenti sociali. Si tratta allora di un’“apertura di campo politico e sindacale” al mondo scientifico. I ricercatori contribuiscono a chiarire l’azione grazie a una sorta di “contro-perizia”.

Da vent’anni in Francia queste due logiche hanno permesso di intensificare gli scambi tra professionisti e ricercatori, dando luogo progressivamente a un nuovo tipo di legame tra l’azione e la produzione intellettuale, un’articolazione che non ha più niente a che vedere con i vecchi rapporti tra i partiti e gli intellettuali cosiddetti “organici”. Dal canto mio, provo a contribuire a questa invenzione nel quadro dell’istituto di ricerche della Fédération syndicale unitaire (la quale riunisce i principali sindacati dell’insegnamento), che immagino un po’ come un laboratorio tra gli altri di questa nuova articolazione.



[1] L’homme économique, Gallimard, 2007 ; La nouvelle raison du monde, con P. Dardot, La Découverte, 2009 ; La nouvelle école capitaliste, con P. Clément, G. Dreux, F. Vergne, La Découverte 2011; nel mese di marzo è appena apparso presso Gallimard, sempre con P. Dardot,  Marx, prénom : Karl.

[2] Walter Eucken (1891-1950) è stato il fondatore della scuola economica ordoliberale di Friburgo, variante tedesca del neoliberismo. Eucken pose il problema dell’intervento attivo dello stato nella vita economica in termini qualitativi, mostrando tutta l’importanza della creazione di basi giuridiche adatte al pieno sviluppo concorrenziale della società di mercato.