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Spine e possibilità della lotta alla corruzione: contributi al dibattito #2

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Intervento di David Marcos

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 → Testo di presentazione del dibattito

Sviluppismo e corruzione: l’altra faccia della medaglia

Il tema della corruzione sembra prestarsi ad un facile ragionamento: essa è cattiva e deve quindi venire sradicata. Tuttavia, i fraintendimenti presentano strategie d'accoppiamento curiose. Ad esempio, la lotta alla corruzione è stata invocata sia dalla sinistra, che l'ha considerata come uno strumento di controllo da parte delle elite, sia dalla destra nel contesto della cosiddetta “Agenda del Buon Governo” [Good Governance Agenda], un programma volto all'introduzione delle “buone” pratiche capitalistiche nelle procedure di governo dei paesi in via di sviluppo.

Il grosso della confusione si deve all’eccessiva semplificazione rispetto a ciò che la corruzione è, nonché alla mancanza di quadri di riferimento generali in grado di situarne l’analisi all’interno del più ampio processo di sviluppo. Chiaramente, non tutte le corruzioni sono uguali. Possiamo ad esempio considerarne la scala: tra il poliziotto che accetta una mazzetta e il politico che s’intasca una tangente esiste certamente una differenza di livello. Tuttavia, più interessante risulta la distanza che separa la corruzione sviluppista da quella non-sviluppista. Il fatto che la corruzione possa accompagnare positivamente taluni percorsi di sviluppo non è nuovo: abbiamo ad esempio, benché ancora molti la trovino assai preoccupante, la teoria del “bandito errante” [roving bandit] come caratterizzazione della corruzione sviluppista. Ciò detto, se ci soffermiamo un attimo sui dati recenti legati allo sviluppo, notiamo che molti dei paesi che hanno meritato sul campo la qualifica di “industrializzati” – per esempio la Cina o la Corea del Sud – sono considerati altamente corrotti. Al contempo, altri paesi – per esempio il Pakistan o la Nigeria – sono utilizzati come prove del fatto che un alto livello di corruzione comporta la persistenza del sottosviluppo. Come possiamo dunque interpretare questa situazione – tracciate a grandi linee?

In primo luogo dovremmo liberarci da termini semplicistici quali “buono” o “cattivo”. La corruzione è comunemente vista come un “gioco a somma zero”: il denaro passa di mano ma non viene né creato né distrutto all’interno del gioco corruttivo. Ne deriva che un primo, intuitivo modo di caratterizzare la corruzione si concentra sullo scopo per il quale i soldi “sporchi” vengono utilizzati. Poniamo per esempio che un poliziotto in un paese in via di sviluppo prenda soldi dai conducenti d’auto attraverso l’accusa infondata d’infrazioni al codice stradale. Probabilmente il poliziotto proviene da una classe sociale inferiore a quella di chi in un paese povero può permettersi un’auto, quindi possiamo dire che, nell’ipotetico caso in cui questo denaro fosse usato per pagare le tasse scolastiche della figlia, la corruzione ha prodotto un effetto redistributivo in grado di produrre crescita. Gli approcci neoliberali contestano questa visione attraverso il concetto di “perdita netta” [net loss]: le risorse sprecate per procurarsi il denaro – nel caso del poliziotto, il non fare il proprio lavoro al fine raggirare gli automobilisti – finiscono per annullare il beneficio netto della corruzione. Si prenda però un altro esempio: lo sviluppo della Corea del Sud si è basato su un regime capitalistico notoriamente corrotto, in cui le autorità hanno mantenuto uno stretto controllo sulle concessioni – talvolta addirittura sulla proprietà – dei mezzi di produzione. In sostanza, rifiutarsi di pagare tangenti alle autorità avrebbe comportato la perdita dei propri possedimenti. Tuttavia, la capacità di pagare il “pizzo” era legata a doppio filo al grado di efficienza di queste industrie: per questo motivo si era creato un circolo virtuoso all’interno del quale le aziende percepivano la propria abilità di procacciarsi concessioni come un segno della propria capacità di competere sul mercato. Una tale situazione mina alle fondamenta la teoria neoliberale che vede nell’inviolabilità dei diritti di proprietà privata una condizione necessaria per lo sviluppo. Possiamo inoltre sostenere, richiamando il cosiddetto “dibattito Brenner”, che lo stesso capitalismo sia emerso in un contesto di diritti di proprietà deboli. Il capitalismo inglese fiorì proprio perché la monarchia in crisi non fu in grado di proibire le recinzioni – cioè il furto – delle terre comuni.

