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Brasile, amaci o lasciaci perdere in questo Mondiale. Oziologia di una guerra psicologica

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di HUGO ALBUQUERQUE

L’anno 2014 è appena iniziato e un tema è già affermato: la Coppa del Mondo. Ma non come gli altri anni, quando il mondiale era un argomento calcistico o, al limite, dell’economia e della politica calcistica. Ora sarà in Brasile. E precede la realizzazione delle Olimpiadi 2016 a Rio de Janeiro. L’ultima volta che abbiamo visto qualcosa di simile è stato nel 1994 e nel 1996, quando gli Stati Uniti, in auge, realizzarono i due megaeventi in un intervallo di due anni. E a proposito del campionato mondiale di quest’anno si sente un discorso: esso deve avere luogo, a qualunque costo. Come potrà il Brasile essere preso sul serio, se non riuscirà a realizzarlo?

La Coppa del Mondo è tuttavia uno dei grandi progetti del piano “Brasil Maior” (Grande Brasile). E il “Brasil Maior”, a sua volta, può essere l'ultimo e meglio rifinito piano infallibile della nostra tradizione positivista. La sua finalità sarebbe convertire le nostre terre in un “paese serio”.  Un paese buono è un paese serio, austero e sobrio, perché solo così potremo essere equiparati alle vette della civiltà. Dobbiamo vivere di lavoro, mostrare la nostra rassegnazione di fronte al lavoro. Dobbiamo essere soci, ma soci in quanto uomini d’affari. Persino il calcio, fra i prodotti più democratici ed esuberanti dell’ozio creativo nazionale, occorre che si adatti agli affari per essere omologato e accettato dal nostro patriarcato.

In un paese che è reame dei sociologi è ora di proporre un’oziologia. L’oziologia è la scienza che spiega le funzioni decorrenti di un malinteso ontologico: dall’avvento del positivismo, con l’ascesa della Repubblica, dobbiamo competere con le nazioni “sviluppate” copiando il loro modello, facendone un’apologia perversa che è sboccata nella nostra auto-colonizzazione. L’ozio ha successivamente assunto un significato negativo e il neg-ozio, una negazione appunto, è diventato qualcosa di positivo, persino e soprattutto in senso morale. Il risultato pratico è l’inquietudine che ci assale: il traffico e l’inquinamento sono segnali di “progresso”, lo stesso si dica per il lavoro incessante, e se troviamo inappropriati vestiti eleganti e cravatte sotto il sole a quaranta gradi, è un nostro problema…

La criminalizzazione del riposo, del lavorare (solo il necessario) per vivere, ha criminalizzato con sé anche gli uomini liberi: gli indios, i vagabondi, gli ebbri, i folli, i neri e tutti quelli che non a caso sapevano quanto essere liberi significhi disporre di libertà fattuale, mutare le coordinate – e non solamente avere il diritto di muoversi su un binario prestabilito. Sono tutti quelli che sanno che la libertà è fatta di carne oppure è una prigione a cielo aperto.

Torniamo quindi al nobile sport bretone: da svago dell’aristocrazia nei suoi club a sport delle moltitudini, solo per essere riammesso, come vediamo, nei pranzi domenicali, nella misura in cui esso ha dimostrato la sua funzione affaristica ­– far divertire il popolo che lavora e, in seguito, generare rendita, “muovere l’economia”. Quanto era nobile è stato sovvertito, mutato in uno spazio per neri, rigettati, pazzi, per convertirsi nella sua ultima fase in luogo di ascesa sociale (e razziale) omologata.

È nel terzo stadio della nostra arte politica che si trova questo campionato mondiale. Che dire del terrore politico light dovuto alla necessità di realizzarlo – altrimenti, bambini, non saremo presi per seri fuori di qui –, o della guerra psicologica assicurata a spese delle truppe di Dilma, degli aerei robot dello spionaggio, delle squadre antisommossa fisiche o virtuali – che suggeriscono ai servizi segreti di mettere in atto la repressione, come se, in mancanza di qualcosa di meglio, il vecchio Serviço Nacional de Informações potesse diventare il nostro KGB.

Nulla di tutto ciò è frutto di una disgrazia trascendente, di una maledizione causata dalla nostra semplice elezione a paese sede. Una cosa del genere non sarebbe compatibile con la decisione politica di candidarci ad ospitarlo. Molte volte il grido anti-Coppa è caduto in superstizioni: per la destra l’errore sarebbe stato quello di far realizzare a un popolo pigro e inetto qualcosa da paese sviluppato, mentre per la sinistra consisterebbe nell’esserci lasciati corrompere dal male che viene da fuori, o forse no, non avremmo dovuto spendervi denaro pubblico (e staremmo forse disturbando le attività di chi lavora). Un lieto inganno, quindi.

Il punto della questione è ragionare al di là dell’arroganza sistematica e della sindrome da eterni senzatetto, entrambe lati della stessa medaglia. La realizzazione di megaeventi come la Coppa del Mondo non è una specie di maledizione, ma poteva essere l’opportunità per togliere vecchi dirigenti sportivi dal potere, stimolare lo sport dal basso e forse ottenere metropoli più utilizzabili – o meno deboli. Ciò non si è fatto, nonostante tutto. E il risultato dell’aver scelto un altro cammino, quando tutto poteva essere differente, è il nostro essere qui –comprovando in realtà la gravita della situazione.

Tutto il denaro è denaro comune, rappresentazione monetaria del valore. Poco importa l’uso del denaro pubblico o privato. La questione non risiede nel suo uso in sé, ma nella sua applicazione – cioè se la sua riconversione si apre in un ciclo che ci offre tempo di vita invece di rubarcelo ogni volta di più. Oggi la speculazione edilizia risultante dai megaeventi porta, all’interno di una politica deliberata, all’aumento degli affitti e dei valori immobiliari; le riscossioni dei proprietari in una tale carenza di abitazioni è a sua volta parte di questa favolosa rapina: occorre più tempo di lavoro quotidiano per avere un posto dove vivere, più tempo a casa dei genitori, fino all’autonomia.

Il #NãoVaiTerCopa (#IlMondialeNonSiFarà) dei manifestanti è il problema di gran lunga minore per gli organizzatori del torneo e i suoi potenziali beneficiari. Se c’è il rischio che il mondiale non si faccia, ciò non è da imputarsi al momento a cause erronee: non siamo a Monaco, nella quale si ebbe sufficiente onestà per votare – e rifiutare – la realizzazione dei Giochi Olimpici Invernali, ma in un paese in cui il medesimo oligopolio di appaltatori responsabili delle opere è quello che le minaccia, ritardando la loro realizzazione. Non che ciò svuoti il potenziale di lotta e la capacità dei comitati popolari della Coppa del Mondo e dei movimenti, come il 2013 ci ha insegnato – e nemmeno che obblighi a riscrivere il “não vai ter Copa” in una grammatica differente da quella del realismo politico, in un pensiero che concepisce il mondo solo secondo l’omologazione della magnificenza.

Se tutto ciò fosse un atto politico, i nemici e la rivolta se ne andrebbero certamente in un altro luogo. Ma non è così, sono solo affari, nulla di personale. E il calcio è nell’occhio del ciclone: la sua potenza travolgente nel riunire moltitudini, abbracciare tante differenze e instaurare un momento sabbatico come regola generale sarà forse capace di sottrarlo alla trappola di cui è prigioniero? Sia come sia, questo clima da ama-il-Brasile-o-lascialo proprio del 2014 deve essere posto in scacco.

 

* Pubblicato su Uninômade Brasil. Traduzione di Luca Guerreschi.