Nonostante ciò, tanto i neoliberali quanto gli anti-imperialisti avanzerebbero ancora i casi di Pakistan e Nigeria come contro-esempi. Per capire il perché dobbiamo introdurre un altro concetto necessario per cogliere la natura della corruzione. Si tratta del cosiddetto “accomodamento politico” [political settlement] che caratterizza ciascun paese, cioè di uno strumento particolarmente utile per spiegare il successo o il fallimento di determinate politiche di lotta alla corruzione. Nel caso del Pakistan, notiamo che per quanto le politiche implementate siano simili a quelle della Corea del Sud, esse hanno fallito. La cosa è spiegabile perché mentre l’accomodamento politico sud coreano era caratterizzato da una classe politica centralizzata, una società uniforme ed una élite economica frammentata, quello pakistano si fondava invece su di una società frammentata, un governo debole ed una classe economica relativamente coesa. In quest’ultime circostanze le imprese erano in grado di gestire in proprio le concessioni ed una serie di altri privilegi senza pagare alcunché. Per questo l’implementazione di questo tipo di politiche produrrebbe risultati catastrofici in Congo mentre funziona molto bene in Cina. Questo perché, evidentemente, il Congo e la Cina sono paesi diversissimi, diversità che tuttavia non viene presa in considerazione dalle analisi monodimensionali del fenomeno corruzione.

Oltre ad essere talvolta economicamente efficiente e addirittura progressista, la corruzione gioca un ulteriore, importante ruolo nei paesi in via di sviluppo: essa mantiene la stabilità. Sebbene in questo contesto parlare di stabilità posso suonare reazionario, è vero l’opposto se prendiamo come esempio le vicende attuali dell’Afghanistan: uccisioni senza motivo ed onnipresenza della violenza armata non ci paiono segni di progresso – ma a questa questione si dovrebbe dedicare un altro dibattito. Il punto è che tutte le società hanno strumenti per gestire i propri elementi più “pericolosi” in qualche modo “corrompendoli”. Nelle economie avanzate questo processo prende la forma del welfare state o di qualche tipo di concessione legale a favore di determinati gruppi. Nei paesi in via di sviluppo la politica funziona in modo molto diverso. Non ci sono sufficienti risorse per accontentare tutti legalmente, quindi si ricorre a forme di clientelismo. Qui clientelismo va inteso come un sistema di transazioni informali finalizzato a mantenere la stabilità impedendo – per via corruttiva – agli elementi più pericolosi di creare danni. Lottare contro questo tipo di corruzione può comportare danni anche maggiori, come dimostra il caso afgano. Lo smantellamento di queste alleanze informali – specialmente in assenza di una loro sostituzione con meccanismi altrettanto efficaci – non solo non funziona, ma di norma inasprisce le tensioni.

È quindi nostra opinione che la cosiddetta lotta alla corruzione sia, nella migliore delle ipotesi, un’altra strategia occidentale – benintenzionata ma mal costruita. Nella peggiore delle ipotesi, essa è invece un modo per bloccare i processi di sviluppo nel Sud globale. Ovviamente, con questo non si vuol sostenere che la corruzione non vada contrastata. Semplicemente, avanziamo l’ipotesi che vada in primo luogo analizzato il tipo di corruzione con il quale si ha a che fare, e successivamente valutare con sano realismo quali misure è possibile mettere in campo. Talvolta non fare nulla è l’opzione migliore, dal momento una generica lotta alla corruzione non significa proprio niente.

 

* Traduzione di Lele Leonardi.